Articolo di Miro Renzaglia
da il Fondo Magazine del 5 settembre 2011
Vasco Rossi dice: se avessi il cancro non mi curerei. «Antidolorifici ai Caraibi, ecco quello che farei. Perché non voglio soffrire, voglio morire allegro». Io farei lo stesso. Magari prima vorrei sapere se, putacaso, il male è curabile o incurabile. E nel caso lo fosse (curabile) con quali possibilità di successo. Avuta la sentenza, nel caso di possibilità di guarigione al disotto del 50% (e mi tengo largo) farei la mia scelta: datemi uno scatolone di morfina e un biglietto senza ritorno per i Caraibi o per altro posto altrettanto ameno.
Lo trovate sconsiderato? E trovate considerevole di bonocore, invece, chi all’infausta diagnosi si affida nelle mani di chemio operatori e chirurghi che lo fanno a pezzettini, un organo alla volta, nel tran-tran che va dal letto di corsia alla sala operatoria e da questi siti per niente ameni all’obitorio? Oh! vabbè: tutti i gusti sono gusti, per carità! E sui gusti non è lecito disputare.
Mi si potrà obiettare: sì, ma senza cure campi di meno. Ora, siccome per me la vita non si misura in quantità ma in qualità, cosa volete che me ne freghi se quel po’ di più che le “cure” mi garantirebbero (e uso con forza il condizionale) è solo sofferenza aggiunta alla sofferenza?
Ho vissute due esperienze di questo genere. Una con mio padre che, tumore ai polmoni incurabile, anche per mia sciagurataggine, s’è affidato alle cure (chemio e cobalto terapia) per prolungare un po’ la sua vita… E una con mio suocero che, identica malattia, le cure le ha rifiutate… Risultato? Otto mesi per entrambi dalla diagnosi alla tomba… Solo che mio padre, a causa delle cosiddette “cure” ha sofferto come un cane bastonato, mentre mio suocero se l’è spassata abbastanza quasi fino alla fine.
Mi rendo conto che filosofeggiare su scelte di questo tipo non ha senso. Ma hanno senso forse le parole di Umberto Tirelli, direttore del dipartimento di Oncologia dell’ Istituto Nazionale Tumori di Aviano che risponde con argomentazioni di questo tipo: «Le affermazioni di Vasco Rossi sono in forte contrasto con la realtà perché anche se questa potrebbe essere solo una sua considerazione personale, visto il personaggio pubblico, è un invito a molti pazienti a non essere trattati ed eventualmente guariti dalla loro malattia oncologica e senza, tra l’altro, rispetto e una parola di conforto per tutti coloro che oggi stanno affrontando questa terribile esperienza personalmente o con una persona cara e fra i quali ci sono sicuramente molti dei suoi fan». Senza farsi mancare, l’auteovele direttore Tirelli, una splendida tirata sociologica: «Tra l’altro i Caraibi, oltre a non essere alla portata di molti pazienti, a differenza di Vasco Rossi, farebbero fatica a contenere le oltre 2.200.000 persone che oggi in Italia sono affette da tumore».
A questo moralismo di bassa, bassissima lega andrebbero opposte le considerazioni di quanto spende lo stato italiano per praticare una cura agli incurabili, sottoponendoli al calvario ospedaliero. E’ sicuro l’esimio oncologo che uno scatolone di morfina e un biglietto ai Caraibi costi di più all’erario? O è meglio far fare cassa all’industria farmaceutica?
Miro Renzaglia
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