Articolo di Mario Bernardi Guardi
Dal Secolo d'Italia del 19 giugno 2011
Alto, biondo, occhi celesti, gentile ed elegante, il diciottenne Mario Pannunzio, nato a Lucca da famiglia di origine molisana, ma residente a Roma dagli anni della Marcia, amava la compagnia degli amici e delle belle ragazze, frequentava le sale da ballo e andava a villeggiare in Versilia, a Viareggio, ma era tutt'altro che un perdigiorno. Anzi, avversava il disimpegno e di tutto era curioso: letteratura, cinema, arte, architettura.
Così, di fronte alla trasandatezza oziosa e alla smania di falsa libertà che caratterizzava il comportamento di quelli che un tempo si chiamavano "villeggianti" e oggi, più spesso, "vacanzieri", si esprimeva in modo tranchant: «C'è una ragione del mio sdegno per i villeggianti. Uomini e donne che in città si comportano secondo certe regole, qui perdono d'un tratto ogni misura. Raggruppati negli alberghi e negli stabilimenti, in quei loro faticosi, innaturali, promiscui contatti, acquistano soltanto arroganza, malizia, impudicizia. Questa libertà ambita, sognata, scontata nei restanti mesi dell'anno, spinge irresistibilmente a compromettersi con furia e senza rimedio. Nelle madri e nelle figlie, nei padri e nei fratelli c'è come un'intesa preordinata a tacere, a lasciar correre, se questo può avvicinare a qualche vantaggio immaginario. I fratelli voltano strada scorgendo le sorelle amoreggiare lungo i viali. I padri badano a farsi vedere il meno possibile. Le madri trotterellano silenziose qua e là, finché siedono esauste in un caffè, aspettando che le figlie, ondeggianti sulle biciclette a nolo, si decidano a poggiare un istante il piede a terra e, scambiate poche altre parole, riprendono la corsa sospinte dalla speranza».
Così leggiamo nelle pagine di Occhio di marmo (Aragno, pp. 152, € 10), il romanzo inedito di Mario Pannunzio, scritto presumibilmente tra il 1933 e il 1935, dato per scomparso e oggi fortunosamente recuperato tra le carte dell'autore da Massimo Teodori che del fondatore del Mondo ha pubblicato lo scorso anno una bella e documentata biografia, da leggere o da rileggere per capire un protagonista del dibattito culturale italiano tra fascismo, antifascismo e post-fascismo (Pannunzio. Dal ‘Mondo' al partito radicale: vita di un intellettuale del Novecento, Mondadori).
Ma siamo veramente di fronte ad un'opera letteraria? Indubbiamente tratti del "tempo ritrovato" ci sono: e cioè ci sono significative sequenze - letterariamente trasfigurate - della vita del giovane Pannunzio e c'è anche un'efficace rappresentazione degli ambienti borghesi degli anni Trenta, con personaggi a vario titolo esemplari e una descrizione oggettiva di abitudini, mode, tic e tabù del tempo. Ma se biografia, cultura e costume (la politica, no: da queste pagine è assente) possono ben essere elementi di una "narrazione", essi non sono sufficienti a dar respiro alla creazione letteraria, a quella "invenzione" che necessita di una cifra personale, di un contrassegno d'autore, di un marchio di originalità.
Cos'è, dunque, Occhio di marmo? Innanzitutto ricordiamo che, attingendo al Fondo pannunziano, Teodori, molto preciso e puntuale in ricognizioni e riscontri, alieno, peraltro, a dare un giudizio di valore critico a quel che ha scoperto, non scopre dei fascicoli inventariati come "romanzo", ma semplicemente come singoli ‘manoscritti o dattiloscritti', collocati disordinatamente nella stessa busta senza data e firmati "Occhio di marmo". Anche se, il "ricostituito romanzo" porta, in testa ai singoli capitoli, altre due titolazioni più volte ripetute, ‘Gazzetta dei veleni ‘ e ‘Stampe romane' , "quasi si trattasse di due parti della stessa opera".
Ma l'opera, per l'appunto, non c'è. E neppure incompiuta. Personaggi e ambienti sono messi a fuoco con una implacabile "oggettività" che - Teodori ha ragione - richiama immagini e scrittura moraviane (Gli indifferenti escono nel 1929 e tra Pannunzio e Moravia esiste un forte legame amicale), ma non fanno pensare a trame, a intrecci, a svolgimenti, magari con effetto a sorpresa. Si pensa, piuttosto, a delle note, a degli appunti su cui forse si tornerà in seguito ( ma il ritorno non ci fu: Pannunzio si rese conto di essere più un elaboratore di idee, un organizzatore culturale, un valorizzatore di ingegni, che un "autore"). O forse, tenendo conto che in quel periodo, come ricorda Teodori, «Mario coltivava l'interesse per la teoria e la critica del romanzo», siamo di fronte ad una scrittura "sperimentale", alla ricerca di un nuovo tipo di "espressione"?
Teodori non arriva a concludere in questo senso: il fatto, però, che abbia riportato in appendice i saggi pannunziani, pubblicati sulle riviste"Il Saggiatore ed Oggi e dedicati appunto al romanzo moderno, alla nuova sensibilità, ai diversi metodi di rappresentazione e di scrittura, ci dice che gli interrogativi posti hanno una certa ragion d'essere. E tuttavia Teodori si impegna a dare "un'organizzazione convincente" al materiale trovato, adottando come criterio per la pubblicazione il percorso che gli appare più logico, ovvero quello autobiografico.
Si parla, dunque, delle vacanze trascorse in Lucchesia e in Versilia; si ricorda l'incontro con Roma, e tutte le difficoltà di una famiglia che, nella stagione del passaggio dall'Italia liberale a quella fascista, cerca casa nella Capitale, e poi la trova nel quartiere Prati; si evocano i primi contatti con gli ambienti culturali romani, verso i quali Pannunzio si muove «sospinto da un'indomabile curiosità» (ad esempio lo studio della pittrice Adriana Pincherle, sorella di Alberto Moravia, dove il giovane fece le prime prove artistiche). E ci sono notazioni socio-psicologiche, ritratti (soprattutto femminili), ricognizioni nel "vissuto". Che cosa ne emerge? A nostro avviso, il profilo di un "moralista". Probabilmente la frequentazione di Alberto Moravia, che con Gli indifferenti aveva scandalizzato la buona borghesia della Capitale, ha lasciato, anzi, lascia, il segno. Sia Alberto che Mario descrivono un "mondo"- che poi è il loro - che ha qualcosa di sfilacciato e di molle, di accidioso e di morboso, di estenuato e di ipocrita. Un mondo che "non ha senso". Glielo dà chi lo racconta, rigorosamente senza far politica (Mario ha la tessera del Pnf ma non farà mai parte della covata dei fascisti che vogliono la rivoluzione antiborghese), con "occhio di marmo". Attento e senza indulgenze. Ma senza strappi.
Mario Bernardi Guardi
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