lunedì 28 gennaio 2008

Dante Virgili: una voce dal cattiverio

Articolo di Roberto Alfatti Appetiti
 Dal Secolo d'Italia di sabato 26 gennaio 2008

«Dante Virgili è un fiore di quel giardino delle impossibilità qual è il cattiverio anarchico-fascista, ritiene, infatti, disastrosa la scoperta dell’America e odia l’americanismo. Proprio un cattivo del cattiverio, uguale al personaggio cui presta scena e canovaccio. Si crogiola nella sua libertà, così simile all’orror vacui descritto dall’amato Schopenhauer, si tiene alla larga dalla democrazia e, con il suo personaggio costruito dentro la gabbia della scrittura sorvegliata, distilla le parole messe a disposizione degli occidentali, estenuato dalla sua stessa desolazione». Così Pietrangelo Buttafuoco presenta il più borderline degli scrittori del Novecento – per alcuni il Céline italiano, per altri un “caso editoriale” costruito in provetta – nella prefazione al Metodo della sopravvivenza. Il secondo e sinora inedito romanzo di Virgili farà la sua apparizione in libreria il prossimo 6 febbraio grazie alla casa editrice marchigiana PeQuod, la stessa che già nel 2003 restituì ai lettori l’ormai introvabile opera prima, La distruzione (Mondadori, 1970): romanzo in lode di Hitler, la storia di un quarantenne ex interprete delle SS in Italia, correttore di bozze in un giornale governativo, che sopravvive ai suoi incubi quotidiani sognando con la fine del mondo un’improbabile rivincita del Terzo Reich. E non solo. Negli stessi giorni, sempre edito da PeQuod, sarà in distribuzione in dvd il film documentario Appunti per la distruzione a cura del giovane regista Simone Scafidi (che in questi giorni presenta nelle sale anche il suo primo lungometraggio: Gli arcangeli, un film dichiaratamente “religioso”, tanto da far dire a uno spettatore – riferisce il regista – che «per un ateo è un film pornografico»). Sarà Andrea Riva (a destra, coautore della docu-fiction su Virgili) a prestare il proprio volto allo scrittore morto nel ’92 (del quale, ricordiamolo, non è rimasta nessuna immagine). Il film è arricchito da interventi di scrittori, teologi e intellettuali: oltre al contributo dell’editore Marco Monina, compaiono quelli di Ferruccio Parazzoli, Vito Mancuso, Massimo Fini, Maurizio Blondet, Gabriele Mandel, Antonio Franchini, David Peace, Moni Ovaia, Marco Pannella, Bruno Pischedda e Giancarlo Simonetti.
«Virgili è tra i pochi romanzieri del Novecento capaci di inserire il male nelle proprie opere ed è proprio partendo dai suoi scritti che abbiamo preso lo spunto per sviluppare un'indagine più ampia sull’impossibilità di definire il male, un tema importante in un periodo in cui assistiamo alla banalizzazione del bene e del male e si ragiona in termini di categorie assolute: da una parte il bene e dall'altra il male. L'interesse per Virgili – ci dice Scafidi (foto a sinistra) – non nasce come un tentativo di sdoganare un autore che ha raccontato la follia dell'immedesimazione con il nazismo ma per rappresentare obiettivamente l'universo e non solo la letteratura di Virgili, cercando di renderne l'ambiguità tra la realtà e il sogno». «Virgili non è da leggere ma da iniettare – ha scritto un entusiasta Roberto Saviano – per l’accumulazione parossistica d’odio ed efferatezza, la tenerezza nascosta di un’umanità in letargo».
Però, che tipo quel Virgili! Se n’è andato portandosi dietro il suo impresentabile bagaglio di invettive e a distanza di oltre quindici anni il mondo culturale è qui a ricordarlo e a interrogarsi su di lui, cercando proprio nelle sue opere intrise di furore filogermanico, sadomasochismo e disprezzo antidemocratico una chiave per interpretare il presente e affrontare il domani. Sì, perché una qualità non può essergli negata. Quella di saper leggere il futuro con anticipo: dalla corruzione politica denunciata prima che si abbattesse il ciclone di Mani Pulite alle impressionanti pagine nelle quali descrive minuziosamente l’attacco alle «crollanti» torri gemelle di New York. «L’attualità del Metodo – argomentava inascoltato Virgili – è data dal risorgere del nuovo Stato tedesco, con tutti i problemi che si trascina, e dallo sfacelo cui si sta avviando lo Stato italiano». Attuale, decisamente, ancora oggi.
Le polemiche per l’uscita del nuovo romanzo non mancheranno, c’è da giurarci. Già quando venne annunciata l’uscita dell’edizione Pequod de La distruzione molte furono le obiezioni sollevate, specialmente a sinistra. In particolare quella cui fa riferimento Scafidi, non a caso pronto a puntualizzarne l’inconsistenza: «Non si vuole sdoganare uno scrittore nazista». Tanto da costringere Antonio Franchini – “papà” (mondadoriano) della prima edizione – a difendersi, nella postfazione della ristampa pequodiana de La distruzione, dalle accuse. Riassunte e messe nero su bianco da Enzo Di Mauro sul manifesto: «Creazione ex novo di una mitologia fasulla che non va tanto per il sottile abolendo ogni gerarchia di valori e facendo passare surrettiziamente l’abiezione per grandezza». Semmai – risponde Franchini, che alla vicenda umana ed editoriale di Virgili ha dedicato un bel libro Cronaca della fine (Marsilio, 2003) – abbiamo voluto «sdoganare l’idea di una letteratura che faccia dibattere e scontrare, capace di ridarci la coscienza che la letteratura è scoprire, errare, riesumare, non consentire a ogni costo, non celebrare qualche vivo e molti morti, non agghindare le loro case e le loro tombe».
Ed ora eccola qui, finalmente, la seconda prova di Virgili, il suo borbottio ringhioso. In principio era L’attesa. Poi La terza guerra mondiale. Infine Metodo della sopravvivenza. Aveva cambiato più volte il titolo. «Posso apparire presuntuoso – scrive Dante Virgili a Franchini nell’ottobre 1991 – ma il testo ha superato le mie previsioni per qualità e attualità. C’è più realtà storica che nell’altro. Più di attualità è Metodo della sopravvivenza con notevole sforzo culturale. Non so quali ostacoli possano impedirne la pubblicazione da parte della Mondadori. Uno soltanto: l’invendibilità». Già, La distruzione non era stata un successo. In anni di furore ideologico quel libro avrebbe dovuto quanto meno creare scandalo, invece venne semplicemente ignorato. Così, vent’anni dopo, in Mondadori finì per riproporsi il braccio di ferro tra favorevoli e contrari alla pubblicazione. Ferruccio Parazzoli manifestò il proprio entusiasmo, auspicando di proporgli addirittura una trilogia: «Ho l’inquietante sensazione che ci troviamo di fronte a uno scomodo capolavoro. Impassibile, tragico e trasgressivo con lucida e maniacale fermezza. Totalmente amorale, non cambia tono sia che parli di Goethe o della carne trita. Scrittura di ghiaccio con sistema nervoso allo scoperto, ma senza sperimentalismi. Prendere o lasciare». La decisione, ancora una volta, spettò ad Antonio Franchini. E stavolta lasciarono. Virgili non gli nasconderà la sua amarezza: «Strano come in una società di parolai, speculatori, sfruttatori, criminali al governo e per le strade, in un Paese avviato allo sfascio, dove l’unica realtà sensibile è la chiacchiera quotidiana televisiva, ci si preoccupi tanto di un romanzo artistico che ne coglie gli aspetti deteriori e che scomparirà comunque molto prima della società stessa».
Scomparso l’autore, migliore sorte – invece – è toccata al romanzo, duecento pagine in cui si rincorrono disordinatamente (apparentemente) temi politici nazionali e internazionali, quotidianità allucinate e citazioni dal tedesco. Nessuna trama. Solo pensieri, annotazioni, incontri sessuali in bilico tra la realtà e la fantasia. Il protagonista stavolta è un professore di tedesco in pensione, un «misero Ulisse corrotto inabissato nella perversione» lo definisce Franchini. È l’estate del 1990 a Milano. L’anno del mondiale di calcio giocato in Italia. «Il gioco più idiota che l’umanità abbia inventato» ruggisce la voce narrante, sia pure senza potere fare a meno di tifare per la Germania. «Nell’anno della riunificazione sarebbe un grande dono. Se la Germania vince chiudo in bellezza. Ormai le fortune sono affidate al calcio – osserva con il solito rimpianto – mentre un tempo l’obiettivo era l’Europa». Già, Hitler! «E ora apprendo che il condottiero è Matthäus…». Si compiace nel vedere sventolare la bandiera tedesca sotto il Duomo, anche se si tratta della solitaria bancarella di un ambulante. L’Italia perde e lui ghigna: «Se gli azzurri avessero vinto, un’esaltazione ulteriore del calcio avrebbe allontanato ancor più l’italiano dai problemi. I mass media alimentano un fanatismo dissennato per distogliere il popolo dalla realtà».
Da parte sua è più interessato al sesso. Tende insidie a commesse e garzoni (efebi, li chiama) come un felino «vecchio e acciaccato che non insegue mai la preda che ha facilmente eluso il suo primo balzo stracco». Cerca di normalizzare le pratiche sadomaso attraverso la demolizione delle relazioni cosiddette normali. «E’ arduo trovare un’intesa con l’altro da sé – scrive Buttafuoco nella prefazione – forse l’unico rapporto tra esseri umani di qualche soddisfazione è quello sessuale, affidato all’incontro dei corpi. Questo è per Dante Virgili il “Metodo della sopravvivenza”». Solitudine di cui Virgili fa un motivo d’orgoglio: «A me non manca la libertà, l’ho tutelata contro tutti, contro tutto. Rinunciando al denaro. Sono padrone della mia vita e della mia morte. È la società che ti sprona a guadagnare, a far soldi, se ai suoi occhi vuoi contare. Ma la società la ignori, libri e conoscenza bastano». Un asociale convinto di potere fare a meno di una maggioranza «ripugnante, bricconi che si adattano, deboli che si lasciano assimilare». Ai suoi contemporanei non perdona di aver dimenticato le proprie origini gloriose: «Bastardi che non sanno neppure di discendere dagli antichi romani. La romanità, una delle idee più nobili. Solo la storia – dice citando Schopenhauer – rende un popolo pienamente cosciente». Il messaggio di Kohl alla nazione lo esalta: «Un popolo che non sapesse affrontare sacrifici perderebbe anche la propria forza morale. Mettiamoci insieme al lavoro per il nostro comune futuro, per una Germania unita e un’Europa unita». L’amore per la Grande Germania è irresistibile. Tanto da lasciarsi suggestionare dall’idea del calcio che si fa guerra. Facendosi violenza e incollandosi davanti al piccolo schermo per seguire le partite della nazionale tedesca, si commuove: «L’inno di Haydn. Sento le lacrime riaffiorare». E’ la finalissima. A Roma si contendono il primato Germania e Argentina. «A un tratto un boato. Goal. Lo stadio impazzisce, sventolio di bandiere dai colori germanici, neppure ai discorsi di Hitler. Alle 22,05 la Germania viene dichiarata campione del mondo e il Deutschland uber alles mi ricorda tempi lontani. La carnevalata è finita. Schon». Bentornato sugli scaffali, Virgili.

1 commento:

Lipperman ha detto...

E' puro esercizio letterario voler avvicinare Dante Virgili a Celine. La critica ufficiale e non ufficiale - trascuro il termine anticonformista abusato e auto celebrativo - usa le vecchie categorie per definire, collocare e giudicare. Dante Virgili è nel corpo dei suoi scritti, nell'inviluppo degli squarci di realtà; non delizia, non concede, non stupisce, si allontana e si avvicina. In un'alternanza di emozioni senza tempo, senza confini.