Dal Secolo d'Italia del 15 aprile 2012
«Meno partiti ci sono e meglio si cammina». Meno politologi improvvisati, aggiungiamo noi, e il dibattito politico ne guadagnerebbe. Piuttosto che precipitarsi a "microfonare" il nuovo che avanza, perché non riconsiderare "l'opinione" di un uomo che fu patriota senza retorica, scrittore senza complessi (il suocero era un tal Alessandro Manzoni), politico - anzi, statista! - autenticamente liberale, legalitario allergico ai cedimenti e federalista ante litteram ancor prima dell'Unità d'Italia?
Più attuale di così...
Più attuale di così si muore e il nostro Paese non sembra esattamente in salute. Deve averlo capito l'Editore Utet che pochi mesi fa ha dato alle stampe I miei ricordi, una delle più interessanti opere memorialistiche risorgimentali, apparsa postuma nel 1867, un anno dopo la morte avvenuta a Torino, dove D'Azeglio era nato nel 1798. Una (ri)lettura per certi versi stupefacente, letteralmente. Perché malgrado capiti spesso di imbattersi in alberghi pretenziosi, targhe e licei dedicati a D'Azeglio, meno conosciuti, se non ignorati, rimangono il suo pensiero politico e la sua stessa vita, degna di un romanzo ottocentesco di cui è stato egli stesso protagonista. Sin dalla nascita: figlio del marchese Cesare Taparelli, noto esponente della Restaurazione Sabauda e del cattolicesimo subalpino, visse un'infanzia da esule a Firenze durante l'occupazione francese del Piemonte, per poi fare ritorno alla città natale solo dopo la caduta di Napoleone. Poeta, pittore di paesaggi e letterato, si misurò con l'illustre suocero nel romanzo storico mescolando disinvoltamente feuilleton e fatti realmente accaduti. Intrecciando la disfida di Barletta, duello d'orgoglio nazionale, alla storia d'amore di Ettore e Ginevra, nel 1833 confezionò il successo editoriale di Ettore Fieramosca.
Dai libri alla politica
La passione politica, tuttavia, non poteva rimanere confinata nei romanzi. Insofferente nei confronti dell'assolutismo come del malgoverno papale e dell'estremismo politico, fu volontario nella guerra d'indipendenza e primo ministro del governo piemontese, firmando una significativa riforma dei rapporti tra Stato e Chiesa. Eppure una semplice frase, tanto più se estrapolata dal contesto, può essere sufficiente per inchiodarne l'autore al pregiudizio. «La fusione con i napoletani - scrisse in una lettera del 1860 a Diomede Pantaleoni - mi fa paura, è come mettersi a letto con un vaiuoloso». Poche parole, vergate in un carteggio personale, per essere condannato al girone, se non tout court dei razzisti, dei nemici del meridione. Lui, che adolescente s'era formato a Roma e al quale la città eterna dedicò una targa nel 1961, proprio per il primo anniversario dell'Unità, ricordandone il soggiorno romano in San Lorenzo in Lucina, «dove visse iniziandosi all'arte e alla politica». Per quanto sincero patriota, semmai, era talmente cosciente delle evidenti differenze tra i vari regni, da auspicare la creazione di una confederazione di stati sul modello dell'Unità tedesca piuttosto che quell'unificazione a sola guida piemontese che tanti lutti costò proprio al Sud d'Italia. «Agli italiani che, restando italiani, non volessero unirsi a noi, credo che non abbiamo il diritto di dare archibugiate», protestò. E per questo venne duramente attaccato dai mazziniani che ritenevano l'opzione federalista debole sul piano della politica estera, inadeguata a superare i "particolarismi".
Più attuale di così si muore e il nostro Paese non sembra esattamente in salute. Deve averlo capito l'Editore Utet che pochi mesi fa ha dato alle stampe I miei ricordi, una delle più interessanti opere memorialistiche risorgimentali, apparsa postuma nel 1867, un anno dopo la morte avvenuta a Torino, dove D'Azeglio era nato nel 1798. Una (ri)lettura per certi versi stupefacente, letteralmente. Perché malgrado capiti spesso di imbattersi in alberghi pretenziosi, targhe e licei dedicati a D'Azeglio, meno conosciuti, se non ignorati, rimangono il suo pensiero politico e la sua stessa vita, degna di un romanzo ottocentesco di cui è stato egli stesso protagonista. Sin dalla nascita: figlio del marchese Cesare Taparelli, noto esponente della Restaurazione Sabauda e del cattolicesimo subalpino, visse un'infanzia da esule a Firenze durante l'occupazione francese del Piemonte, per poi fare ritorno alla città natale solo dopo la caduta di Napoleone. Poeta, pittore di paesaggi e letterato, si misurò con l'illustre suocero nel romanzo storico mescolando disinvoltamente feuilleton e fatti realmente accaduti. Intrecciando la disfida di Barletta, duello d'orgoglio nazionale, alla storia d'amore di Ettore e Ginevra, nel 1833 confezionò il successo editoriale di Ettore Fieramosca.
Dai libri alla politica
La passione politica, tuttavia, non poteva rimanere confinata nei romanzi. Insofferente nei confronti dell'assolutismo come del malgoverno papale e dell'estremismo politico, fu volontario nella guerra d'indipendenza e primo ministro del governo piemontese, firmando una significativa riforma dei rapporti tra Stato e Chiesa. Eppure una semplice frase, tanto più se estrapolata dal contesto, può essere sufficiente per inchiodarne l'autore al pregiudizio. «La fusione con i napoletani - scrisse in una lettera del 1860 a Diomede Pantaleoni - mi fa paura, è come mettersi a letto con un vaiuoloso». Poche parole, vergate in un carteggio personale, per essere condannato al girone, se non tout court dei razzisti, dei nemici del meridione. Lui, che adolescente s'era formato a Roma e al quale la città eterna dedicò una targa nel 1961, proprio per il primo anniversario dell'Unità, ricordandone il soggiorno romano in San Lorenzo in Lucina, «dove visse iniziandosi all'arte e alla politica». Per quanto sincero patriota, semmai, era talmente cosciente delle evidenti differenze tra i vari regni, da auspicare la creazione di una confederazione di stati sul modello dell'Unità tedesca piuttosto che quell'unificazione a sola guida piemontese che tanti lutti costò proprio al Sud d'Italia. «Agli italiani che, restando italiani, non volessero unirsi a noi, credo che non abbiamo il diritto di dare archibugiate», protestò. E per questo venne duramente attaccato dai mazziniani che ritenevano l'opzione federalista debole sul piano della politica estera, inadeguata a superare i "particolarismi".
I dissidi con Cavour
Persino Cavour, che s'era formato con D'Azeglio facendo con lui le prime esperienze da ministro, finì col prendere le distanze e ridimensionare quell'«empio rivale». Empio, irriverente, ingombrante. Abile cavaliere - era stato allievo ufficiale militare di Cavalleria prima di entrare in contrasto con la classe aristocratica - ma anche schermitore, conversatore apprezzato, giocatore impenitente e seduttore in grado di seminare il panico tra le donne di corte, con buona pace di moglie e suocero. Francesco De Sanctis, a tal riguardo, parlò di «un certo amabile folleggiare, pieno di buon umore».
Dal «folleggiare» al «moralista»
Una figura che stride con quella in bianco e nero del conservatore moralista e paternalista cui sembrano relegarlo gli storici. Né rock né lento, come direbbe Celentano. Dopo l'età napoleonica, che pure aveva avuto il merito di vivacizzare il secolo, finì con il prevalere - per dirla con D'Azeglio - «il tipo lumaca», il conformista, l'uomo che rifiuta di assumersi le proprie responsabilità.
«I più pericolosi nemici d'Italia non sono i tedeschi - scrive il nostro - ma gli italiani. Hanno voluto far un'Italia nuova, e loro rimanere gli italiani vecchi di prima, colle dappocaggini e le miserie morali che furono ab antico la loro rovina; perché pensano a riformare l'Italia, e nessuno s'accorge che per riuscirci bisogna, prima, che si riformino loro perché l'Italia non potrà divenir nazione, forte così contro lo straniero come contro i settari dell'interno, libera e di propria ragione, finché tutti non facciano il proprio dovere. Ma a fare il proprio dovere, il più delle volte fastidioso, volgare, ignorato, ci vuol forza di volontà e persuasione che il dovere si deve adempiere non perché diverte o frutta, ma perché è dovere; e questa forza di volontà è quella preziosa dote che, con un solo vocabolo, si chiama "carattere", onde, per dirla in una parola sola, il primo bisogno d'Italia è che si formino italiani, che sappiano adempiere al loro dovere. E purtroppo si va ogni giorno più verso il polo opposto». Un carattere, il suo, che lo porterà - nell'interesse superiore del paese - a dimenticare ogni dissapore e collaborare con Cavour nei momenti critici dell'intervento in Crimea.
In nome dell'interesse nazionale
Una lezione, anche questa, estremamente attuale. Nella prospettiva non di improbabili ammucchiate dentro cui rendere indistinguibili le responsabilità, ma per tornare alle parole dello statista piemontese, perché «sono beati i paesi dove non vi sono che due partiti: uno del presente, il Governo; l'altro dell'avvenire, l'Opposizione. Un tale stato di cose è segno della robusta salute d'una nazione; è segno che in essa le questioni di vera utilità pubblica soffocano le questioni d'utilità private, di persone e di sètte».
Roberto Alfatti Appetiti
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