Articolo di Federico Zamboni
Dal Secolo d'Italia del 5 dicembre 2010
Le classifiche di questo tipo non sono fatte di numeri. Sono fatte di parole. Le parole che useresti per giustificare una scelta, o per contestarne un'altra. Oppure, più semplicemente (e meno aggressivamente) le parole che utilizzeresti - che ti farebbe un gran piacere utilizzare - per rievocare i motivi che ti rendono caro un pezzo piuttosto che un altro. Ricordi squisitamente personali che a volte, non sempre, si sovrappongono all'immaginario collettivo, come stradine di provincia, o persino di campagna, che ogni tanto si ritrovano a incrociare strade molto più grandi.
Lo sai: Imagine di John Lennon è un inno di speranza che ha affascinato intere generazioni, fino a correre il rischio di diventare un luogo comune. Lo senti: Imagine è la miniatura esile e deliziosa che canticchiava la ragazza canadese che hai conosciuto l'ultima sera del suo soggiorno in Italia, accompagnandosi sul pianoforte dell'albergo in una hall ormai deserta - e schiacciando i tasti nel modo più leggero possibile per non dare fastidio.
Sono tanti, 500 brani. E allo stesso tempo sono pochi. Sono un lunghissimo elenco che avrebbe potuto essere dieci volte più esteso, espandendosi sino al limite esorbitante dei 5000, eppure escludere comunque quella certa canzone che a te, invece, sembra indispensabile. Sono una sequenza talmente ampia che cominci a leggere di slancio e dopo un po' ti viene voglia di saltabeccare da un punto all'altro, impaziente di essere sorpreso da qualcosa che ti eri dimenticato o rassicurato da qualcos'altro che non vedevi l'ora di trovare. Sono solo produzioni angloamericane, nel caso specifico, ma accidenti se c'è di che sbizzarrirsi. Un arco di tempo di svariati decenni, anche se sbilanciato a favore degli anni Sessanta e Settanta. Ai primi due posti, addirittura, due pezzi che risalgono allo stesso anno, il 1965, e che sono separati da appena tre mesi: il numero uno assoluto è di maggio, il numero due di luglio. Il numero uno è statunitense. Il numero due è inglese. Il numero uno è un solista. Il numero due è una band. Il numero uno è... Calma, lo sveliamo dopo.
L'insegna è altisonante: "Le 500 canzoni migliori di tutti i tempi". Lo stemma è autorevole e suggestivo, anche se più in virtù del suo passato che non del suo presente: Rolling Stone, il celeberrimo quindicinale statunitense che nacque a San Francisco nell'autunno del 1967 e che nessuno, neanche il più inguaribile degli ottimisti (o dei pessimisti?!), poteva immaginare che sarebbe stato in circolazione ancora oggi, a oltre quarant'anni di distanza. L'iter che ha condotto al risultato finale è accurato: sono stati consultati quasi 300 addetti ai lavori, tra musicisti, discografici, giornalisti specializzati e chissà che altro. Più precisamente, una prima rilevazione è stata condotta nel 2004, raccogliendo il parere di 162 persone, e una seconda l'anno scorso, con l'aggiunta di altri 100 interlocutori.
In altri termini, non si tratta affatto una novità assoluta. I risultati sono noti da tempo. Ma la differenza, oggi, è che l'edizione italiana di Rolling Stone dedica alla "Top 500" il numero di dicembre e, soprattutto, (ri)propone la lista con il corredo di un commento per ogni singolo brano, fino al numero 350. Qualcosa che hanno detto gli artisti che ne sono gli autori, o gli interpreti che li hanno portati al successo. Qualcosa che è stato detto da altri. Qualcosa che aggiungono i diversi redattori, che nella loro qualità di barman di questo ipotetico locale di chiacchiere rock possono variare le dosi a loro piacimento e tirare fuori, a partire dagli stessi ingredienti, le miscele più diverse. Creando, per così dire, una loro ulteriore classifica delle cose interessanti che si possono sottoporre ai lettori a mo' di presentazione di questo o quel pezzo.
Per esempio: prendiamo la canzone numero undici (la dieci era una soluzione troppo ovvia, con tutto il rispetto per Ray Charles e per la sua What'd I Say) che è My Generation degli Who. Leggiamo: «Il chitarrista degli Who, Pete Townshend, ha scritto My Generation, immortale vaffanculo al mondo adulto, nel giorno del suo 20esimo compleanno, il 19 maggio 1965, su un treno che lo portava da Londra a Southampton. La canzone non voleva essere un inno alla ribellione giovanile: era un blues in stile Jimmy Reed che rifletteva le paure di Townshend sui condizionamenti della vita adulta, catturate particolarmente nella strofa "Hope I die before I get old" ("Spero di morire prima di diventare vecchio"). "My Generation parlava di come trovare un posto nella società", ha spiegato Townshend a Rolling Stone nel 1987. "Ero davvero perso. La band era giovane. Credevamo che avrebbe avuto una carriera molto breve"».
Cose così. Cose che per coloro i quali la musica non è semplice intrattenimento, e men che meno semplice sottofondo, hanno l'importanza delle risposte alle domande latenti che si annidano in ogni passione. Non ci si accontenta del punto di arrivo. Non si vuole assistere solo alla scena principale, per quanto bella e compiuta essa sia. Si desidera conoscere il resto. Gli antefatti. Le conseguenze. Certi riverberi collaterali. Certe impressioni inattese. Per nulla oggettive. Del tutto seducenti.
Certo: i protagonisti sono personaggi famosissimi, e avviluppati nel mantello sfarzoso, e però ingombrante, che è tipico delle star, ma non è questa la molla dell'interesse. Non è gossip. È conoscenza. La luce che si insegue non è quella sovraccarica e a tratti accecante dello show, ma il bagliore amichevole di un piccolo fuoco nella notte. La classifica diventa una mappa: una carta geografica su cui qualcuno ha riportato i luoghi che secondo un gran numero di viaggiatori di lungo corso - tra cui Steve Van Zandt, tra cui Joni Mitchell, tra cui Solomon Burke - meritano assolutamente di essere visitati. Si sono dati un limite massimo, che era appunto di 500. Si sono applicati con la serietà lieve di chi si cimenta in un gioco che gli piace. Si sono certamente divertiti. Si sono certamente ritrovati solo in parte nell'esito conclusivo. Ne hanno preso atto, proprio come noi. Al primo posto c'è Like a Rolling Stone di Bob Dylan. Al secondo c'è (I Can't Get No) Satisfaction dei Rolling Stones. Sono realmente le due canzoni migliori di tutti i tempi? Bisognerebbe parlarne.
Federico Zamboni
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