Dal Secolo d'Italia del 12 maggio 2011
C’era una volta un topo. No, non ci riferiamo a quell’irritante saputello di Topolino, né al nostro Topo Gigio, tanto “democristiano” e filogovernativo da chiudere una cinquantennale carriera televisiva facendo da testimonial per la campagna di prevenzione lanciata dal governo nel 2009 contro l’influenza A. Parliamo di un ratto tutt’altro che accomodante e risolutamente all’opposizione. Pronto a scagliarsi contro il sistema. Noir. Nero. Decise di uscire all’aria aperta, imbracciare una chitarra, dire la sua sull’universo mondo. Senza alcuna intenzione di tornare nelle fogne, com’era gentilmente sollecitato a fare dai più.
Era il gennaio del 1970 quando quel topo, disegnato dal francese Jack Marchal (classe 1947) e destinato a diventare un’icona della giovane destra, apparve per la prima volta in Francia per poi spingersi, negli anni successivi, fino in Italia. Di volantino in volantino, di ciclostile in ciclostile, dalle prime vignette sulla rivista satirica Alternative sino a un ruolo da protagonista sulla testata de La voce della fogna, il periodico irriverente per vocazione – “differente”, si definiva – fondato dal fiorentino Marco Tarchi, all’epoca punta di diamante dei giovani rautiani e oggi politologo e professore universitario.
Nato come rappresentazione autoironica dai giovani nazionalisti del Gud (gruppo di unione e difesa, formato dagli studenti di Occident), le rat maudit conquistò rapidamente i giovani simpatizzanti e militanti del Msi come anche delle formazioni extraparlamentari, irrequieti quanto insofferenti nei confronti di un ambiente di riferimento immalinconito dal nostalgismo e refrattario a ogni contaminazione con la modernità.
Soltanto molti anni dopo il topo sarebbe stato sdoganato ed eserciti di topini più o meno graziosi e decisamente intraprendenti – diventati nel frattempo investigatori, giornalisti (il mitico Geronimo Stilton), scienziati e altro – avrebbero popolato libri e pellicole fino a diventare veri e propri divi del cinema. L’esempio più eclatante, al riguardo, è quello di Remy, il protagonista di Ratatouille, il topo dotato di un prodigioso olfatto che in una Parigi immaginaria decide di “provarla nuova”, per dirla con un’espressione cara alla nuova destra. Le “tradizioni” di famiglia lo condannano a un futuro di mangia-spazzatura e la società civile non ne incoraggia le ambizioni, eppure vuole fortissimamente diventare cuoco. A sostenerlo non più una sparuta compagnia di militanti sognatori ma la corazzata Pixar, grazie alla quale si è aggiudicato l’Oscar come migliore film d’animazione. Così come quei “topi di fogna” che popolavano vecchie e polverosi sezioni di partito ora sono sindaci, presidenti di provincia, parlamentari e finanche ministri.
Parte del merito, tuttavia, potrebbe essere iscritto proprio a Marchal, il primo ad aprir loro i tombini e, come farebbe ogni genitore amorevole, a spedirli in Europa a farsi le ossa e maturare esperienze. Con un compito preciso: dimostrare al mondo che il militante di destra era ben diverso dal cliché caricaturale del neofascista. Pregiudizi che, paradossalmente, aveva coltivato anche Marchal prima della «presa di coscienza tardiva» in seguito alla quale diventerà egli stesso un movimentista di destra.
«Sebbene leggessi Nietzsche e Céline, ero stato vagamente di sinistra, facilmente anti-razzista, contestatore individualista – ha ammesso in un’intervista – e non avevo una grande opinione dei militanti politici in generale, detestavo quelli d’estrema destra che credevo volessero impedirmi di fare quello che mi pareva: la libertà, il rock, le donne, le feste».
Gli era bastato entrarne in contatto, tuttavia, per rendersi conto che a destra la goliardia e la leggerezza non erano certo disdegnate, il che non impediva a quei ragazzi e a quelle ragazze di essere a loro agio nel discutere con passione e competenza di immigrazione, economia, scienze sociali, ecologia, cinema e – perché no? – anche di musica rock. L’intolleranza albergava altrove. «Ho visto troppo da vicino i leader del maggio 68 alla facoltà di lettere a Nanterre – ha ricordato – per avere avuto la minima illusione sul loro conto. I media ci presentano quel periodo come una esplosione di libertà mentre invece quel periodo aprì una fase di terrorismo ideologico nelle università e nei licei. Gli stessi arroganti, gli stessi abruttiti impregnati di buona coscienza settaria che vediamo agitarsi all'interno dei gruppi antifascisti». Non rimaneva che buttarsi a destra. «L’incontro con i compagni all’università – ha spiegato – ha fatto il resto: i nemici di quei bastardi non potevano che essere miei amici. È così che ho fatto mia la croce celtica nell’inverno del 1966-67». Dalla celtica al topo. «Dopo il ’68 una miriade di gruppuscoli marxisti e dell'ultrasinistra aveva colonizzato le università e le riempiva di manifesti con testi noiosi, interminabili e ripetitivi. Noi cercavamo di distinguerci da quella banda di logorroici con slogan umoristici e una grafica alternativa. Non avevamo un simbolo, così una volta mi è venuto in mente di tratteggiare un topo, visto che i nostri avversari ci definivano così, che commentava in modo caustico e pungente gli avvenimenti politici intorno a noi. Avevamo trovato un simbolo per il nostro movimento da opporre al conformismo della sinistra marxista, verbosa e oppressiva». Un simbolo libertario che meglio di qualsiasi altro rappresentava il desiderio di ribellione di chi voleva vivere diversamente la politica, riappropriandosene: non più mera manovalanza spesa tra attacchinaggi e conferenze/passerelle a uso dei notabili di partito, ma un nuovo protagonismo giovanile in cerca di nuovi mezzi espressivi.
Grafico innovativo quanto originale, Marchal ha ispirato con il suo stile più generazioni di militanti del Fronte della Gioventù: adesivi, manifesti e volantini degli anni a seguire saranno nel “segno” inconfondibile di Marchal, inaugurato dal giovanissimo Sergio Caputo, all’epoca militante di destra, per realizzare la testata del periodico Alternativa.
Artista a tutto tondo, convinto che «tutto ciò che riguarda la cultura è un’arma politica», Marchal è anche un musicista innovativo. Come tale, alla fine dei Settanta sviluppò uno dei primi progetti di rock identitario sulla scia dei primi album dei Ragnarock in Germania e degli Janus in Italia. E proprio nel nostro paese presentò nel 1980 – in occasione del terzo Campo Hobbit tenutosi a Castel Camponeschi in Abruzzo – Science & Violence, Lp interamente scritto da lui e inciso nell’agosto del 1979 a Roma, nella sala prove messa a disposizione da Mario Ladich, batterista degli Janus. Lo realizzarono in tre, con Ladich e Olivier Carrè, musicista, pittore di talento e compagno di liceo e poi di militanza politica di Marchal, morto a soli quarant’anni la notte del 31 agosto del 1994 in un incidente motociclistico. Su quella moto erano saliti e caduti in due, ma Marchal ne uscì illeso.
Esperienza che forse ha contribuito a renderlo nemico di ogni celebrazione, foss’anche la propria. «Detesto per principio di idealizzare il passato. Noi siamo stati creativi in quel preciso momento, è vero, ma per necessità e forse senza averne piena coscienza. Volevamo far sentire musica a chi non la conosceva, parlare di ecologia a gente che se ne fregava, impiantare i concetti intellettuali della “nuova destra” a gente che era rimasta al “boia chi molla”».
Nazionalista impenitente, non ha certo mollato e soprattutto non ha cambiato idea sui sessantottini. «Si sono scambiati il loro marxismo con il più nauseante liberalismo mercante mantenendo la solita mentalità totalitaria. Quando sono al potere gli effetti sono evidenti: censura generalizzata, soppressione progressiva di tutte le libertà d’espressione».
Così parlò Jack Marchal e dargli torto è davvero difficile.
Roberto Alfatti Appetiti
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