Articolo di Adriano Scianca
Dal Secolo d'Italia del 4 dicembre 2010
Il riemergere delle proteste studentesche, con il classico corollario delle analisi isteriche un po' alla Bava Beccaris e un po' alla Vito Catozzo che invitano ad arrestare, bastonare, reprimere e militarizzare, ripropone drammaticamente il problema delle categorie con cui interpretare i fermenti giovanili. Categorie politiche, ma prima ancora sociologiche, quasi estetiche, addirittura. Bisogna andare a vedere davvero, cioè, chi sono, come parlano, come si vestono, cosa sognano i ragazzi che affollano in questi giorni le nostre strade. Magari anche per uscire dagli stereotipi sui capelloni fannulloni, che non hanno voglia di studiare e che invece di manifestare «dovrebbero andare a corteggiare le ragazze».
Per superare questo tipo di tardo-caradonnismo può essere utile allora ripercorrere le storie delle sottoculture giovanili di qualche anno fa, dove fraintendimenti di questo tipo furono all'ordine del giorno. Giunge allora particolarmente benvenuta la traduzione del saggio di Terry Rawlings Mod. Vita pulita in circostanze difficili (Arcana, pp. 224, € 25,00), dedicato appunto a quei ragazzi che nei tardi anni cinquanta cominciarono a girare in Inghilterra a bordo di Vespa e Lambretta al ritmo del rock degli Who. «Il Mod - scrive Luca Frazzi nella prefazione all'edizione italiana - ti sfugge di mano, lo dimostra la sua storia. Quando pensi di averne colto il senso, quello è già proiettato in un futuro che, ragionando anche in termini solo estetici, i "non Mod" faticano a immaginare». Ecco, appunto. Ti sfugge di mano. È l'espressione esatta. Non solo per i Mod, ma per tutte le forme di aggregazione, moda, avanguardia, stile, musica, cultura e sottocultura che a un certo punto finiscono per catturare intere generazioni in un quadro di riferimenti non sempre decifrabile con semplicità. Dal volume - splendidamente ricco, peraltro, di una quantità incredibile di foto e illustrazioni - emerge con chiarezza questa indefinibilità dei Mod, cultura sempre cangiante eppure, in qualche modo, sempre uguale a se stessa. Questo, peraltro, sembra poter distinguere questo stile da altre mode avvicendatesi nel corso degli anni, spesso caratterizzate da un'estetica estrema di cui poi, cambiato lo spirito del tempo, ci si chiede arrossendo: ma come è stato possibile? Richard Barnes, autore dell'introduzione, coglie bene questo aspetto: «Di tutti i movimenti adolescenziali - dice - il culto dei Mod è l'unico a cui, a distanza di anni, si possa guardare senza imbarazzi. Forse sarebbe il caso che le rivoluzioni giovanili si accompagnassero a un avvertimento salutare: "Il partecipante dovrebbe mostrarsi guardingo, dato che rischia di fare la figura del completo idiota e di finire, in seguito, per rimpiangerlo". Fortunatamente, i Mod non sfoggiavano perline degradanti, pantaloni bondage, pantaloni a zampa d'elefante in grado di comprometterne la credibilità». Non è poco. Ma c'è di più: «I Mod - scrive ancora Barnes - sono l'unico gruppo immediatamente abbracciato da diverse generazioni. I loro valori hanno trasceso le origini dei primi anni Sessanta del movimento e vengono riscoperti, ridisegnati e rinnovati nel corso di "revival Mod", con successive tribù di "nuovi Mod" che si fanno adepti nell'adozione e nell'adattamento degli originali». Il mistero si infittisce: canoni estetici e culturali sfuggenti, connotazione transgenerazionale... c'è il rischio di perdere di vista l'oggetto da decifrare. Di che stiamo parlando, insomma? Chi erano questi Mod?
Estrarre da volume di Rawling una definizione perfetta, esauriente e conchiusa in se stessa è probabilmente impossibile e forse sarebbe anche... "poco Mod". Sappiamo tuttavia che nei dintorni del 1958/59, dalle parti di Soho, ragazzi ben vestiti cominciarono a frequentare il Flamingo, un club in cui era possibile ascoltare del buon modern jazz. Vestirsi in modo elegante fu, sin da subito, un importante tratto distintivo. Serviva anche, a detta del pioniere Mod Graham Huges, «per avere un'aria diversa dal resto del pubblico del jazz, rappresentato in buona parte da studenti trasandati. Semplicemente, non volevamo indossare lunghi maglioni di lana e jeans macchiati di vernice». Prima ancora che nascessero gli hippy, quindi, i Mod erano già anti-fricchettoni per eccellenza. La stessa definizione dello spirito Mod che fa sottotitolo al libro ("Vita pulita in circostanze difficili", secondo le parole attribuite a Pete Meaden) appare emblematica, tanto che il già citato Richard Barnes è costretto a chiarire che non si tratta di uno «slogan di qualche svitato d'estrema destra ossessionato dall'igiene». Lo stile, fin da subito, ebbe un'importanza cruciale. «Per la prima volta in assoluto - ha detto Paolo Hewitt - i Mod misero in pratica uno stile di vita 24 ore su 24 che ruotava intorno a moda, musica, pillole e stile». Stile, soprattutto. Giovanilistico, contro gli ingessamenti vittoriani dell'Inghilterra pre-Beatles, ma non trasandato. Elegante, ma non snob. Ha detto Dicky Dodson: «Ci piaceva il jazz, però il jazz americano, e volevamo un look diverso. Italoamericano, tanto per cominciare, e non un look parigino, francese». Aznavour, Delon e Belmondo riusciranno qualche anno dopo a correggere quest'ultima preclusione. America, quindi. Poi, Francia. E, ovviamente, Italia. Vespa e Lambretta divennero ben presto uno status symbol. Ma prima ancora il Belpaese influenzò le avanguardie giovanili d'oltre-Manica attraverso la bicicletta. Accade infatti che in Fulham Road avesse aperto un negozio italiano di bici, per metà della famiglia Bertorelli. Fausto Coppi diventa un idolo e i più giovani andavano rigorosamente a scuola sulle due ruote. Con una banale Holdsworth inglese, se eri uno sfigato. Con una qualsiasi bici italiana, se eri un fico. Intanto nelle città si davano da fare anche gli irrequieti Teddy Boy, primo fenomeno di rottura esistenziale con il classico teenager britannico dell'epoca. C'era solo un problema: «I Ted sembravano tutti uguali. Crearono un look così preciso che divenne poco più di una divisa. I Mod non avevano una divisa. Erano principalmente maschi, vanitosi, snob e in larga parte proletari». Le differenze di stile sfociano spesso in scazzottate. Con i Teddy Boy, poi soprattutto con i Rocker. Tanto che a Leyton Baths, una sala da ballo londinese, qualcuno aveva tracciato una linea bianca per terra per spartirsi il locale senza spiacevoli incidenti. Per un po' funzionò pure.
Di lì a poco sarebbero comparsi gli Skinheads. Apolitici, prima, poi divisi tra nazionalisti e, per reazione, "antirazzisti". Nel 1964 e '65 le risse cominciano ad assumere dimensioni preoccupanti. I tabloid ci sguazzano, con titoli come "Barbari invadono il litorale", "Bande in scooter sconvolgono Clacton". Sì, lo so, sembra di leggere Libero, ma almeno all'epoca avevano la scusa della novità del fermento. Intanto il fenomeno acquista caratteristiche più rock. Mod significa, ora, ascoltare i Jam, The Who, The Byrds e gli altri. Il film Quadrophenia (del 1979, ma tratto dall'omonimo album degli Who del 1973) cristallizzerà per sempre stile e riferimenti culturali. Il resto è storia. E in Italia? Qui le sottoculture arrivano in ritardo e non senza confusione. Luca Frazzi ricorda che i Sex Pistols, figli degeneri dei già ribelli Mod, furono accolti dal Belpaese con un bel po' di fraintendimenti. «Da noi - dice - con un ritardo fisiologico di un paio d'anni (e a causa di quei blocchi ideologici che rendono la vita difficile ai Sid Vicious di casa nostra con la svastica al braccio), il punk arriva e all'inizio si scontra con un'opinione pubblica che lo vede schierato politicamente a destra». Insomma: l'italietta democristiana vede i punk e le viene naturale esclamare: «Sono fasci! Sono di destra!». Il nostro Paese era un'altra cosa. E, evidentemente, anche la destra era un'altra cosa.
Adriano Scianca
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