sabato 9 dicembre 2006

Ennio Flaiano, il grande incompreso

Dal mensile Area, febbraio 2002
«Giornalista e sceneggiatore, autore anche di un romanzo, Tempo di morire (concediamo a quest’ipotetica enciclopedia una citazione inesatta). Scrittore minore satirico nell’Italia del Benessere». Così Ennio Flaiano si definisce per una immaginaria enciclopedia «del 2050» in una intervista rilasciata a Il dramma nel 1972, pochi mesi prima della morte, che sopraggiungerà il 20 novembre per infarto. Scrittore raffinato e corrosivo, in questa autodefinizione sfoggia un concentrato della sua caratteristica ironia blasé, questa volta applicata a se stesso, ma anche la fiera consapevolezza di un intellettuale versatile e spudoratamente controcorrente che scriveva «per non essere incluso».
Attento quanto impietoso osservatore del costume italiano, rimane ancora oggi, a trent’anni dalla morte, un grande incompreso, troppo spesso riduttivamente ritenuto uno scrittore umorista e satirico e, come tale, considerato trascurabile e di poca importanza nel panorama delle lettere.
Niente di più fuorviante. Flaiano è stato senz’altro uno dei protagonisti più significativi del Novecento culturale italiano, avendo contagiato con il suo stile e la sua creatività, oltre che la letteratura, anche il cinema, il teatro e persino la televisione. Per rendersene conto basta scorrere le pagine del poderoso tomo che Bompiani ha appena mandato in libreria e che ripropone al pubblico le numerose opere postume del grande abruzzese (la stessa casa editrice ha in ristampa la raccolta dei volumi che lo scrittore pubblicò in vita e che rappresentano una minoranza delle sue opere, sei contro le quattordici postume).
Flaiano scrisse, in un celebre aforisma: «quando un autore muore, i suoi libri e sua moglie non interessano più, per un po’ di tempo». Non è certo questo il caso. Al contrario, le opere di Flaiano non hanno mai smesso di appassionare molti lettori, così come anche l’anziana vedova è stata fatta recentemente oggetto delle attenzioni dal Sindaco di Pescara, Carlo Pace, che le ha chiesto di restituire alla città abruzzese le spoglie dell’illustre concittadino.
E certamente Flaiano, l’abruzzese a Roma, è sempre rimasto legato alla sua terra d’origine, anche se la sua Pescara era una città diversa dall’attuale. Era un paese «di cinquemila abitanti», quello in cui nacque il 5 marzo di un «1910 così lontano e pulito che mi sembra un altro mondo», come ricorda lo scrittore. «Al mare si andava con il tram a cavalli e le sere d’estate si passeggiava, incredibile, per quelle strade dove sono nato, il corso Manthoné, ora diventato un vicolo e allora persino elegante».
Si trasferisce a Roma, dodicenne, nel 1922, viaggiando insieme ai fascisti che stavano facendo la loro marcia. Nei primi anni romani Flaiano è un fiume in piena, inizia a frequentare gli ambienti teatrali d’avanguardia e acquisisce i primi rudimenti per la sua attività di scenografo con il Teatro degli indipendenti di Anton Giulio Bragaglia.
Esordisce nel giornalismo nel 1933 e, in quaranta anni di attività, scrive più di mille articoli per un’infinità di testate che sarebbe pressoché impossibile ricordare, tanto è interminabile l’elenco. Si occupa di satira, di costume, di critica letteraria, cinematografica e teatrale.
Interrompe gli studi in architettura per partire, come sottotenente, per la guerra d’Abissinia, che lo impegna dall’ottobre del 1935 al novembre del 1936. L’esperienza bellica lo allontana definitivamente dal fascismo: «Una guerra, cui ho preso parte e che mi ha portato ventiquattrenne a ripudiare il fascismo e a desiderare che la cosa finisse, brutalmente, nella sconfitta».
La scelta di fare il critico cinematografico è senz’altro dettata dalla passione per il cinema, cui attribuisce una particolare facilità comunicativa, in un momento in cui «non si leggono più libri», ma è anche il pretesto per «parlare d’altro». Il critico cinematografico, così come lo intende Flaiano, «era uno che non capiva niente di cinema ma andava al cinema e faceva il pezzo sul cinema parlando d’altro. Era l’unico modo per protestare contro il fascismo».
Altrettanta distanza prende dall’antifascismo, in particolar modo da quello rivoluzionario comunista e dalla detestata pletora degli scrittori che, superfascisti durante il fascismo, andavano convertendosi alle nuove mode, improvvisandosi antifascisti. «Tizio, dall’8 settembre, fa lo scrittore di sinistra. Ossia s’interessa soltanto di personaggi umili e salariati, che descrive come può, con una certa retorica all’americana, cercando umilmente la loro simpatia».
Flaiano mette sullo stesso piano fascismo e antifascismo: «ognuno vuole la sua versione delle libertà, che consiste nel sopprimere quella dell’altro». Contesta alla Resistenza di fare una propaganda violenta: «la verità, caro amico, dal momento che me la imponi, non mi interessa […] La rivoluzione da noi è una forma d’investimento, di assicurazione per la vecchiaia. Io sono circondato da amici benpensanti che hanno per amici almeno due estremisti, uno per parte, […] Una volta si manteneva il figlio agli studi, oggi lo si mantiene nella contestazione, qualunque essa sia».
«Essere comunisti è un lusso», ammoniva Flaiano, e lui non può esserlo, semplicemente perché «non me lo posso permettere», aggiunge perentorio.
Nel 1946 Longanesi, favorevolmente impressionato dal talento di questo giovane abruzzese, lo esorta a scrivere un romanzo, assicurandogli persino un anticipo al fine di impegnarlo subito nella scrittura. Siccome per lo scrittore «pensare di deludere Longanesi era insopportabile», scrive il romanzo in pochi mesi e lo consegna all’editore per la pubblicazione.
L’opera, Tempo di uccidere, nella quale racconta la sua esperienza nella guerra d’Africa, sarà la prima e l’ultima prova narrativa di Flaiano. Negli anni successivi il corteggiamento del cinema e del teatro si dimostrerà una sirena troppo seducente. Eppure, evento raro in mondo culturale ingessato e spadroneggiato da pochi noti, l’esordiente Flaiano vince il Premio Stega.
Lucilla Sergiacomo nell’Invito alla lettura di Flaiano (Mursia 1996) sottolinea come la candidatura e la vittoria del premio indetto dai coniugi Bellonci fu «una mossa dell’editore per battere la produzione narrativa neorealista di sinistra, che faceva capo in quell’immediato dopoguerra a Moravia […] e Flaiano finì con l’essere definito e ritenuto il candidato dell’intellighentia liberale e della destra artistica e letteraria».
Collocazione, a destra, spesso confermata dallo stesso Flaiano, foss’anche solo come espressione di un incorregibile anticonformismo in un mondo culturale egemonizzato da un piccolo gotha di intellettuali appartenenti ad una sinistra con aspirazioni élitarie. Rimane celebre, al riguardo, l’aforisma nel quale afferma con ironia: «se non si è di sinistra a vent’anni e di destra a cinquanta, non si è capito nulla della vita».
Il romanzo rispose perfettamente alle aspettative di Longanesi. La lettura che lo scrittore abruzzese vi offre della guerra è tutt’altro che “neorealista”. Piuttosto, la sua è «una storia esemplare di valore allegorico e dai toni visionari e simbolici». Tutti gli avvenimenti “reali” passano in secondo piano rispetto alla vicenda “interiore” del protagonista. L’evento bellico è solo, per dirla con la Sergiacomo, «uno spunto di partenza subito relegato al ruolo di palcoscenico della drammatica storia del protagonista». E’ lo stesso Flaiano a descrivere gli intenti del libro: «L’esperienza ci porta a scoprire quello che siamo noi veramente. Io credo che questo non sia soltanto drammatico, ma addirittura tragico». E conoscere se stessi è più importante che conoscere la realtà, l’uomo prevale sul contesto, senza strumentali insegnamenti moralistici e finalità propagandistiche.
Grande importanza ha anche il contributo che Flaiano ha dato al mondo del cinema. La sua prima collaborazione risale al 1942, come aiuto sceneggiatore di Romolo Marcellini, ma la stagione più esaltante è senz’altro quella trascorsa affianco a Federico Fellini, insieme al quale ha sceneggiato film che hanno fatto la storia stessa del cinema italiano. Basti pensare a: Lo sceicco bianco (1952), I vitelloni (1953), che gli procurò persino una nomination all’Oscar, La strada (1954), Il bidone (1955), Le notti di Cabiria (1957), La dolce vita (1960), Boccaccio ’70 (1962), Otto e mezzo (1963), Giulietta degli spiriti (1965).
In questi film si riconosce l’impronta artistica di Flaiano, più di quanto lo stesso Fellini abbia mai ammesso, tendendo piuttosto a ridimensionare la valenza di tale apporto e «rilasciando in più occasioni valutazioni riduttive sul contributo di Flaiano alle sceneggiature», come registra con un certo disappunto la Sergiacomo.
Nel considerare determinante l’incidenza del lavoro di Flaiano sul prodotto finale di tali opere, la studiosa Cristina Bragaglia arriva a sostenere che la famosa storia de I vitelloni sia stata pensata e ambientata non soltanto a Rimini, come si pensa comunemente, ma nella stessa Pescara e che il personaggio di Monaldo, il giovane irrequieto che vuole andar via dalla provincia, sia lo stesso Flaiano che parla di se stesso.
Rimane però il giornalismo la sua attività principale, quella alla quale lui stesso assegnava un valore preminente, come testimonia il fatto che, tra i pochi libri che pubblicò in vita, ben tre sono raccolte di articoli scritti sulle più diverse testate: Diario notturno, Le notti bianche e Una e una notte. Nei primi anni Cinquanta partecipa al progetto editoriale de Il Mondo di Mario Pannunzio, che era stato suo direttore già dalle prime collaborazioni sul settimanale Oggi e su Risorgimento liberale, e voleva creare una terza via laica e liberale tra democristiani e comunisti.
Flaiano vive questi anni di collaborazione con entusiasmo, può esprimere senza subire compromessi e censure il suo «liberalismo illuministico, individualistico e interiore», pur sapendo che la sua utopica idea di libertà non ha riscontri nella realtà politica del momento. E’ disilluso al punto giusto da non credere alle «magnifiche sorti e progressive», anzi, non nasconde il suo pessimismo: «Essere pessimisti circa le sorti del mondo è un pleonasmo, non è che anticipare quel che accadrà». Nello stesso tempo è indifferente ad ogni leitmotiv qualunquista, e si tiene sempre a debita distanza da ogni coinvolgimento politico. Le sue idee non hanno cittadinanza nell’Italia di quegli anni, e lui sposa solo cause che sa essere assolutamente infruttuose. Manifesta un certo compiacimento nel sottolineare che «lo sforzo, lo snobismo di Pannunzio era di fare un giornale che respingesse l’attualità. Io dicevo che stavamo facendo sempre il numero precedente».
E invece, suo malgrado, Flaiano è ancora oggi estremamente attuale e siamo certi che, se fosse vissuto per altri cent’anni ancora, non si sarebbe stancato di denunciare i vizi e le contraddizioni dell’italiano «Qualsiasi», sempre uguale a se stesso, come lo dipinge magistralmente in queste brevi ma efficaci righe tratte dall’opera giovanile Supplemento ai viaggi di Marco Polo: «I secoli hanno lavorato per produrre questo individuo di stanche ambizioni, furbo e volubile, moralista e buon conoscitore del codice, amante dell’ordine e indisciplinato, gendarme e ladro secondo i casi. Nazionalista convinto, vi dice come si doveva vincere l’ultima guerra e a chi si potrebbe dichiarare la prossima. Evade il fisco ma nei cortei patriottici è quello che fiancheggia la bandiera e intima ai passanti: Giù il cappello!».

1 commento:

Anonimo ha detto...

Ho scoperto oggi il tuo blog, ho letto qualche articolo, che mi è decisamente piaciuto. Commento questo perché sono da anni un appassionato lettore di Flaiano. Un saluto, Andrea