venerdì 25 gennaio 2008

L'ABC DI UN '68 POSTIDEOLOGICO

Da Charta Minuta n. 4 nuova serie (gennaio 2008)

Quarant'anni sono tanti e il Sessantotto li dimostra tutti, nonostante gli sforzi dei chirurghi del palinsesto globale. Così come i sessantottini, sempre più attempati e imbolsiti - "imborghesiti" sarebbero stati definiti nel '68 - tutt'altro che determinati a lasciare "spazio ai giovani". Formidabili o terribili, quegli anni? Sicuramente lontani. Una rivoluzione tradita o un'occasione mancata? O tutte e due le cose? Ha senso interrogarsi ancora su ciò che è stato o poteva essere? Questo dizionario - scritto da due giornalisti che, per età, "non c'erano" - prova a raccontare, per brevi suggestioni, comme l'immaginario abbia cambiato irreversibilmente il costume.
Malgrado il conservatorismo dei sessantottini che hanno fatto del loro reducismo una professione.

L'ABC DI UN '68 POSTIDEOLOGICO
A cura di Roberto Alfatti Appetiti e Pierluigi Biondi
Un dizionario che pesca a piene mani nell'immaginario collettivo, senza retorica, con molta ironia. Poche le voci che ci si aspetterebbe, molte quelle imprevedibili.

America – Nel ’67 il regista Stanley Kramer mette in crisi la coscienza collettiva degli Stati Uniti con il film Indovina chi viene a cena?. L’America borghese e progressista è rappresentata da Katharine Hepburn e Spencer Tracy nella magistrale interpretazione di una coppia di anziani coniugi della classe media. Quando la figlia presenta loro il futuro sposo, vanno in fibrillazione. Perché il medico hawaiano (Sidney Poitier) è un nero e l’inattesa situazione apre vistose crepe nelle convinzioni liberal dei due. Il razzismo non è più un fenomeno esclusivamente relegato ai gretti “pistoleri” delle città del profondo Sud ma si è insinuato anche tra i ceti “benpensanti”. Come per la protesta degli studenti che monta dai college, ad essere messa sotto accusa è la società stessa: immobile, rigida e chiusa in se stessa. L’anno successivo al film, il ’68, segna indelebilmente il movimento dei neri americani: in aprile Martin Luther King – il leader cristiano non-violento dell’«I have a dream» – viene ucciso a fucilate a Memphis. Qualche mese dopo, nel corso delle Olimpiadi di Città del Messico, gli statunitensi Tommie Smith e John Carlos si classificano, rispettivamente, primo e terzo nella gara dei 200 metri piani. Quando salgono sul podio e partono le note dell’inno americano Star Spangled Banner – che pochi mesi dopo Jimi Hendrix strapazzerà a Woodstock – abbassano il capo ed alzano in aria il braccio con la mano foderata da un guanto nero per protestare contro la politica segregazionista degli States. La foto dell’avvenimento, bellissima, farà il giro del mondo e diventerà un simbolo di libertà e dell’orgoglio di appartenenza ad una comunità in lotta.

Bagaglino – «Bisogna andar col pensiero a quella che, intellettualmente e artisticamente, era la povera bigotta, parruccona, provinciale, filistea, piccolo-borghese Italia di allora, per capire tutta l’importanza che Anton Giulio Bragaglia, e il gruppo di giovani raccolti intorno a lui, hanno avuto nel rinnovamento dell’arte e della letteratura italiane». Così Curzio Malaparte, in uno dei suoi Battibecchi, rendeva onore alla figura del regista e letterato futurista Bragaglia (1890/1960). Un giudizio condiviso dai sei pionieri che, nel novembre ’65, fondarono il primo locale di cabaret romano e che avrebbe dovuto chiamarsi, per l’appunto, “Bragaglino”. Gli eredi del poliedrico artista – tuttavia – negarono l’autorizzazione all’utilizzo del nome, la “r” sparì e nacque il Bagaglino. La pattuglia – costituita per intero da giornalisti che si definivano “anarchici di destra” – era formata da Luciano Cirri del Borghese, Gianfranco Finaldi, Pier Francesco Pingitore e Piero Palumbo dello Specchio, Raffaello Della Bona del Secolo d’Italia e Mario Castellacci, redattore Rai e autore della canzone repubblichina Le donne non ci vogliono più bene. La prima location è una cantina in vicolo della Campanella, nei pressi di Piazza Navona. Sul palco si alternano musicisti, attori, comici, cantanti che faranno strada: Oreste Lionello, Pino Caruso, Pippo Franco, Lando Fiorini, Lino Toffolo, Bruno Lauzi, Gabriella Ferri e tantissimi altri protagonisti dello spettacolo d’intrattenimento. Al microfono si esibirà spesso anche Leo Valeriano, l’apripista della musica alternativa. L’ironia della comitiva – pungente, libera, mai allineata e capace di ridere di una classe politica che si prendeva troppo sul serio – non manca di suscitare la reazione stizzita della critica militante, che liquida come “qualunquista” la satira del Bagaglino. Giudizio che non intacca minimamente l’entusiasmo di un gruppo che – come il Cirano di Guccini – trova nello “spiacere il suo piacere”, il proprio motivo fondante. Idea, del resto, chiarita sin dagli esordi dell’avventura, nel primo numero della rivista omonima pubblicata dal Bagaglino: «Si può essere “contro” soltanto nella misura in cui si è, veramente, “fuori”».

Canzonissima – «Nell’autunno del ’68, dopo cinque anni di assenza, torna in onda sul Programma Nazionale (come si chiama allora RaiUno) il varietà più amato dagli italiani: Canzonissima, una formula vincente per il pubblico nostrano perché è un mix di musica, sketch comici e balletti. Questa edizione resta negli annali televisivi come la “migliore” delle dodici trasmesse. A rendere eccezionale la Canzonissima del ’68 sono i conduttori, a cominciare da Mina, rientrata solo un anno prima in video dopo essere stata cacciata nel ’62 a causa della sua maternità scandalosa da ragazza madre. Accanto a lei ci sono due assi della risata come Paolo Panelli e Walter Chiari e le imitazioni di Alighiero Noschese. Un altro elemento che appassiona gli spettatori è l’abbinamento alla Lotteria di Capodanno. Molti i momenti indimenticabili, come il tormentone “Fusse che fusse la vorta bbona” di Nino Manfredi nei panni del barista ciociaro Bastiano».
Enzo Biagi (L’Italia del ‘900 68-71)

De André, Fabrizio – «Anche se il nostro maggio ha fatto a meno del vostro coraggio/ se la paura di cambiare vi ha fatto girare il mento…/ e se vi siete detti non sta succedendo niente/ le fabbriche riapriranno arresteranno qualche studente/ convinti che fosse un gioco a cui avremmo giocato poco/ provate pure a credervi assolti siete lo stesso coinvolti…/ E se credente ora che tutto sia come prima/ perché avete votato ancora la sicurezza, la disciplina/ convinti di allontanare la paura di cambiare/ verremo ancora alle vostre porte e grideremo ancora più forte/ per quanto voi vi crediate assolti siete per sempre coinvolti». Era il ’73 e Fabrizio De André dedicava un concept album – formula discografica pressoché sconosciuta nel panorama italiano, se si eccettuano alcuni lavori dello stesso De André e le sperimentazioni di Giovanna Marini, Vi racconto l’America, e dei New Trolls, Senza orario senza bandiera – alla Storia di un impiegato, ambientata durante il Maggio francese del ’68. Il disco è una denuncia inflessibile e dissacrante dei conformismi borghesi e delle velleità falso-rivoluzionarie del terrorismo, analizzate e raccontate con spietata lucidità da un De André più libertario che mai. Il bombarolo dell’omonima canzone, spinto dalla voglia di bruciare le tappe e farsi giustizia da sé, punta deciso verso il palazzo del potere armato di un carico esplosivo: in testa idee confuse, in tasca un ordigno fatto in casa. La conclusione è tragica quanto ridicola: «C’è chi lo vide ridere/ davanti al Parlamento/ aspettando l’esplosione/ che provasse il suo talento/ c’è chi lo vide piangere/ un torrente di vocali/ vedendo esplodere/ un chiosco di giornali».

Eroi – «Siamo fatti per vivere sentimenti potenti, per sentire rombare il motore» e quindi «gli eroi sono necessari», parola di Valerio Massimo Manfredi. E tanti saluti a Brecht. Eroi immaginati, vagheggiati, spesso trasfigurati. «I simboli – ha sostenuto l’ambasciatore Ludovico Incisa di Camerana – sono altro rispetto alla realtà, alla storia e all’ideologia, appartengono al mondo del sogno». Meglio ancora se quel sogno si nutre di un epos tragico, di un destino segnato, di una guerra perduta ma combattuta con la vittoria nella testa e nel cuore. Ad Algeri come in Bolivia. Tra le dune del deserto arabo o tra le fila dei proscritti dei Freikorps tedeschi. Icone ribelli in grado di colpire l’immaginario giovanile divenendo patrimonio di un’intera generazione. Non era strano, di conseguenza, che all’ingresso del “Dioniso”, ritrovo giovanile romano della fine degli anni ’60, fosse ben visibile – come ha ricordato Adalberto Baldoni – il pannello che delimitava il palco principale in cui «si notava un gran volto del Che accompagnato da un’immensa croce celtica stilizzata». D’altronde, sempre Incisa di Camerana ha affermato: «Se Che Guevara fosse nato europeo probabilmente avrebbe combattuto con D’Annunzio a Fiume o avrebbe marciato su Roma». Assimilazioni ardite? Certo che sì. Ma non è difficile immaginare che se la colonna sonora post-sessantottina avesse potuto suonare – assieme – le note di Hasta siempre Comandante di Carlos Puebla confuse con le strofe di Non, je ne regrette rien cantate dalla voce calda e struggente di Edith Piaf, avremmo forse evitato la banalizzazione dei miti, ridotti a vessilli calcistici o souvenir per feticisti di qualsivoglia rivoluzione.

Eskimo – «Portavo allora un eskimo innocente/ dettato solo dalla povertà/ non era la rivolta permanente/ diciamo che non c’era e tanto fa./ Infatti i fiori della prima volta/ non c’erano già più nel Sessantotto/ scoppiava finalmente la rivolta/ oppure in qualche modo mi ero rotto./ Tu li aspettavi ancora ma io già urlavo/ che Dio era morto, a monte, ma però/ contro il sistema anch’io mi ribellavo/ cioè, sognando Dylan e i provos…». Con uno sguardo più sentimentale che politico, Francesco Guccini – nella sua canzone Eskimo – si volta indietro a vedere il ventenne che era stato dieci anni prima: il problema dei soldi per il cinema, l’amore fugace consumato in posti di fortuna, la nascita, tutt’intorno, del freak. E l’eskimo indossato per necessità piuttosto che per scelta, proprio come nel caso del protagonista di uno dei racconti contenuto nel libro del giornalista torinese Augusto Grandi, Baci & bastonate, un amarcord, come recita il sottotitolo, di “un sessantottino nero con alle spalle… nessun progetto politico”:
«- Ma come ti sei vestito? – Stefano è allibito guardando Paolo arrivare tutto orgoglioso del suo nuovo abbigliamento.
- Perché cosa c’è che non va? Me lo sono appena fatto comprare da mia madre. Vedrai che effetto quando entriamo in Sezione.
- Non c’è dubbio che farai effetto. Ti sei conciato da compagno.
- Ma che compagno. Ho letto sull’Espresso di mio padre che noi fasci andiamo in giro con il giaccone militare verde oliva.
- Ma non c’era una foto sull’Espresso? Quello che hai addosso non è un giaccone militare. È un eskimo.
Paolo ci rimane malissimo. Non può certo andare dalla mamma a spiegare che si è sbagliata e che vuole un giaccone totalmente diverso. Torino-bene sì, ma i soldi non si sprecano e i vestiti si portano sino a quando non sono logori. Bisognerà farsene una ragione.
- Questo è l’abbigliamento corretto. Te ne saresti accorto, se avessi letto il giornale con più attenzione.
- L’ho letto, l’ho letto, ma ho anche letto che quella è la divisa dei fasci da bar, dei fighetti. Insomma, il peggio che ci può essere tra noi. La rivoluzione è la rivoluzione. Ed è meglio un eskimo che non gli stivaletti a punta che fanno male ai piedi.»
Altra storia, invece, quando gli eskimi cominciarono ad entrare in redazione…

Europa Nazion(al)e – 10 giugno ’68, Stadio Olimpico, Roma. Finale dei Campionati Europei di calcio. Italia-Jugoslavia 2-0. Riva 11’, Anastasi 32’. Nando Martellini – che, quattordici anni dopo, consegnerà alla storia l’urlo «Campioni del mondo! Campioni del mondo! Campioni del mondo!» – commenta la prima, e sino a oggi ultima, vittoria dell’Italia al torneo del vecchio continente. Da quel momento in poi anche i bambini avrebbero recitato a memoria la filastrocca “Zoff, Burgnich, Facchetti…”.

Franco e CiccioStraziami, ma di baci saziami di Dino Risi. Il medico della mutua di Lugi Zampa. Capriccio all’italiana di Steno. La matriarca di Pasquale Festa Campanile. I due deputati di Gianni Grimaldi. Amanti di Vittorio De Sica. Sissignore di Ugo Tognazzi. Meglio vedova di Duccio Tessari. L’elenco potrebbe continuare all’infinito. Perché il ’68 è anche l’anno della commedia all’italiana. Soltanto in quei dodici mesi Franco Franchi e Ciccio Ingrassia – per citare due dei principali protagonisti di quella fortunata stagione cinematografica – girarono undici film, di cui uno, Don Franco e Don Ciccio nell’anno della contestazione (’68), realizzato in sole tre domeniche. La loro comicità schietta ed esilarante, mai volgare e soprattutto contagiosa, richiama nelle sale adulti, ragazzi e bambini. Giuseppe Moccia, in arte Pipolo, scomparso il 20 agosto 2006, ha sottolineato come rappresentassero «un’Italia prorompente, vitale e con voglia di fare». Eppure la critica ideologizzata continuerà a considerarli poco più che fenomeni da baraccone, manifestando sdegno per il crescente successo di pubblico. L’accusa rimarrà sempre la stessa: qualunquismo. Tra le poche voci controcorrente, quella di Valerio Caprara: «Inutile aggiungere che meno amavo le isterie gauchistes (che, pure, hanno preso il potere nel campo dei sacerdoti della critica) più simpatizzavo con la morfologia artistica di Franchi e Ingrassia, la cui docta ignorantia mi sembrava di gran lunga più lucida della ignoranza tout court dei lanzichenecchi rossi e rosa di Cinecittà e dintorni. Il cinema ‘nobile’ era costituito, per costoro, da alcuni ignobili sottoprodotti gabellati per ‘ideologici’ e progressivi, e Franchi e Ingrassia dovevano essere disprezzati in quanto non degni del circuito prestigioso delle prime visioni. Per fortuna il popolo (quello vero, quello che si esalta al Mundial e prende a pomodorate le reprimende dei sociologi) invertiva puntualmente i canoni del sotterraneo Minculpop e premiava gli sforzi autarchici, generosi, fisici dei due attori in barba agli appelli auto-mortificanti dei pretini sub-marxiani».

Godo ergo sum – «Essere un playboy nel ’68 non era affatto facile: ci voleva il fisico, la classe, il coraggio, una bella dose di sfrontatezza e molto tempo libero». Firmato: Franco Califano, maestro di ars amatoria. Di quella ristretta cerchia di pendolari dell’amore tra Roma, Milano e le principali località turistiche del tempo, fanno parte uomini del calibro di Gualtiero Jacopetti, giornalista e regista ma anche impenitente seduttore, Tomaso Staiti di Cuddia, «il terrore dei mariti» e sopratutto Gigi Rizzi, icona del machismo nazionale per aver conquistato Brigitte Bardot. Storie individuali, certamente, ma rappresentative di una ribellione giovanile che – come ha scritto Massimo Fini nella prefazione alla biografia di Rizzi (a cura di Giangiacomo Schiavi, Io, BB e l’altro ’68, Carte Scoperte, 2004) – non si alimenta nel «sottofondo politico e antiborghese dei movimenti che investono università e fabbriche». I playboy, indifferenti ai richiami della rivolta, sono «antropologicamente di destra», non hanno nulla in comune con i «finti rivoluzionari, giovani più scaltri, più avveduti, molto meno innocenti». E infatti «mentre i leader del Sessantotto cercheranno e troveranno tutte le scorciatoie per arrivare, facendo di una rivoluzione fallita il loro trampolino di lancio e poi monetizzeranno quella loro stagione diventando direttori di quotidiani e settimanali, anchorman televisivi, uomini politici, i playboy recupereranno i valori dei padri». Tutto il resto – per dirla con il Califfo – è noia.

Hank – La sua faccia, sfigurata dall’acne e dai vizi, viene ancora stampata sulle magliette che alimentano il marketing sessantottino. Americano di origini tedesche, Charles Bukowski (1920/1994), Hank per gli amici, ne rimane un’icona, suo malgrado. Eppure l’autore di Storie di ordinaria follia detestava profondamente le associazioni benefiche, le mobilitazioni democratiche e tutto quanto esprimesse buone intenzioni. Non voleva cambiare il mondo e non riponeva alcuna speranza nel progresso. Quando, dal 25 al 29 agosto ’68, migliaia di giovani improvvisano un’imponente manifestazione a Chicago in occasione della convention del partito democratico, Bukowski chiosa caustico: «Gli avvenimenti di Praga hanno raffreddato la maggior parte di quelli che si erano dimenticati dell’Ungheria. Eppure restano a bighellonare nei parchi con i ritratti di Castro a mo’ di amuleti, a strillare OOMM-OOMM con Burroughs, Genet e Gisberg in testa». Già, perchè «un conto è chiacchierare di rivoluzione con tre teste di cazzo di scrittori di fama internazionale, altra cosa è farla davvero». Questo era il suo incubo: «Finire in compagnia di professori impegnati che finiscono con il diventare tanti coglioni e rincoglioniti che si mascherano da grandi saggi». Riposa in pace, Hank.

Il laureato – Film del ’67, tratto da un romanzo di Charles Webb. La trasgressione sessuale e l’irruzione della musica pop ne fanno ben presto un cult-movie per giovani irrequieti. L’amore di Dustin Hoffman per la nevrotica signora Robinson – e, poi, per la di lei figlia – corre sulle note di Paul Simon e Art Garfunkel, celebre coppia della canzone americana. «Quel film e quella canzone sono il nostro “Va’ pensiero”, la colonna sonora della nostra libertà» ha ricordato Francesco Merlo. Il giornalista di Repubblica spiega come, attraverso S&G, si può «capire che la ribellione non fu e non è quella robaccia di bandiere rosse che vi raccontano gli adulti di professione, i sociologi, i politologi, i ragazzi che si accanirono contro quelle istituzioni che, ora, da uomini, guidano; non fu materia preparatoria per il terrorismo, per la lotta di classe, porcheria omicida da Lotta Continua, da Potere Operaio, da Maotsetung-pensiero… Il Sessantotto di popolo, quello autentico e importante, quello di tutti, non cantava “Bella Ciao” ma “The Boxer”». E ancora: «Quei ragazzi non è vero che volevano fare la rivoluzione di stelle rosse e di falci e martelli, a Berkeley a Nanterre o a Valle Giulia. Non erano lì nei campus americani, nei collèges francesi, nei cortili delle nostre università per servire il popolo ma to look for America».

Jan – 16 gennaio ’69. In piazza San Venceslao la tragedia si è consumata. Su un quaderno trovato poco distante, un breve testamento politico chiarisce i motivi del drammatico gesto del giovane che si è appena dato fuoco nel luogo simbolo della capitale cecoslovacca: «Poiché i nostri popoli sono sull’orlo della disperazione e della rassegnazione, abbiamo deciso di esprimere la nostra protesta e di scuotere le coscienze. Il nostro gruppo è costituito da volontari, pronti a bruciarsi per la nostra causa». Jan Palach: questo il nome dello studente che ha illuminato con il suo corpo la speranza di una nazione. I fiori della Primavera di Praga erano finiti schiacciati sotto il peso dei carri armati sovietici l’agosto precedente, ma l’impressione di quei morti descritti da Milan Kundera ne l’Insostenibile leggerezza dell’essere era destinata a generare ancora frutti di eroismo come quello del ventenne protagonista del ’68 combattuto oltre-Cortina. Dopo il funerale – seguito da centinaia di migliaia di persone – il ricordo. In Italia ci ha pensato, tra gli altri, Francesco Guccini, con il brano Primavera di Praga: «Dimmi chi sono quegli uomini lenti/ coi pugni stretti e con l’odio tra i denti/ dimmi chi sono quegli uomini stanchi/ di chinar la testa e di tirare avanti/ Dimmi chi era che il corpo portava/ la città intera che lo accompagnava/ la città intera che muta lanciava/ una speranza nel cielo di Praga».

Kennedy, John Fitzgerald – Ogni “ismo” – comunismo, fascismo, nazionalismo, liberalismo, europeismo e via via declinando – ha un suo fondatore, un vate, un guru, un duce. Una persona, insomma, che, più di altre, ne consustanzia l’idea e la forma e ne dà una rappresentazione esaustiva. Di molti “ismi”, la storia (o il caso) ha fatto carta straccia. Altri, invece, sopravvivono nel tempo e dimostrano un’inossidabile capacità darwiniana all’adattamento. Come nel caso del “buonismo” – ideologia planetaria che ha come unico canone quello per cui non conta ciò che si pensa, si dice e si fa ma l’appeal del sorriso di colui che pensa, dice e fa – ormai prossimo a celebrare il mezzo secolo di vita. Sì, perché nasce contestualmente all’esplosione del fenomeno JFK, che a buon titolo può essere ricordato come il capostipite di tutti i buonisti politici. Il futuro presidente degli Usa proveniva da una famiglia cattolicissima, a tal punto che – come ha scritto Gianni Scipione Rossi nell’introduzione al libro di Marco Marsilio Razzismo. Un’origine illuminista – il padre Joseph fece lobotomizzare (condannandola ad un futuro fatto di cliniche psichiatriche) la sorella Rosemary in quanto «ragazza vivace, giudicata di troppo facili costumi sessuali». Divenuto capo dell’amministrazione americana nelle elezioni del ’60, Kennedy, nel corso del suo scorcio di mandato, strinse ottimi rapporti con i padrini della mafia a stelle-e-strisce, fu responsabile – con la vicenda della Baia dei Porci cubana – della più grande crisi internazionale del dopoguerra, che portò il mondo sull’orlo del conflitto atomico, e trascinò gli Stati Uniti nella tremenda avventura del Vietnam. Il tutto in soli tre anni. Eppure l’immagine di JFK “tiene botta” e «la storia di un’incantevole mediocrità – parole di Vittorio Zucconi – che una pallottola ha trasformato per sempre in eccezionalità» occupa stabilmente il suo posto nell’album di famiglia dei Sixties visti con le lenti del politicamente corretto: una galleria di foto fatta di libertari mancati, artisti mediocri e rivoluzionari da operetta. Il pantheon di quella peggio gioventù che non ha mai avuto la voglia, né trovato il coraggio, di essere giovane.

Linus – La “rivista dei fumetti e dell’illustrazione” appare in edicola nell’aprile del ’65. Sulla copertina del primo numero l’eterno bambino di Schultz con l’inseparabile coperta e il pollice in bocca. Niente di destabilizzante, all’apparenza. Ma l’establishment politico già guardava con crescente sospetto al mondo, potenzialmente “eversivo”, delle “nuvole parlanti”. «La gioventù che si nutre di fumetti è una gioventù che non legge e questa assenza di lettura nel senso proprio della parola non è l’ultima tra le cause di irrequietezza, di scarsa riflessività, di deficiente contatto con il mondo circostante e quindi di tendenza alla violenza, alla brutalità, all’avventura fuori dalla legge». A lanciare l’anatema non era stata una quarta fila democristiana baciapile ma, nientepopodimenochè, la first lady ombra del comunismo italiano, Nilde Iotti, su un numero di Rinascita del ’51. Alla Iotti, indirettamente, aveva risposto Corto Maltese, il marinaio solitario nato dalla matita di Hugo Pratt, che sulle pagine di Linus vivrà molte avventure: «Non sono nessuno per giudicare. So solamente che ho una antipatia innata per i censori, i probiviri. Ma, soprattutto, sono i redentori coloro che mi disturbano di più». La generazione di fine anni Sessanta, così carica di sogni, stupisce anche Umberto Eco: «Eppure sono cresciuti a televisione e fumetti, immersi in un bagno di comunicazione indistinta che – a detta degli esperti – doveva renderli insensibili ai valori». Tra i primi personaggi a fare capolino su Linus anche una bella e sensuale fotografa milanese: la conturbante Valentina di Guido Crepax. Una donna emancipata e moderna che del femminismo non sapeva cosa farsene. È con la direzione di Oreste del Buono (il famoso OdB) che Linus si rinnova, diventando qualcosa in più che una rivista di fumetti, dove trovano spazio le firme di Massimo Fini, Giorgio Galli, Alberto Arbasino e Gianfranco de Turris. Da quell’esperienza de Turris tirerà fuori lo spunto per compilare il suo Camerata Linus, una raccolta degli articoli usciti sulla rivista e un resoconto delle polemiche che seguirono al fatto che un giornalista collocato “a destra” potesse scrivere su una pubblicazione rivolta ad un pubblico costituito da lettori in maggior parte “di sinistra”.

Meroni, Luigi detto Gigi – I divismi discotecari dei calciatori moderni avrebbero infastidito molto uno come Gigi Meroni che, quarant’anni fa, irregolare lo fu veramente. Quando la trasgressione non garantiva copertine gossippare e comparsate televisive. Nato a Como nel ’43, conobbe il periodo di massimo splendore della sua carriera con il trasferimento al Torino, nella stagione 1964-1965. Amante del jazz e dei Beatles (Un beatle italiano era il titolo della trasmissione che gli dedicò Emilio Fede), giocava a stupire girando per il centro della città portando al guinzaglio una gallina. Rifiutò l’alloggio borghese che la società granata gli aveva assegnato per vivere in una mansarda di Piazza Vittorio in compagnia delle tele che dipingeva e della “bella del luna park”, l’italo-polacca Cristiana Understadt. Comprò quella che definiva “la mia Rolls-Royce” – una vecchia Balilla – da un contadino di Vercelli che l’aveva adibita a pollaio. Qualcuno, vedendolo senza indosso la casacca di gioco, avrebbe potuto scambiarlo per uno dei tanti urlatori del periodo, per via della barba e dei capelli portati ostentatamente lunghi: «Tutti mi dicono di tagliargli e io li tengo». Il rifiuto di sfoltire la zazzera colpì anche l’allenatore della nazionale Edmondo Fabbri che, per convincerlo a darsi una “ripulita”, gli sventolò sotto il naso la maglia azzurra numero 7. Sarebbe stata sua se solo gli avesse dato retta. Niente da fare. Il 15 ottobre ’67 viene investito da un’auto mentre attraversa Corso Umberto. Poche ore dopo il “calciatore-beat” dai calzettoni perennemente abbassati, muore. Il vero congedo, però, arriva la domenica successiva, quando il Toro vince il derby per 4-0 e Meroni può finalmente disinteressarsi delle cose terrene e volgere il suo sguardo altrove a cercare nuove ispirazioni per i suoi quadri e le sue poesie. «Era un simbolo di estri bizzarri e libertà sociali in un paese di quasi tutti conformisti» scrisse nel necrologio il decano dei giornalisti sportivi, Gianni Brera. Nando Dalla Chiesa, che alla “farfalla granata” ha dedicato un libro, lo ha definito l’emblema di «una certa (bellissima) idea di calcio. Per questo oggi il suo ricordo giganteggia. Per questo nessuno oggi immaginerebbe più di raccontare l’Italia degli anni sessanta, non solo calcistici, senza nominarlo».

Morrison, Jim – Adottato abusivamente dall’ultrasinistra come icona progressista, Jim Morrison (1943 – 1971) è personaggio ben più complesso dello stereotipo della rockstar autodistruttiva e “maledetta”. Poeta americano di formazione nietzscheiana, influenzato più da Céline e Rimbaud che non dagli scrittori beat Ferlinghetti, Patchen e McClure, insofferente verso i dogmi della nuova sinistra, dal vegetarianismo alle insegne del “Pace e Amore”, il “Re Lucertola” era, come lo descrivono Jerry Hopkins e Danny Sugerman nella biografia Nessuno uscirà vivo da qui (Edizioni Blues Brothers), un intellettuale raffinato e affascinante, «per molti aspetti conservatore in ambito politico». Come quando, per esempio, «guardava i beneficiari delle opere assistenziali con lo stesso disprezzo che provava per i mendicanti capelloni». Non voleva cavalcare l’onda del ribellismo nascente: «Non sto affatto parlando di rivoluzione, di manifestazioni o di scendere in piazza, sto parlando di danzare». Non era nel suo stile assecondare gli umori del pubblico. Anzi, come gli attori del Living Theatre, spesso lo provocava: «Siete un mucchio di fottuti idioti». Il gruppo musicale che formò, The Doors (le porte), divenne in pochissimi anni una delle band più importanti e famose nella storia della musica. Nel ’67 il primo singolo Light my fire si impose al primo posto delle classifiche americane dei dischi più venduti, prima di cedere il passo ad All you need is love dei Beatles. Applicando a se stesso la massima di William Blake, poeta inglese dell’Ottocento, per il quale «la strada dell’eccesso conduce al palazzo della saggezza», spese la sua funambolica vita artistica di sciamano moderno nel tentativo di aprire un varco tra il noto e l’ignoto, di spalancare, come recita il titolo di un libro di Aldous Huxley, «le porte della conoscenza». Break on through to the oder side, Jim.

Nouvelle Droite – Poche settimane prima le joli Mai francese, un gruppetto di giovani intellettualmente ben dotati dà origine all’avventura editoriale di Nouvelle École. Il principale artefice di quello che, a buon diritto, può essere definito l’atto di nascita della Nuova Destra d’oltralpe è un vivace giornalista parigino: Alain de Benoist. L’inizio è duro: «La rivista rischiò in un primo momento di intitolarsi La Revue grise (con un’allusione all’Action française prima maniera), poi Plein soleil (una reminiscenza cinematografica). Il titolo definitivo rimandava piuttosto a Georges Sorel. Per lanciarci, ovviamente, non avevamo né soldi né strumenti. Decisi dunque di fare una rivista ciclostilata: un’impresa alquanto folle». C’era una vena romantica e sognatrice in quel sodalizio, che si riuniva in una casa di campagna per dare corpo al periodico: «Ci chiudevamo lì nel fine settimana, in sette o otto, per realizzare la stampa, assemblare le pagine, incollarle, aggiungervi una rilegatura, rifinire il tutto, metterlo in busta. Era un compito fastidioso, ma che non intaccava il nostro buonumore». Da quella prima esperienza seguirono negli anni filiazioni declinate in molte esperienze nazionali. A quell’inatteso fermento culturale, nel ’98, è stato dedicato un volume collettaneo dal titolo Le Mai 68 de la nouvelle droite, in cui i vari animatori della Nuova Destra europea hanno descritto il proprio personale Sessantotto, autentico e, per quanto possibile, non mediato da approcci a posteriori. Tra le testimonianze, quella firmata con lo pseudonimo di Jean Jouven: «Il ’68 perlomeno fu una poesia selvaggia, che fiorì in primavera, una lacerazione del velo sociale grazie alla forza dell’immaginazione collettiva, nella quale il potere per un attimo vacillò. E più del potere: il falso mondo, logoro, ipocrita, vetusto e senza gioia». Del tutto intimo, invece, il ricordo del croato Tomislav Sunic: «Il mio grande sogno era di diventare scrittore, ma scrittore beatnik in guerra contro ogni società e anche contro la mia stessa famiglia». Disincantato il giudizio del politologo fiorentino Marco Tarchi, attuale direttore delle riviste Diorama e Trasgressioni: «A me gli infervorati racconti delle notti passate sotto le tende davanti al portone sbarrato dell’Università davano solo un senso di fastidio. Che cosa c’era di eroico in quelle manifestazioni? Dormire nei sacchi a pelo non mi appariva gesto tale da rivelare una tempra rivoluzionaria: era semmai la premessa di quel turismo fai-da-te cui avrei aderito in seguito con entusiasmo e che, visto retrospettivamente, rimane uno dei frutti di più lunga durata e di più ecumenica accettazione del Sessantotto». Nessuna nostalgia, quindi, per Tarchi, se non per la gioventù passata. E, a sentire de Benoist, anche per un certo tipo di musica: «Certe sere, ascolto Gilles Servat cantare Le baptème de Virginie o Dylan The times they are a-changin. Mi si stringe il cuore».

Ortodossia ideologica – La tentazione è forte. Porsi la famigerata domanda: cosa sarebbe stato del Sessantotto italiano se l’ideologia non ne avesse avvelenato le prospettive finendo per tradirne i presupposti sociali e culturali? Perché il movimento fu dirottato in volo, da una piccola minoranza violenta quanto intransigente che aspirava a dividere il mondo in buoni e cattivi, a dare (e negare!) patenti di agibilità democratica. Allontanando – spesso e volentieri a bastonate – le cosiddette masse, in nome delle quali pochi pretendevano di rimettere indietro le lancette della storia. La creatività tornerà ad affacciarsi nei Settanta e – anche lì – mazzate a destra e manca. Singolare destino quello del ’68: nato contro l’autoritarismo di una società patriarcale finirà per caratterizzarsi per un nuovo – più invasivo – autoritarismo. Nato contro il sistema dei partiti, produrrà una miriade di sigle e di gruppuscoli. Nato per valorizzare le differenze, praticherà l’intolleranza per ogni diversità. «Chi parla con una qualche nostalgia del Sessantotto – ha scritto Giampiero Mughini – non ha il diritto di dimenticare la guerra civile della gioventù e le sue centinaia di morti». «Sarebbe bastato saper distinguere Let it be dall’Internazionale» ha chiosato Ferdinando Adornato. «È finito il Sessantotto, è finito con un botto…» cantava Paolo Pietrangeli, l’autore di Contessa, negli anni Settanta. Già, piazza Fontana. Eppure c’è chi si prepara a stappare lo champagne.

Poesia – «I porti invecchiano/ Venezia è sempre da salvare/ L’Inps assediata/ Gli statali in sciopero/ L’edilizia in crisi/ Gli ortofrutticoli danneggiati dal Mec/ Il turismo regredisce/ Le acque sono inquinate/ I treni ritardano/ La circolazione in crisi/ Lo sciopero dei benzinai/ Gli studenti preparano la protesta/ Rivolta nelle carceri/ La riforma burocratica ferma/ Napoli paralizzata/ Sciopero dei netturbini/ La crisi del latte/ La pornografia in crisi/ Il divorzio è in crisi/ Crisi dell’istituto familiare/ I giovani non si sposano più/ La torre di Pisa ancora in pericolo/ Il porto di Genova paralizzato/ I telefoni non funzionano/ Posta che non viene distribuita/ La crisi dei partiti/ La crisi delle correnti dei partiti/ Lo Stato arteriosclerotico/ Il Mezzogiorno in crisi/ Le regioni in crisi/ Il comune di Roma aumenta il disavanzo/ Ferma la metropolitana a Roma/ Duello di artiglierie a Suez/ I colloqui di Parigi stagnano/ I cinesi preparano una sorpresa?/ I negri preparano la rivolta?/ Gli arabi preparano la guerra?/ I russi nel Mediterraneo/ La sinistra in crisi/ La destra in crisi/ Il centro-sinistra in crisi/ Fine del parlamentarismo?/ Il freddo ritorna». Nel 1968 di Ennio Flaiano: quarant’anni e non sentirli.

Quant, Mary – La rivoluzione cammina sulle gambe degli uomini? Macché. Semmai sulle gambe scoperte delle donne. Soprattutto da quando, nel pieno della Swinging London, Mary Quant – giovane stilista inglese nata l'11 febbraio 1934 – inventò la minigonna. E scusate se è poco. Leslie Hornby detta Twiggy (grissino), parrucchiera di soli 17 anni, sarà la sua prima modella. Abile imprenditrice di se stessa, Mary si affermerà negli States come l’alta sacerdotessa della moda degli anni Sessanta.

Renault 4 – Ispirata alla cugina-rivale della Citroën – la gloriosa 2CV (deux chevaux, due cavalli) – la R4 rappresentò per molti (e per molto tempo) un simbolo. Non aveva nulla della concezione attuale dell’utilitaria: portabagagli spaziosissimo, quattro porte, cambio vicino lo sterzo, parabrezza completamente piatto. I finestrini, poi, erano una specie di metafora politica degli anni: mentre tutti gli altri andavano dall’alto in basso, nella R4 scorrevano da destra a sinistra e viceversa. Guardata con sospetto dalle forze dell’ordine – «Quelli con la 2CV e con la Renault 4 mi insospettiscono, quelle sono macchine da sovversivi!» urla il poliziotto ai ragazzi “on the road” del film Alla rivoluzione sulla due cavalli di Maurizio Sciarra – era, in realtà, un fenomeno socio-culturale che travalicava le collocazioni politiche. Il mito crollò quando la R4 fu usata dalle Brigate Rosse per far ritrovare il corpo senza vita di Aldo Moro in via Caetani: troppo stridente l’immagine di quella fissità, immortalata dalle telecamere, con la voglia di viaggio che fino ad allora aveva emanato.

Resistenza – «Una sovrabbondanza di memoria paralizza l’azione, annulla il futuro e induce alla malinconia». Mimmo Franzinelli cita Nietzsche per sottolineare come i contestatori considerassero «anacronistica» l’esperienza della Resistenza. Lo storico bresciano non ha dubbi: «Non credo che la Resistenza abbia rappresentato un riferimento effettivo, una presenza significativa nell’immaginario collettivo dei giovani». Inizialmente «il Sessantotto si proiettò verso il futuro, senza avvertire l’esigenza di attingere a patrimoni conoscitivi del passato, ritenuti sterili e superati». Solamente «nella fase involutiva del Sessantotto» italiano iniziò a essere enfatizzata – a fini meramente ideologici e di parte – una «Resistenza mitizzata quale modello ideale, quello stesso che, a livello internazionale, era simboleggiato dalla Cina, da Cuba e dall’America Latina». Ed ecco che i partigiani diventavano «fratelli maggiori (per dirla col verso di una canzone di Fausto Amodei d’inizio anni Sessanta) sostituendosi alla figura paterna, messa fuori campo dalla contestazione generazionale». E a quella dei nonni. Finirà, infatti, che ogni gruppetto della sinistra extraparlamentare «adotta il suo partigiano» facendone una sorte di «icona itinerante». «Nella fase della senilità gruppettistica imperversò lo schematismo di tipo aprioristico che identificava la Resistenza con la Resistenza garibaldina. Tutto il resto era attendismo, sabotaggio, tradimento, connivenza con gli americani». Complottismo. Altro che modernizzazione, il ’68 ha fatto la sua rivoluzione nel costume… malgrado i sessantottini. Gli anni passano ma certa sinistra non cambia, mai.

Rupture – «Sarkozy, scagliandosi contro ogni “feticismo conservatore” è il vero erede del ’68. Con lui la Francia torna la terra dei diritti dell’uomo». Non scherza, André Glucksmann, intellettuale tra i più autorevoli della sinistra francese con tanto di militanza sessantottina nell’invidiabile palmarès.
Sarkozy no, i “fratellastri” col fazzoletto rosso non li ama: «Hanno usato “l’immaginazione al potere” come un magnifico cavallo di Troia per dare l’assalto al palazzo e al potere. Un potere che dopo essere stato contestato, sovvertito, conquistato, è rimasto simile a se stesso». Con l’unica differenza che loro, gli ex ribelli, hanno occupato tutto: «La politica, i media, l’amministrazione e l’economia». Durante l’ultimo comizio nella capitale prima dell’incoronazione a presidente, “Sarko” c’era andato ancora una volta duro: «Tanti sessantottini continuano a sommergerci con i loro bei discorsi, che stridono clamorosamente col loro modo di agire. Fate quello che diciamo noi, ma non quello che facciamo noi». Eppure Glucksmann, paradossalmente, vede nella “rupture” di Sarkozy proprio la volontà sessantottesca di scuotere tutto ciò che è fisso e immobile, a cominciare dalla «rottura chiara e netta con una destra abituata a nascondere il proprio vuoto dietro grandi concetti pontificanti». Quel rinnovamento che la sinistra non riesce a fare, puntualizza il presidente francese, sottolineando le contraddizioni di chi «difende i trasporti pubblici ma non li prende mai, ama la scuola pubblica e non ci manda i suoi figli, adora le banlieues ma non ci vive, parla di interesse generale ma si barrica nel clientelismo e nel corporativismo, firma petizioni quando si espellono gli squatters ma non ne ospiterebbe mai uno a casa sua». «Lui parla con franchezza – sottolinea il filosofo francese – noi nel ’68 abbiamo parlato con franchezza». E che nessuno si azzardi a dare a Sarkozy dell’autoritario. Tutt’altro. «Non c’è restaurazione dell’autorità, semmai una restaurazione della politica, la restaurazione dell’idea che lo Stato possa servire a qualcosa». Distinguo da tenere ben presente, non solo oltralpe.

Slogan – Daniele Silvestri, cantautore molto de sinistra, non vuol sentirne parlare: «Lo slogan è fascista di natura». Sarà. Ad esempio «Boia chi molla» lo è. Ma perché non – anche – comunista, democristiano («Nel segreto dell’urna Dio ti vede, Stalin no!»), celodurista, femminista, retrogrado, futurista («Marciare non marcire»), ribelle («La barricata sbarra la strada ma apre la via»), conservatore, rivoluzionario, sognatore («Io proclamo lo stato di felicità permanente»), anarchico, libertario («Vietato vietare»), bacchettone, blasfemo («Amatevi gli uni sugli altri»), propagandista, anti-ideologico («Io sono marxista tendenza Groucho»), indipendentista, annessionista, barricadero («Sotto il selciato la spiaggia»), operaista, confindustriale, sfrontato («Beffo la morte e ghigno»), schietto, paraculo («Io sono un berlinese»), disimpegnato («Io non sono al servizio di nessuno, che il popolo si serva da sé»), militante, surrealista («L’immaginazione al potere»)? E buonista. Dalla «nuova frontiera» kennedyana alla «nuova stagione» veltroniana. La storia, prima che una successione di eventi, è un gigantesco tatzebao in cui ognuno, a piacimento, ha attaccato il proprio punto di vista condensandolo in poche parole: il suo slogan. L’etimologia della parola, che viene dal termine gaelico-scozzese sluagh-ghairm, è “urlo di guerra”. E chi non ha il diritto – e la necessità – di lanciare il suo grido di battaglia “contro il logorio della vita moderna”?

Tutto il calcio minuto per minuto – Sembrerà strano a molti ventenni d’oggi, ma un tempo non c’erano anticipi e posticipi, le partite di serie A e serie B si giocavano tutte di domenica – d’inverno alle 14.30, in primavera alle 15.00 e sul finire della stagione alle 16.00 – , la Champions League si chiamava Coppa dei campioni e i difensori centrali erano ancora lo stopper, in marcatura a uomo, e il libero, lì dietro a tutti, ultimo baluardo prima della porta. Un tempo in cui non esistevano parabole, decoder, pay tv, schede da crackare, canali tematici per ogni squadra ed estenuanti speciali d’approfondimento. Un tempo in cui i cross erano traversoni, gli off-side fuorigioco, i penalty calci di rigore e, in campo, scendevano mezzeali, fluidificanti, centromediani metodisti e interdittori. Quando le tv erano rigorosamente in bianco e nero e, nelle case delle famiglie italiane, era più facile trovare una radio che un frigorifero. Un tempo, lontanissimo, in cui l’unico modo per seguire la squadra del cuore, stando comodamente seduti sul divano di casa, era sintonizzare la frequenza su Radio1 e stare con l’orecchio incollato all’apparecchio per seguire “Tutto il calcio minuto per minuto”. Ideata nel ’60 da Guglielmo Moretti, Sergio Zavoli e Roberto Bortoluzzi, fu condotta da quest’ultimo per oltre un quarto di secolo. Al microfono si alternavano, in collegamento dai campi, il repubblichino non pentito Enrico Ameri, Ezio Luzzi, Nando Martellini, Sandro Ciotti e Alfredo Provenzali. Voci storiche della radiocronaca di cui si ricordano, ad esempio, le memorabili incursioni di Luzzi, corsaro della serie cadetta, capace di annunciare un gol del Catanzaro manco fosse la finale dei mondiali o l’arrochito «clamoroso al Cibali!» di Sandro Ciotti oppure, ancora, l’affannato «scusa Ameri, scusa Ameri» che faceva salire il cuore in gola ai tifosi prima che – in quei lunghissimi secondi – il commentatore annunciasse lo stadio nel quale c’era appena stata una marcatura. Cioè un goal.

Ufo – Del ’68 è il primo vero colossal di fantascienza della storia del cinema, 2001: Odissea nello spazio. Una megaproduzione – dieci milioni di dollari, una cifra all’epoca stratosferica – che “sdoganò” un genere sino a quel momento considerato minore. L’idea del film nasce da un racconto, La sentinella, di Arthur C. Clarke, ma il genio è quello di Stanley Kubrick (1928/1999). Quattro anni di lavoro, di cui un anno e mezzo per la realizzazione degli effetti speciale e due mesi solo per rivedere e tagliare il “girato”. Non è la trama quello che conta, è l’uso prepotente delle immagini, esaltate dal silenzio, a essere rivoluzionario. Indimenticabili i “balletti spaziali” di uomini e navicelle sulle note degli Strauss (Così parlò Zarathustra di Richard). La critica si dividerà, il giudizio del New York Times rimarrà in bilico tra «l’ipnotico e l’immensamente noioso». Il pubblico risponderà con maggiore entusiasmo tanto da far registrare, nel giro di pochi mesi, un record di incassi che iscrive d’ufficio il film tra le pellicole di maggior successo di ogni tempo. «Ognuno è libero di speculare a suo gusto sul significato filosofico del film – ha spiegato il regista – io ho tentato di rappresentare un'esperienza visiva, che aggiri la comprensione per penetrare con il suo contenuto emotivo direttamente nell'inconscio». L’immaginario – e non la fantasia – al potere.

Vita agra, la – «Ma guarda come scrivono! Questi non sanno neanche l’italiano, non faranno mai la rivoluzione». A Luciano Bianciardi era bastato prendere un volantino in mano per sbottare. Era stata Maria Iatosti, la giovane comunista per la quale aveva sacrificato moglie e figli, a trascinarcelo controvoglia, in quella manifestazione genovese. Nel ’62, sull’onda del successo de La vita agra – «una grossa pisciata in prima persona sul miracolo economico» per ricordare la tragedia di Ribolla, l’esplosione che otto anni prima aveva provocato la morte di quarantatre minatori – lo scrittore grossetano avrebbe potuto farsi «incazzato di professione». Un libro «arrabbiato» l’anno, questo gli proponeva la Rizzoli. E invece rispose no anche a Montanelli, che lo voleva al Corriere della Sera. Oltre che tradurre a ritmi spaventosi (sua la bella traduzione di Gilles, romanzo di Drieu La Rochelle, La Soglia Milano - SugarCo, ’61), scriverà per il Guerin Sportivo, Playman e Le ore, raccogliendo l’amaro conto: il disconoscimento dei salotti radical chic. Il mondo si affrettava a salire sull’affollato carro del progresso. Lui no, rimane fedele alla (sua) linea, atteggiamento che gli era già costato l’allontanamento dalla Feltrinelli. «Mi licenziarono soltanto per via di un fatto, che io strascico i piedi, e poi mi muovo piano, mi guardo intorno anche quando non è indispensabile». Pubblicherà ironici libri di divulgazione storica e infine morirà, consumato dall’alcool e dalle delusioni, a soli quarantanove anni, nel ’71.

Wayne, John – Una celebre frase di Ezra Pound è anche una raccomandazione, troppo spesso inascoltata: «Il cattivo critico critica il poeta, non la poesia». Il Morandini (Zanichelli editore) di Laura, Luisa e Morando Morandini – per dirla con Oscar Scalfaro – non ci sta e picchia duro su poeta, poesia e immaginario condiviso. Ecco la scheda dedicata a Berretti Verdi, pellicola del ’68 tratta dal romanzo di Robin Moore e diretta da Ray Kellogg. «Dopo un duro addestramento due reparti delle American Special Forces partono per il Vietnam per combattere eroicamente la loro crociata contro i musi gialli comunisti. Non è soltanto un brutto film come tanti film di guerra: è una cattiva azione, il solo film esplicitamente di destra reazionaria che Hollywood osò fare sul Vietnam: Dio è con John Wayne a stelle e strisce. Non perdere la scena finale col sole che tramonta all'Est e la battuta di Wayne all'orfanello vietnamita: “Figliolo, è per te che facciamo questa guerra”. Girato in Georgia». Quarant’anni dopo: resistere, resistere, resistere. Critica militante, ça va sans dire.

Western all’italiana – C’era una volta il ’68, ma nello stesso anno C’era una volta (anche) il west. Un west tutt’altro che sessantottino, quello di Sergio Leone (1929/1989). «Il cinema deve essere spettacolo – sosteneva il regista romano – è questo che il pubblico vuole. E per me lo spettacolo più bello è quello del mito». E c’è la sua mano dietro i “mitici” colossal degli anni Cinquanta, da Quo Vadis a Elena di Troia, da Ben Hur a Gli ultimi giorni di Pompei. Quando esordisce come regista è subito western, autarchico, polveroso, violento, immortalato dai visi duri di Clint Eastwood, Charles Bronson e Henry Fonda nell’inedito ruolo del cattivo. «Il più bel western della storia del cinema» certificheranno, da buoni intenditori, gli americani. Dalla “trilogia del dollaro” (Per un pugno di dollari, Per qualche dollaro in più e Il buono, il brutto, il cattivo) all’epico C’era una volta il west, il successo si fa planetario, il solco del “genere” – accompagnato dalle straordinarie colonne sonore di Ennio Morricone – è tracciato per gli anni a venire. Avevano un bell’affannarsi, a sinistra, a sminuirne sprezzantemente le opere sbertucciandole come “spaghetti western”, salvo farne oggi – parole di Oliviero Diliberto – «la metafora del ’68». Peccato che in quegli anni invitavano lo Stato a non sovvenzionare film così estranei al neoconformismo imperante. Il mondo, malgrado il conservatorismo dei sessantottini italiani in camicia rossa, stava producendo i suoi effetti e l’immaginario avrebbe spazzato via definitivamente vecchie ideologie e cupi nostalgismi.

X Generation – Il termine – usato per la prima volta nel ’64 in uno studio di Jane Deverson sulla gioventù britannica per definire «una generazione di adolescenti che dormono insieme prima del matrimonio, non credono in Dio, disprezzano la Regina e non rispettano i genitori» – nel mondo occidentale ha assunto una sua fisionomia. Individua, confinandoli demograficamente, i nati – approssimativamente – tra il ’65 e il ’75. Una generazione “invisibile” e “nichilista”, alla quale si imputa generalmente la mancanza di una identità sociale ben definita, riprodotta per stereotipi: apatici, cinici e senza valori. Ma la colpa più grave rimane un’altra: non aver fatto in tempo a partecipare al ’68. Imperdonabile. Perché chi c’era è stato giovane, chi non c’era no. Per questo i primi ci tengono affinché si sappia: loro c’erano. Da destra, sinistra, centro, di lato, sopra o sotto. Anche solo di sguincio. Quanti sono gli ex combattenti di guerre che hanno solo sognato? È sufficiente una divisa stropicciata, un vecchio eskimo che si affaccia da un armadio, un corteo, l’occupazione di una notte, una comparsata da una barricata come dall’altra, per vedersi riconosciuto – se non il titolo – almeno l’attestato di presenza. Quanti, al momento opportuno, l’hanno sbandierato? Quanti – dopo, ma solo dopo aver conquistato la scrivania – l’hanno riposto opportunamente nel cassetto? Appena possono, però, adorano raccontarlo, raccontarsi. Come i nonni – sempre di meno, ahinoi – che a Natale tirano fuori l’episodio di trincea, sempre lo stesso. Reduci, fieramente. Sessantottini, ostentatamente. Che oggi li ritengano anni formidabili o terribili, una speranza tradita o, piuttosto, un’occasione perduta che fa sospirare. Che si considerino ex, post o ormai antisessantottini, non importa. Che siano pentiti o che ancora gli si gonfi il petto, neanche. C’erano. Perché – sia chiaro – chi non c’era, magari impegnato a fare altro, perché non si viveva di sola politica, allora come ora – non ha ancora diritto di dire la sua. Non c’è più un’assemblea pronta a urlarti addosso e a darti del fascio, appellativo elargito sin troppo generosamente da chi credeva nell’attualità imperitura del comunismo e in un mondo in bianco e nero, popolato di buoni e cattivi. Non c’è più un’assemblea. C’è il palinsesto globale concordato dalle parti, non sociali ma aziendali. Non c’è mozione o format che non siano stati preceduti da studi di mercato o sondaggi a campione, quest’ultimi vere avanguardie socio-politiche del terzo millennio. Pronte a spiegarci cosa penseremo domani, manco avessero fatto il Sessantotto.

Yellow Submarine – «Tu dici che cambierai la Costituzione/ Noi vogliamo cambiare la testa/ Tu dici che sono le istituzioni/ Tu farai meglio a liberare prima il tuo spirito/ Ma se continui a portare su di te delle foto del presidente Mao/ Nessuno ti seguirà, credimi». È il giugno ’65 e la Revolution dei Beatles sta per invadere l’Italia. A Milano, Roma e Genova i giovani sono in subbuglio per il tour dei Fab Four e le ragazzine si strappano i capelli alla vista dei baronetti di Sua Maestà la regina d’Inghilterra. Le forze dell’ordine fanno le prove generali del confronto che, nei mesi immediatamente successivi, le vedrà contrapposte ad una generazione scatenata. La Stampa descrive così l’evento: «Dappertutto ci sono cordoni di poliziotti travolti, ospedali da campo preparati […] una sarabanda, ritmata dalle urla selvagge di maniaci tifosi dei quattro». L’intera nazione è colpita dalla Beatles-mania e, più della musica del gruppo di Liverpool, ciò che stupisce è la reazione dei fan: «Frenesia generale e schiamazzante – riporta ancora il quotidiano di Torino – e adolescenti dei due sessi che si abbracciavano, prendendosi a manate, sbraitando senza motivo come epilettici, indemoniati». La breve tournée dei Beatles lascia sconcertata gran parte dell’opinione pubblica: i giovani stanno cambiando in fretta e mettono in discussione l’eredità dei padri. L’onda lunga libertaria che porta al ’68 è entrata nella sua fase viva e le masse in movimento per gli eventi pop-rock ne sono solamente l’avanguardia. Come ha analizzato Gianni Borgna, la società non era pronta a quella novità di «generazioni in preda al “fanatismo mistico”, cioè a istanze e valori irrazionali, quindi incomprensibili e, per conseguenza logica, inaccettabili». Il rischio concreto che i giovani possano organizzarsi autonomamente al di fuori delle tradizionali strutture di partito crea il panico tra i custodi dell’ideologia, tanto che l’Unità – nonostante il giorno prima ci fosse stato il delirio del Velodromo Vigorelli – se ne esce con un pezzo in cui si sostiene tout court che «il fenomeno Beatles da noi non esiste». Finito il biennio dei grandi concerti, i Beatles pubblicano il loro Lp più famoso: il 1° giugno ’67 irrompe sulla scena Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band ed è subito un successo. Si apre la discussione sulla “fase lisergica” del quartetto per via delle iniziali maiuscole della canzone Lucy in the Sky with Diamonds che sembrano alludere all’LSD. Joe Cocker, a Woodstock, interpreta una versione blues di With a little help from my friends. Ma è soprattutto il motivo di Yellow Submarine a fare breccia: «Viviamo tutti in un sottomarino giallo/ Così facciamo una vita comoda/ ognuno di noi ha quello che gli serve/ cielo blu e mare verde/ nel nostro sottomarino giallo». Tanti, tra i giovani, decideranno di entrare dentro quel sottomarino per guadagnarsi una fetta di futuro.

Zombie – Il loro nemico numero uno, Dylan Dog, è nato nel ’68. Sì, proprio l’indagatore dell’incubo, il figliolo di carta di quel geniaccio di Tiziano Sclavi. Qualcuno potrebbe obiettare che ha fatto la sua prima apparizione in edicola (edito dal patriarca del fumetto italiano, Sergio Bonelli) solo nell’ottobre ’86. E il personaggio – nel tempo immobile dei fumetti – dimostra oggi come allora poco più di trent’anni. Ma… del ’68 è il mitico film La notte dei morti viventi di George A. Romero, film cult di intere generazioni, ispirazione principale di un genere – quello dell’horror – che ha contagiato diverse forme artistiche tra cui, per l’appunto, la letteratura disegnata (come la definiva Hugo Pratt). Nell’editoriale del primo numero, non a caso intitolato, a mo’ di citazione, L’alba dei morti viventi, Sergio Bonelli presenta così la nuova collana: «Dichiaratamente horror, di un horror moderno, nel filone dei film di George Romero, John Carpenter e Dario Argento». Un lungo filo (nero o noir che dir si voglia) lega la pellicola di Romero al fumetto più venduto in Italia negli ultimi venti anni (tanto da toccare, tra ristampe e inediti, il milione di copie mensili vendute). Londinese, ex agente di Scotland Yard, ex alcolista che preferisce stordirsi con il clarinetto e distrarsi con la costruzione mai completata di un galeone, seduttore impenitente, Dylan Dog – insieme a Groucho, il suo spassoso assistente – combatte contro ogni genere di mostri. Senza mia scordarsi, nell’ironia che lo contraddistingue, che il mostro più minaccioso rimane la quotidianeità.

Roberto Alfatti Appetiti (Roma, 1967), giornalista esperto in comunicazione istituzionale e politica. Appassionato di cultura pop e letteratura, collabora con testate locali e nazionali. Per il Secolo d’Italia ha curato le rubriche “Sei un mito” e “Appropriazioni (in)debite”.

Pierluigi Biondi (L’Aquila, 1974), giornalista, scrive per il quotidiano Secolo d’Italia e la rivista Senzatitolo, trimestrale di teatro e cultura. Ha collaborato, in qualità di editor, al libro Tre punti e una linea. La storia attraverso la radio (ed. Teatroimmagine, 2007). Dal 2004 è sindaco di Villa Sant’Angelo (Aq).

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