mercoledì 24 gennaio 2007

Tutti in classe per capire cosa è l'Islam

Un'associazione cattolica promuove un corso per docenti e operatori dell'istruzione: boom di iscrizioni in Abruzzo.

Dal Secolo d'Italia del 24 gennaio 2007
ROMA. Conoscere l'Islam senza tabù e pregiudizi. Un corso di formazione in Abruzzo sfata i luoghi comuni che aleggiano intorno alla cultura islamica e apre la strada al confronto.
A Francavilla al Mare, in provincia di Chieti, per la prima volta oltre centocinquanta persone tra insegnanti, dirigenti scolastici, studenti universitari e operatori socioculturali provenienti dalle regioni dell’Italia centrale si sono dati appuntamento per affrontare il tema del dialogo interreligioso. L'occasione è stata fornita da un corso di formazione organizzato dall’associazione cattolica Didattica e innovazione scolastica (Diesse) sul tema "Islam, una realtà da conoscere". Un’iniziativa, patrocinata dall’Ufficio Scolastico regionale e dall’Università D’Annunzio di Pescara, essenzialmente rivolta al mondo scolastico, e finalizzata ad offrire risposte concrete sull’origine di questa cultura, sul Corano, sui rapporti tra cristiani e musulmani e soprattutto sulla necessità della conoscenza della cultura islamica quale presupposto per una reale integrazione sociale, culturale e scolastica basata sul rispetto e sull’amicizia dei popoli.
Tra i relatori, sono intervenuti autorevoli studiosi come il gesuita egiziano Samir Khalil, docente di Islamologia all’Università di Saint Joseph di Beirut e Giorgio Paolucci, caporedattore del quotidiano Avvenire e autore del fortunato libro Cento domande sull’Islam – Intervista a Samir Khail Samir, Marsilio editore. Significativa anche la presenza di Souad Shai, presidente dell’associazione donne marocchine in Italia. E' intervenuto anche Vincenzo Centorame, attualmente presidente della Fondazione Michetti, la più importante istituzione nazionale nel settore delle arti figurative.
Il saggista ha illustrato i risultati della ricerca, condotta per conto della Provincia di Roma (commissionata dall'allora presidente Silvano Moffa, ndr), sullo stato di integrazione dei figli degli immigrati nelle scuole romane. Il risultato è sorprendente. «Dal quadro sociologico è emerso - ha spiegato - un atteggiamento dei ragazzi musulmani molto maturo, caratterizzato da grande positività e disponibilità al confronto, direi quasi "conservatore". Sono loro, il più delle volte, a rimproverare agli amici italiani la mancanza di amore patrio e familiare, la disaffezione verso la religiosità. E si dimostrano anche i più critici nei confronti di chi distrugge le suppellettili scolastiche, così come risultano tra i più intransigenti nel dire no all'uso della droga. Questa ricerca e più in generale questo corso, si sono dimostrati utilissimi a sfatare molti luoghi comuni come quello, ad esempio, sulla presunta contiguità dell'Islam al terrorismo. Luoghi comuni che rendono il processo di integrazione più difficile. E' uno sbaglio ritenere che l'integrazione passi per un affievolimento delle culture. Credo che sia vero il contrario: la cancellazione delle identità che non solo non facilita l'integrazione, ma la rende impossibile. La dittatura del politicamente corretto non ci mette in condizione di confrontarci serenamente con chi ha una identità culturale, religiosa e politica diversa dalla nostra».
Per Centorame, il popolo musulmano è "affamato di futuro". «L'integrazione - ha concluso - non va considerato un male necessario, ma semmai come una preziosa opportunità culturale. Un'opportunità da raccogliere e non da rigettare».

martedì 23 gennaio 2007

«Salviamo Tex dal buonismo imperante»











«Salviamo Tex dal buonismo imperante»
Sergio Bonelli difende i suoi eroi, ancora oggi vittime del politicamente corretto.

Dal Secolo d'Italia del 23 gennaio 2007

Sergio Bonelli è un irriducibile amante dell’avventura classica, alimentata con talento e passione da quel fortino assediato (e minacciato) dal neorealismo e dal politicamente corretto che è la Sergio Bonelli Editore. Ha ripagato la fortuna di fare un lavoro che gli piace, «l’unico che saprei fare», con l’entusiasmo inesauribile e contagioso che rende le “nuvole parlanti” italiane ancora ben presenti nel mercato editoriale internazionale come nell’immaginario collettivo di giovani e meno giovani. Altri narratori di storie che con lui hanno caratterizzato gli anni d’oro del fumetto italiano, non ci sono più. Nel ’95 sono scomparsi Bonvi e «l’amico fraterno» Hugo Pratt, autori di personaggi indimenticabili come le Sturmtruppen e il marinaio Corto Maltese. Benito Jacovitti - il creatore del cowboy Cocco Bill, le strisce che sui mitici Diario Vitt hanno fatto compagnia a più generazioni di studenti - è morto nel ’97.
Sergio Bonelli, invece, è vivo e in ottima salute e "lotta insieme a noi", fumettari impenitenti cresciuti con Tex, Zagor e Mister No (il primo, prossimo ai sessant’anni di età, rimane il fumetto più venduto in Europa, il secondo resiste gagliardamente e il terzo – per il momento - è stato pensionato). Un debito, il nostro, che è aumentato a dismisura, di contro alle nuove serie che Bonelli ci ha regalato in questi anni, trasportati da un filo d’immaginazione che attraversa e mescola sapientemente generi diversi: dal detective dell’impossibile Martin Mystere all’indagatore dell’incubo Dylan Dog, fenomeno rivelazione degli anni Novanta, da Magico Vento, riuscito western moderno, alla criminologa Julia, che con l’albo di gennaio festeggia i primi cento numeri.
Io,, personalmente, ogni mese vado in edicola e prendo Zagor, lo infilo nel Secolo d’Italia e me ne torno a casa. Inizia con una confessione, la mia, una lunga intervista al padre (con lo pseudonimo di Guido Nolitta) dello Spirito con la Scure e Jerry Drake. Lo incalzo.
Acclarato che Tex è di destra, non mi dica che Zagor è di sinistra, non lo sopporterei, non dopo tutti questi anni.
L’ha detto lei. (L’editore ride, divertito, ndr). Noi ci sforziamo di non trasmettere idee politiche, è una responsabilità che non credo sia giusto prendersi, sono altri gli strumenti per decidere da che parte stare. In una stessa storia possono coesistere suggestioni di destra e di sinistra, ma da parte nostra non c’è mai stata alcuna volontà di metterci in cattedra.
Però la Bonelli è considerata una casa editrice politicamente scorretta. Tex ancora alle soglie del 2000 è tornato nel mirino dei moralisti perché istigherebbe a bere e fumare, insomma: uno sconsiderato dai modi brutali e dalla vita dissoluta. Come ha detto Massimo Fini, non è certo un eroe da oratorio.
Questo sì. Ricordo che trent’anni fa bastava molto poco ad essere considerati scorretti o non allineati. In Italia e solo in Italia era sufficiente scrivere la parola “negro” per essere accusati di razzismo. Da allora le cose sono cambiate, ma quando in una storia c’è da indicare il cattivo tutto diventa complicatissimo. Prima potevano essere i messicani, poi i cinesi, oggi chiunque è pronto ad offendersi, lettere di protesta ne arrivano sempre… “Ma come ti sei permesso?” mi chiedono.
Recentemente è stato lanciato un accorato appello da Rino Camilleri affinché Diabolik venga salvato dal buonismo. Non mi sembra che gli ipervitaminici personaggi Bonelli corrano questo rischio, quando c’è da darle e prenderle non si tirano indietro e all’occorrenza non esistano a mettere mano alla pistola.
La nostra è una scelta precisa, condivisa da chi lavora con me e, credo di poter dire, dai lettori, con i quali abbiamo una consolidata e tacita intesa. Mio padre (sceneggiatore negli anni '30 con Carlo Cosso di molte storie del "fascistissimo" Dick Fulmine, poi creatore di Tex, ma soprattutto dell’italianissima striscia, dell’albo giornale e di quello attuale a costa e ovviamente fondatore della casa editrice, ndr) provava una sconfinata ammirazione per la forza fisica e non a caso uno dei primi personaggi che realizzò per la sua Audace fu il pugile Furio Almirante. Niente a che vedere con il Signor Bonaventura e il Corriere dei piccoli, per intenderci. I nostri sono eroi tradizionali e anche quando si misurano con la modernità lo fanno senza perdere mai di vista i loro valori e la propria identità, anche quando è contraddittoria. Persino Nathan Never, che è un personaggio proiettato nel futuro, in un’epoca immaginaria dove non ci sono più libri cartacei, quando rientra a casa legge o ascolta un disco, meglio se in vinile, non usa il cellulare e non guarda mai la televisione. E lo stesso vale per Dylan Dog e persino per me, che non ho un telefonino.
Com’è stato negli anni il rapporto con la cultura dominante, con i depositari dell'egemonia accademica?
Pessimo, almeno fino alla fine degli anni Settanta. Poi dagli anni Ottanta qualcosa ha cominciato a cambiare. Fino ad allora i fumetti venivano considerati alla stregua di materiale pornografico, i genitori pensavano che i figli morissero dalla voglia di leggere Manzoni (ride, ndr) ed erano preoccupati che i fumetti potessero traviarli, distrarli da letture più importanti, incoraggiandoli alla pigrizia. Da parte nostra non abbiamo mai cercato di compiacere critici, intellettuali e politici, ma solo di rivolgerci al nostro pubblico e ai suoi sogni.
Del resto Togliatti costrinse Vittorini a chiudere il Politecnico perché divulgava fumetti, Nilde Iotti su Rinascita nel ’51 scrisse che «la gioventù che si nutre di fumetti è una gioventù che non legge e questa assenza di lettura non è l’ultima tra le cause di irrequietezza, di scarsa riflessività, di deficiente contatto col mondo circostante e quindi di tendenza alla violenza, alla brutalità, all’avventura fuori dalla legge».
Appunto, ma i nostri peggiori nemici sono stati gli educatori scolastici, erano infastiditi dal fatto che le nostre storie trattassero tematiche più affascinanti sia delle ideologie che dei libri di testo. Molto dopo hanno capito che il fumetto poteva diventare uno strumento utile anche a fini didattici. Ma io non mi sono mai piegato a quest’uso improprio del fumetto. Tante volte, ad esempio, mi hanno proposto di disegnare una storia dei romani. La scuola può diventare un business per un editore, ma rimango convinto che siano due cose diverse. No, il mio lettore deve poter dimenticare la scuola: il vero fumetto è avventura pura, evasione, immaginario. Il che non significa che un prodotto fatto bene non possa sollecitare il lettore ad approfondire certi temi ed agire come stimolo per letture più profonde, ma questo non c’entra niente con la scuola…
Eppure qualcuno sostiene ancora che il fumetto è anticulturale, quali sono i vostri riferimenti letterari e cinematografici?
C’è ancora chi tratta con sufficienza la cultura di massa e il fumetto altro non è che letteratura popolare. Ma lo fa sbagliando, spesso in malafede. Nelle nostre storie invece si sente l’influenza di classici dell’avventura come Jack London, Joseph Conrad, Robert Stevenson, Emilio Salgari e soprattutto del romanzo western di Zane Grey e Louis L’Amour, ma anche dei racconti popolari a puntate, i cosiddetti feuilleton. Con un occhio sempre rivolto al grande cinema hollywoodiano, alla fisicità straordinaria di attori come John Wayne e Gary Cooper. Naturalmente oggi cerchiamo di intercettare i gusti dei più giovani, affrontando generi, come il noir e le detective-stories, la fantascienza, la fantasy e persino l’horror, lontani dalla nostra produzione iniziale.
Chi, tra i suoi colleghi le manca di più?
Sicuramente Hugo Pratt, insieme realizzammo tre dei trenta libri della nostra serie “Un uomo, un’avventura”, una collana raffinata alla quale collaborarono gli autori migliori dell’epoca, da Milo Manara a Dino Battaglia e tanti altri. Ma non potevamo lavorare insieme, eravamo troppo amici, preferivamo andare al cinema e chiacchierare. Il suo approccio al disegno era rivoluzionario e lui era un tipo imprevedibile, un gran lavoratore, eppure per diventare famoso dovette andare in Francia. Lì, come in Spagna, il fumetto è considerato un’opera d’arte, si investe di più, si pubblicano volumi di grande qualità, in carta patinata a colori, distribuiti nelle librerie, c’è un mercato più vivace.
Com’è cambiato il “fare fumetti” negli ultimi anni?
Il nostro lavoro è diventato più difficile, il pubblico è preparato, informato, ha sviluppato un maggiore senso critico. La scuola del cinema e quella della televisione lo hanno reso giustamente più esigente, ora non si nutre solo di fumetti, ha mille occasioni di evasione. Certe cose fanciullesche oggi non verrebbero accettare, la scelta delle storie diventa un’operazione complessa e catturare l’attenzione dei lettori meno facile, abituati come sono a cambiare gusti e interessi.
Il vostro Legionario, omaggio a quella tendenza dei comics che viene definita con espressione anglosassone “graphic nouvel”, ha riscosso molto successo, così come le miniserie di Brad Barron e Demian. Che programmi avete per il futuro?
Sì, sono stato contento di realizzarlo, si è trattato di un ritorno alle origini. Ho sempre avuto un debole per il mito della legione ed ho voluto cogliere l’opportunità di rinverdire una tematica da parecchie stagioni lontana dalle edicole. Le faccio due anticipazioni. Entro l’estate del 2008 partiranno due nuove serie, una a dire il vero è un po’ ardita, ottocentesca, ed ha come sfondo la guerra d’Africa, un tema mai toccato dai fumetti, l’altra è vagamente fantascientifica, ma sul genere di Jules Verne, più vicino alla nostra sensibilità.
E noi aspettiamo, mister Bonelli. L’edicola non sarà più - come ha detto lo scrittore Valerio Angelisti - la «vera fonte di alfabetizzazione degli italiani», ma rimane per molti un’insostituibile fonte di sogni.






mercoledì 17 gennaio 2007

David Bowie, quel dandy impenitente e futurista


Dal Secolo d'Italia di mercoledì 17.1.2007

«We can be heroes / just for one day». Possiamo essere eroi solo per un giorno, cantava trent’anni fa David Bowie in una delle sue canzoni più famose, Heroes. E la storia della musica è piena di meteore che hanno avuto il loro “giorno” di notorietà, almeno quanto di vecchie star imbolsite che sopravvivono ai margini dello star system cercando di mettere a frutto residuali rendite di posizione.
David Bowie non appartiene alla schiera dei piccoli risparmiatori del successo. «La cosa peggiore è mantenere un certo tipo di celebrità per tutta la carriera e poi ripensare a tutte le cose che si sarebbero potute fare o tentare, e chiedersi: perché non l’ho fatto?»
Rendiamogli merito: si è tenuto ostinatamente alla larga dal mucchio degli anticonformisti di professione. «Volevo solo esprimere quanto mi sentivo estraneo alla società. Non ho mai voluto che mi si considerasse il leader o il portabandiera di un movimento. Sono un individualista». Trasgressivo e ironico, geniale e sconsiderato, al tempo stesso giocatore d’azzardo e abile imprenditore della propria immagine. Sul piatto ha sempre puntato tutto quello che aveva, perdendo e vincendo, rilanciando l’intera posta, lasciandosi alle spalle successi e sventure familiari e personali, non ultime la dipendenza dalla droga e un cuore difettoso. Ogni volta determinato a sperimentare il nuovo, anche a costo di inciampare in clamorosi fiaschi, di deludere il proprio pubblico, di indispettire i sacerdoti della critica ideologizzata, che vorrebbero fare della musica uno strumento di lotta politica, naturalmente a senso unico.
Il Duca bianco, l’alter ego aristocratico e algido che forse più gli appartiene, l’8 gennaio ha compiuto sessant’anni d’età, quaranta dei quali impegnati in una carriera quanto mai eclettica, nel corso della quale non ha mancato di cimentarsi con il cinema (alternando importanti ruoli da attore consumato a preziosi cameo). Chi ha avuto modo di vedere The prestige, in questi giorni nelle sale, ha avuto modo di apprezzare la carismatica interpretazione dello scienziato Nikola Tesla, l'unico personaggio realmente esistente della pellicola ambientata nell'Inghilterra della fine dell'Ottocento. Ma Bowie non si è risparmiato di calcare le orme del palcoscenico: in teatro è indimenticabile l'interpretazione dell’alieno Ziggy Stardust. E proprio The rise and fall of Ziggy Stardust and the spider from mars è un concept-album su ascesa e (auto)distruzione di un "plastic-rocker". Così si presenta "l'uomo che cadde sulla terra", il profeta di una rivoluzione rock che dura una stagione sola, il tempo che passa tra la sua ascesa e la sua caduta. E in questa metafora è racchiusa l'intera messa in scena dell'estetica di Bowie: la realizzazione del principio enunciato da Andy Warhol del "quarto d'ora di celebrità", l'edonismo morboso di Dorian Gray, la parodia del divismo e dei miti effimeri della società dei consumi.
Ma le sue esperienze artistiche spaziano anche nella televisione, nella pittura e persino nel web. Nel ‘98 lancia un proprio Internet Service Provider - BowieNet - valutato, appena un anno dopo, oltre trecento milioni di sterline. L’eccezionale capacità di cambiare pelle, di reinventarsi artisticamente, e di captare le nuove tendenze, lo ha spinto a sperimentare generi musicali diversi, inaugurandoli (come il glam) o rielaborandoli con il suo stile caratteristico.
Con tratto da artista prima ancora che da rockstar, ha mescolato - come su una immaginaria tavolozza - colori e ingredienti diversi: dalle ballate melodiche al pop psichedelico ed elettronico, passando disinvoltamente dall’hard rock alla dance, da rassicuranti atmosfere da luna park a inquietanti motivi claustrofobici e ritmi teutonici. «Creo qualcosa partendo dall’entusiasmo di un determinato momento, poi quella cosa non esiste più, vado avanti. Sono fatto così, non cerco scuse».
Percorso non sempre apprezzato dagli ortodossi custodi del rock “impegnato”. «A quei tempi non era corretto nutrire interessi disparati, ti dovevi decidere: o eri un cantante folk o rock o un chitarrista blues. Io sentivo di non voler sottostare a queste distinzioni». Gli inizi sono particolarmente duri e la sua musica non sarà mai del tutto accettata in America, neanche quando le vendite degli album cominciano ad assumere consistenza. E' il manager Kenneth Pitt a suggerirgli di adottare il cognome Bowie (dal coltello "bowie-knife") per evitare confusioni con Davey Jones dei Monkees.
Negli States il modello di riferimento della musica rock è il rocker amico, semplice e spontaneo, che narra la vita di tutti i giorni. «Non sono il tipo che sale sul palco e vi racconta come gli è andata la giornata» spiega Bowie. Piuttosto che riempire le sue canzoni di accattivanti proteste sociali e strizzare l’occhio al pubblico, preferisce disorientarlo con arrangiamenti sin troppo raffinati, citazioni nietzschiane e suggestioni estetiche decadenti e futuriste nelle quali il non detto e il linguaggio del corpo finiscono con il prevalere sui contenuti.
E’ insofferente e distante rispetto al rock che si alimenta nelle grandi adunate pacifiste e si autopromuove nelle iniziative umanitarie. «Non sono fatto per gli slogan. Preferisco lasciare questo compito a Sting. Ho poca simpatia per l’umanità. Si è giustamente cercato di cambiarla, io penso che sia fatica sprecata. Sono troppo egoista per lasciarmi coinvolgere».
Provocazioni che lasciano il segno, come quando affermò che «all’Inghilterra farebbe bene un periodo di fascismo». Dichiarazioni che ne fanno un idolo per i giovani del National Front inglese e gli costano una schedatura dell’FBI come “simpatizzante neonazista”. Così come fa chiacchierare la sua ammirazione per Benito Mussolini e Yukio Mishima, l’interesse per la mitologia del Sacro Graal e l’esoterismo.
Pochi altri come lui hanno diviso e continuano a dividere pubblico e critica, attirando entusiasmi e stroncature. Carismatico, affascinante e innovatico per i fans; eccessivo, ambiguo e “commerciale” per i detrattori, per i quali quelle di Bowie sono solo canzonette, «rock’n’roll con il rossetto» come le definiva John Lennon. «Alcuni dicono che Bowie è tutto stile superficiale e idee di seconda mano - dichiarava nel ’99 Brian Eno (con il quale darà vita ad un proficuo sodalizio artistico e intellettuale) - ma a me questa sembra la migliore definizione della musica pop. E’ un’arte popolare. Nella musica colta ci si aspetta che l’opera sia completamente originale e che l’ispirazione giunga come per incanto, direttamente da Dio. Nella musica pop ognuno ascolta e ripete quello che fanno gli altri».
«L’opera d’arte è compiuta solo quando il pubblico vi aggiunge la propria interpretazione» sostiene Bowie. Nessun altro artista è riuscito in maniera altrettanto efficace ad evidenziare l’infondatezza di una rigida linea di demarcazione tra la cultura cosiddetta alta e quella bassa, e l’assurdità della distinzione tra rock e pop quali espressioni contrapposte di arte e commercio. «Probabilmente sono considerato il camaleonte del rock perché non faccio altro che cambiare! I clichès sono pura follia. Ma il camaleonte cerca continuamente di mimetizzarsi con l’ambiente circostante, e non credo proprio che questo sia uno dei miei tratti distintivi». E certamente Bowie è un non conforme, un irregolare, un dandy alla ricerca costante del coup de theatre, un irrequieto impenitente. «Non sapere in che direzione sto andando è per me la sensazione più eccitante. E’ un paesaggio sempre aperto». E ciò che lo rende indistruttibile è la capacità di stupire e stupirsi, come in Changes: «Cambiare è anche ricerca di sé / mi rivolsi a guardare me stesso per poi trovarmi di fronte ad un estraneo».
Nonostante i suoi album siano da tempo lontani dai primi posti delle classifiche, Bowie resta uno dei protagonisti assoluti della scena mondiale: dal 1997 è anche quotato in borsa, grazie all'emissione dei Bowie Bonds effettuata offrendo a garanzia le royalties ricevute per i dischi venduti fino al 1993 (circa un milione di copie l'anno). Da questa operazione pare abbia ricavato più di 40 milioni di euro. Malgrado la sua attività sia rimasta intensissima, negli ultimi anni Bowie non ha ritrovato il successo: Black tie white noise, Outside, Hours, Reality, Heathen sono album lontani dalla magia di un tempo. Ma è rimasto un protagonista in tutti i settori.
Anche il matrimonio con la modella Iman ha contribuito a consolidare il suo mito. Perchè lo stars system si nutre anche di gossip e il Duca bianco, a dispetto dei sessant'anni appena compiuti, anche in questo non ha nulla da invidiare ai suoi più giovani colleghi.