La riflessione critica del sociologo barese Franco Cassano nelle pagine del suo ultimo lavoro editoriale
Recensione a cura di Paolo Ruotolo
Dalla rivista trimestrale Polaris
Da tempo ormai il filo che lega la politica alla comunità si è fatto sottile. Sempre più fragile, costantemente sul punto di spezzarsi irrimediabilmente. Le «classi dirigenti» manifestano affanno, in una confusione di riferimenti e in una pressoché totale assenza di «idee forza» cui legare una prospettiva e sulle quali costruire un orizzonte. Un quadro in cui le élites finiscono sovente sul banco degli imputati, delegittimate nella loro funzione come nella loro missione. «Bene» e «male» assumono valori e significati assoluti, in una radicalizzazione aspra e violenta. La «volontà popolare» è schiacciata tra l’incudine chi la dipinge come un punto di riferimento imprescindibile ed il martello di chi, al contrario, la considera il terminale di pulsioni e istanze infime e neglette. Parlare alla «pancia» della Nazione diventa così un merito o una colpa, a seconda di quale sia l’angolazione visuale dell’osservatore o la voce narrante della storia che si racconta.
Lungo questo crinale insidioso il sociologo barese Franco Cassano prova a ragionare senza steccati e barriere. Nel sul ultimo lavoro, «L’umiltà del male» (Laterza Editori, pp 94, € 14), l’autore de «Il pensiero Meridiano» mescola in modo sapiente politica e religione, moralità e moralismo. Disarticola le categorie, provoca e scatena la riflessione in un deserto di idee in cui non si colgono più spinte rivoluzionarie né filosofie in grado di fornire risposte agli interrogativi del nostro tempo.
Nella sua rilettura del capitolo de «I fratelli Karamàzov» in cui Dostoevskij descrive la figura del «Grande inquisitore» si possono scorgere chiaramente i tratti di una politica che ha smarrito la propria identità, incapace di rimettersi in connessione con il «popolo». L’indagine si fa strada tra i vizi e le virtù della «gente», oggi ridotte a materiale per sondaggisti e strumento per individuare il prodotto e l’offerta politica più in linea con i desideri e le inclinazioni del «consumatore» di turno. Cerca di indicare l’urgenza di guardare alla natura umana senza pregiudizi, perché la partecipazione ed il cambiamento non siano solo slogan ad effetto privi di reale significato.
La prospettiva da cui il sociologo barese formula la sua analisi è evidentemente radicata nella tradizione politico-culturale della sinistra, come conferma il suo esplicito richiamo ad una riscoperta della «rivoluzione passiva» di gramsciana memoria. Eppure si tratta di un discorso «trasversale», che finisce – sia pure obtorto collo – per confutare in nuce l’accezione esclusivamente negativa attribuita alla categoria politologica di «populismo», invitando a ritrovare nuove formule di sintonia con le istanze della comunità. Interrogarsi sui fenomeni – non solo italiani – di acquisizione del consenso, infatti, implica la propensione a comprendere la forza e l’essenza delle rivendicazioni popolari, restituendo loro dignità ed importanza. È questa la sola chiave di lettura per comprendere quel boom elettorale della Lega Nord intorno al quale tanto si è discusso, l’appeal che Silvio Berlusconi esercita nei confronti degli italiani, ma anche le performance di Nichi Vendola in Puglia, dell’Italia dei Valori e del «Movimento Cinque Stelle» di Beppe Grillo nell’ultima tornata di elezioni amministrative. Chi dimostra di voler comprendere senza condannare, di provare a rappresentare pienamente gli slanci, i sogni e le aspettative del «popolo», sembra suggerire Cassano, beneficia di un sostegno e di un consenso pieni. Perché questo fenomeno non finisca per essere il «cavallo di Troia» di un decadimento morale e sociale, però, occorre che la politica sia in grado di formulare una proposta autorevole e seria. Che cioè essa sia in grado di «ascoltare», incardinando bisogni e istanze popolari in un percorso «virtuoso».
Il ragionamento di Franco Cassano, dunque, offre tanto a destra quanto a sinistra un antidoto efficace al progressivo allargamento del fossato che separa non più soltanto gli strati e le «classi» sociali ma anche territori ed aree geografiche, spinte ferocemente in contrapposizione e concorrenza tra loro. Una dinamica che divide e allontana, contribuendo in modo significativo ad una disgregazione del tessuto su cui si fonda e si regge ogni società.
«Chi ha gli occhi fissi solo sul bene – scrive il sociologo – spesso ha deciso di non guardare altrove: l’urgenza di giudicare, di misurare l’ “essere” sul metro del “dover essere” lo porta a guardare con impazienza chi rimane indietro e tale mancanza di curiosità lo porta alla sconfitta». Sentire le «pulsioni sociali», indagarne le cause, comprenderne la genesi rappresenta la valida alternativa al rinchiudersi in una sorta di spoglia e grigia «torre d’avorio» da cui guardare il mondo senza esserne parte, senza provare a «contaminarlo».
Un «manifesto» che guarda dunque ad un cambiamento sociale affidato prima di tutto all’acquisizione di una «coscienza tragica» – l’esatto contrario di una deriva arrendevole – che consenta ai «migliori» di spezzare la catena che permette al male di far leva sulle debolezze umane, di conoscerle, amplificarle, moltiplicarle nell’aggiornamento costante di un repertorio una volta limitato all’esaltazione dell’ebbrezza della sottomissione praticata attraverso il miracolo, il mistero e l’autorità, e oggi allargato a forme più subdole e «carnali» di seduzione.
«Ho sempre dato molto poco peso alla virtù e non ho mai capito bene perché si debba trovare tanta colpa nell’errore», disse anni fa un grande eretico del pensiero e della cultura come Fabrizio De Andrè, confidando di non aver mai inteso «cosa sia esattamente la virtù e a cosa corrisponda l’errore». La sconfitta del male, ammonisce Cassano, passa innanzitutto da qui, da una nuova confidenza con la fragilità umana che annulli la tentazione – sempre in agguato nella religione come nella politica – di guardare la maggioranza degli uomini dall’alto in basso.
Paolo Ruotolo
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