martedì 29 gennaio 2008

Cosa farà da grande l'icona Britney? Prova a crescere... (di Federico Zamboni)

Articolo di Federico Zamboni
Dal Secolo d'Italia, edizione domenicale del 20 gennaio 2008

Britney è drogata persa. Britney è finita in una clinica per aspiranti suicidi. Britney è alla fine del viaggio. Ma no: Britney si è disintossicata. Britney sta bene, adesso. Britney è molto contenta del suo nuovo disco e non vede l’ora di andare in tournée.
Sulla stampa, nelle televisioni, in Internet, le diverse versioni si rincorrono senza sosta. Senza il più piccolo imbarazzo, né nell’esagerare né nel contraddirsi. Senza mai dare modo di sapere quale, tra le tante, sia la notizia autentica, sempre ammesso che una notizia autentica ci sia davvero. Ognuno dice la sua e se ne infischia. Tutt’al più, se gli è rimasto un filo di cautela, fa presente che si tratta solo di indiscrezioni in attesa di verifica. Se non che, ovviamente, l’attesa si prolunga all’infinito e la verifica non arriva mai. Il tourbillon va avanti imperterrito: Britney di qua e Britney di là. Un “trivial” paradossale in cui le domande cambiano continuamente e le risposte esatte non esistono.
Come si dice, del resto, si raccoglie quel che si semina. Nella “Britney Spears Story” la mistificazione non è affatto un problema sopravvenuto col tempo. Il gioco era truccato dall’inizio. Da ancora prima che il casinò aprisse i battenti e i gonzi si affollassero alle casse, entusiasti di cambiare i loro dollari con le fiches (a forma di cd...) e di godersi lo spettacolo dell’ennesima lolita che si esibisce seminuda e ammiccante.
La “Britney Spears Story”, in realtà, è un “Britney Spears Project”. Lei ci mette la faccia, carina, il corpo, flessuoso, la vocina mediocre da teen-ager; al resto ci pensano i produttori: musichetta a presa rapida, testi da adolescenti, look curatissimo, ma apparentemente spontaneo, a metà strada fra ingenuità e seduzione. Lei si presta volentieri: magari senza nemmeno rendersene conto; in ogni caso, senza farsi troppe domande sui come e sui perché. A diciassette anni le va benissimo così. A diciassette anni, dopo che la madre l’ha spedita a prendere lezioni di ballo quando ne aveva appena tre, le sembra di raggiungere il traguardo per cui ha già lavorato moltissimo.
L’album d’esordio, Baby, One More Time, è un exploit clamoroso. Il secondo, Oops... I Did It Again, vende oltre 1,3 milioni di copie nella prima settimana e fissa il nuovo record assoluto, che resiste tuttora. La sua immagine imperversa. I ragazzini la desiderano; le ragazzine la imitano. Britney Spears, nata a Kentwood, Louisiana, il 2 dicembre 1981, esce dal bozzolo della provincia americana e si abbandona all’ebbrezza dei voli d’alta quota nei cieli – artificiali, ma smisurati – della notorietà. Applausi, soldi, lusinghe d’ogni sorta. Voi cosa dite? Le farà bene, a lungo andare?
L’escalation è appena cominciata. Il successo dilaga e la fama supera i confini statunitensi. Nel suo genere, il prodotto è inappuntabile. Luccicante e banale, efficacissimo e irrilevante. Ancora una volta, la mediocrità della sostanza, accoppiata al glamour della confezione, diventa il passepartout per entrare dappertutto. Roba da fast food: ma è appunto sui grandi vini e sulla cucina vera che la gente si divide; mica sul tris, così conveniente, del “maxi-menu panino-patatine-cocacola”.
Britney Spears diventa un marchio di fabbrica. Come accade solo alle superstar, e nemmeno a tutte, il cognome si riduce a un inutile sovrappiù. Britney Spears, la Nuova Icona Pop, diventa semplicemente Britney. Impossibile confonderla, no? Ed ecco che scatta un altro tipico meccanismo del marketing: il successo si trasforma in fenomeno e il fenomeno, che ha sempre meno a che vedere con la qualità intrinseca della musica, risulta attraente di per se stesso. Affascinante. Incantevole. Un po’ come nello sport, si tifa per il campione del momento. Ci si gloria delle sue imprese. Ci si precipita nel suo cerchio di luce e si confida di essere illuminati a nostra volta. Di riflesso, certo, ma sempre meglio che niente.
Ancora adesso, su uno dei siti italiani dedicati a Britney Spears (oops: a Britney!) compare tutta una sezione incentrata sui premi vinti e sui record inanellati. Molti dischi, molto onore. Più ne vendi, e più velocemente lo fai, e più sei bravo. Il solito, bacato sillogismo delle Hit Parade: è la quantità che sancisce la qualità. Un milione di copie ti rende interessante. Dieci milioni ti consacrano. 88 milioni, quanti ne ha venduti Britney finora, ti proiettano nella leggenda. Ti scolpiscono, per così dire, nel Monte Rushmore degli “Stati Uniti del Business”.
E dopo? Che altro ti resta da conquistare, dopo?
Niente, se sei soltanto una persona a caccia di celebrità e di soldi. Moltissimo, forse tutto, se al contrario sei un artista degno di tal nome, che si preoccupa del pubblico solo dopo essersi occupato a fondo di se stesso, scandagliando il proprio animo in cerca della creatività necessaria a rispecchiare ciò che ha dentro.
Il limite di Britney Spears, il suo vizio incorreggibile, è che lei non è, non è stata e (verosimilmente) non sarà mai, una vera artista. Britney Spears è solo la protagonista, tutto sommato casuale, di una messinscena orchestrata da altri. Il copione prevedeva un tipino come lei, quelli del casting l’hanno trovata di loro gradimento e l’hanno presa. Ciak. Azione. Buona la prima. Vai con la successiva.
Ora, meno di dieci anni dopo, i nodi vengono al pettine. Ora che lei non è più la ragazzina di un tempo e che ha iniziato ad addentrarsi nella sua vita di giovane donna, l’inganno artistico si rivela un’allucinazione esistenziale. Nei rapporti sentimentali, e familiari, essere una superstar non garantisce niente. Anzi: ti obbliga a essere ancora più attenta, più sensibile. Capace di separare l’immagine pubblica dalla dimensione privata.
Britney fa fatica. Sbanda vistosamente. Non sa cosa fare. Fa un sacco di sciocchezze. Bisognerebbe che qualcuno, chissà chi, le aprisse gli occhi e le facesse capire dov’è l’errore: non merita rispetto, e men che meno venerazione, come cantante; merita rispetto come persona. Se fa qualcosa per guadagnarselo, certo.
Federico Zamboni, nato a Milano nel 1958 ma cresciuto a Roma, è giornalista e conduttore radiofonico. Tra il 1979 e il 1981, con lo pseudonimo di Claudio Fossati, ha tenuto una rubrica (quasi) fissa sul quindicinale “Linea”, dedicata a quella che allora si chiamava la “musica giovanile”. Dopo aver smesso di scrivere articoli per circa 15 anni, dedicandosi a tutt’altre cose, ha ripreso a pubblicare regolarmente nel 2000. Prima su “Ideazione.com”, poi sui quotidiani “Linea”, di cui è stato caporedattore fino al maggio scorso, e “Il Secolo d’Italia”.

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