mercoledì 21 luglio 2010

Edmond Dantès, una certa idea della libertà (di Diego Gabutti)


Articolo di Diego Gabutti
Dal Secolo d'Italia di mercoledì 21 luglio 2010
«Vecchi libertini a caccia di ragazzine imprevidenti, figli corrotti dal vizio, eroi demoniaci ossessionati dal diavolo, donne cadute dal cuore d'oro - erano questi», scrive George Steiner nel suo classico studio Tolstoj o Dostoevskij (Garzanti, 2005), «i personaggi di rito del repertorio melodrammatico. Afferrati dalla magia del genio, si trasformano nelle dramatis personae dei Fratelli Karamazov».

Certo, Alexandre Dumas non è Dostoevskij, ma anche nelle sue storie agisce la magia del genio. Per questo la sua opera non è caduta nell'oblio insieme ai feuilleton degli imbrattacarte suoi contemporanei (autori di terz'ordine come Eugène Sue, per esempio, che oggi non legge più nessuno, benché all'epoca fosse popolarissimo ovunque, persino in Russia, dove tra i suoi lettori entusiasti spiccava il giovane Dostoevskij).
Anche gli eroi di Dumas, come i calchi umani dell'autore dei Demoni e di Delitto e castigo, sono stati elevati al cielo in cui dimorano le maschere immortali della grande letteratura. Giuseppe Balsamo, i quattro moschettieri, il Cavaliere di Maison-Rouge e il Visconte di Bragelonne sono andati incontro più o meno allo stesso destino che sarebbe toccato, qualche decennio dopo, al vecchio Fëdor Karamazov, «cattivo e sentimentale» com'era, e ai suoi quattro figli: prima gli abissi della tragedia, poi l'immortalità. D'altronde anche alcuni personaggi dumasiani hanno avuto in sorte, proprio come quelli dostoevskiani, un'anima lacerata, e almeno uno di loro è diventato un archetipo. C'è bisogno di farne il nome? Tra tutti gl'indimenticabili personaggi da feuilleton di Alexandre Dumas particolarmente memorabile è Edmond Dantès, il Conte di Montecristo, per metà avventuriero byroniano, per metà Castello d'Otranto, per intero un protonichilista libertario e un po' dandy se mai ce n'è stato uno.
Esce in queste settimane da Donzelli (pp. 1124, € 28,80), una nuova, preziosissima edizione de Il Conte di Montecristo. Tradotta da Gaia Panfili e curata da Claude Schopp, studioso di Dumas e del romanzo d'appendice, questa edizione delle avventure d'Edmond Dantès è un libro da non perdere. Schopp, infatti, è uno che la sa lunga. Sa che anche Dantès, come i ragazzi Karamazov, non riesce a decidere fino all'ultimissima pagina — quando tutti i nodi vengono melodrammaticamente al pettine e rien ne va plus — da che parte schierarsi, se col diavolo o con l'acquasanta, col perdono o con la ritorsione, con i dolorosi tormenti del bene o con le delizie indubitabili del male. Schopp sa che Dantès è un Karamazov perché la sua vendetta «non è una vendetta comune ma un profondo interrogativo rivolto a un Dio incerto circa l'esistenza del male».Ma soprattutto conosce la storia della pubblicazione e della fortuna del Conte di Montecristo in ogni minimo dettaglio. Schopp firma una prefazione al Conte di Montecristo non meno avvincente e avventurosa del romanzo che introduce. Ci accompagna nelle boscaglie dell'isola di Montecristo, dove Dumas e il giovane principe Girolamo Bonaparte (che l'autore de I Quarantacinque e de La Regina Margot, non meno snob di Balzac e Proust, chiama ossequiosamente «sua altezza» e «mio signore») vanno a caccia di capre con lo schioppo, come i briganti laziali di Luigi Vampa che aiuteranno il Conte di Montecristo nelle sue mirabolanti imprese. Sembra che Dumas e il nipotino di Napoleone, bordeggiando lungo le coste del Mediterraneo, abbiano anche fumato insieme uno spinello o due (pare che il piccolo Bonaparte abbia pregato Dumas di non fare il suo nome, grazie, quando avrebbe raccontato l'episodio nei suoi Mémoires e resoconti di viaggio). C'è un pizzico di verità, si dice ancora, dietro la vicenda d'Edmond Dantés, le cui avventure s'ispirerebbero a quelle d'un galeotto vero, tale François Picaud, un calzolaio, la cui vicenda Dumas infiorettò, naturalmente, come feuilleton comanda, fino a renderla irriconoscibile. C'è sempre un pizzico di verità, del resto, in ogni possibile trama. C'è un pizzico di verità, giusto un pizzico, persino dietro le trame di Dostoevskij, a partire da quelle più convulse e improbabili, Karamazov compreso. A Dostoevskij, che in parte è filosofo, in parte profeta, capitò persino di scrivere una storia prima che s'avverasse. Ciò non di meno sia gli eroi di Dumas che i personaggi estremi del Grande russo sono maschere da feuilleton, carne da romanzo d'appendice, esattamente come scriveva George Steiner a proposito delle «dramatis personae dei Fratelli Karamazov». Romantico e cupo come il Principe Stavrogin dei Demoni, spietato e calcolatore come i cattivi dei fumetti, livido e persino un po' «cadaverico» come Lord Ruthwen, il vampiro di Polidori costruito a immagine e somiglianza di Lord Byron, il bel marinaio di Marsiglia tradito dagli amici e abbandonato dalla fidanzata, il cui unico amico è un vecchio ergastolano ossuto, l'Abate Faria, è la prefigurazione di tanti personaggi che popoleranno la letteratura moderna, dai magistrati metafisici di Kafka ai gangster blasé di Raymond Chandler, dai soavi curati assassini d'Agatha Christie agli usurai di Ezra Pound, su su fino alla Banda Nova di William Burroughs, dove distinguere i buoni dai cattivi è una faccenda estetica prima che etica. E non sono mancate interpretazioni esoteriche del Montecristo. Dantès, spaccato in due, contemporaneamente se stesso e il proprio doppio, è il trailer della commedia filosofica di Dostoevskij, non la sua caricatura.
Tutto è perfetto (cose, persone, paesaggi, esotismi, persino i dialoghi sopra le righe) nel Conte di Montecristo. C'è qualcosa di geometrico, cioè di necessario, in tutti gli snodi della trama. È addirittura una scena originaria (da allora ossessivamente imitata dagli epigoni) la trasformazione del giovane Dantès prigioniero nel Castello d'If in un uomo di scienza e in un gran signore. Grazie all'Abate Faria, «Robinson Crusoe delle prigioni ed erudito enciclopedista», che «plasma Dantès a sua immagine» facendone «un uomo nuovo, anzi un superuomo», come scrive Schopp, quello che all'origine, in fondo, era soltanto un romanzetto si trasforma in una macchina leibniziana, in un meccanismo a orologeria. Trasfigurato, «cambiato» come cambiano i posseduti e gli ossessi, il Conte di Montecristo deve far quadrare le somme dell'equazione infernale in cui si è trasformata la sua vita. Messia rovesciato, come i crocifissi nelle messe nere, il fu Dantès dovrà riscuotere ogni credito senza rimetterne neppure uno ai suoi debitori. Ma soprattutto, con l'aiuto di Dumas, grande maestro degl'intrecci, dovrà conservare la simpatia dei lettori di feuiletton, anche qui al pari dei personaggi dostoevskiani, pur comportandosi da perfetta carogna. Montecristo o nessuno: Dantès, trasformato dal tesoro di Montecristo in un archetipo, non è più Dantès. Toccato dall'oro alchemico dell'Abate Faria, Dantès è uno spettro «che si fa chiamare Montecristo, uno spettro che non appartiene più a questo mondo e che non si concede ai bisogni comuni dell'umanità», scrive Schopp. Come tutti i giustizieri, e a differenza (senza offesa) dei giustizialisti, il Conte di Montecristo mette paura anche ai giusti. Eppure generazioni di lettori, dal 1844, anno in cui apparve a puntate sul Journal des Débats, sono state solidali col suo furore, e la fortuna di questo invasato continua. Straordinaria (e ancora attuale) la frase dove si legge che «pochissimi hanno traversato le rivoluzioni, in mezzo alle quali siamo nati, senza che qualche macchia di fango o di sangue abbia lordato l'uniforme da soldato, o la toga da giudice...». Non solo. «Ricordiamo ancora quale peso ci scrollammo dal petto, e con che appetito facemmo colazione il mattino in cui il Journal des Débats ci informò che Montecristo era uscito sano e salvo dal suo sacco», scrisse Mérimée, cultore e traduttore di letteratura russa, qualche anno dopo. E da un suo racconto dumasiano Georges Bizet trasse la sua Carmen.
Diego Gabutti
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