Dal Secolo d'Italia, edizione domenicale del 27 gennaio 2008
Forse è troppo sicuro di sé, l’ormai 42enne Lorenzo Cherubini, alias Jovanotti: e, essendo troppo sicuro di sé, riversa nelle sue canzoni tutto quello che gli passa per la testa, dando per scontato che qualunque cosa, se la trova interessante lui, debba automaticamente interessare anche agli altri. Forse, al contrario, non lo è abbastanza: e temendo che i suoi pensieri più profondi appaiano troppo “seri”, fino al punto di allontanarlo dal pubblico, si fa un obbligo di collocare il meglio delle proprie riflessioni in una sarabanda di parole in libera uscita, disposte a qualsiasi capriola – anche la più goffa e inopportuna – pur di mantenere la loro vocazione alla filastrocca di matrice rap.
Un’intervista di quasi tre anni fa avvalora la prima ipotesi. «Non prendermi per presuntuoso – dice lui al giornalista dell’Unità, Diego Perugini – ma credo di avere veramente qualcosa che nessun mio collega ha. E resto uno dei pochi che in Italia incarna la figura di artista moderno. (...) Io cerco di lavorare sulla canzone classica, che ormai è cosa retrò e appartiene al secolo scorso, cercando però una via nuova. Una forma canzone diversa, che forse ancora non c’è».
Vale a dire: in quanto dj sono capace di assemblare le cose più diverse, passando disinvoltamente – ed efficacemente – da un linguaggio all’altro; di fronte al declino della canzone tradizionale, che bene o male raccontava una storia e cercava di condensarla in poche strofe (e nell’immancabile ritornello), io rispondo con un approccio completamente diverso, che tralascia la ricerca dell’essenziale e dà grandissimo spazio al contesto. Al posto di una vicenda ben precisa, con un inizio e una fine, un flusso di sensazioni e di immagini. Come si diceva all’inizio, se ha colpito me colpirà anche voi. La memoria individuale diventa un tutt’uno con la memoria collettiva. La maggior parte delle parole diventano intercambiabili. E se i versi sono banali, pazienza. Se la stessa cosa si poteva dire meglio, in maniera meno affrettata, chissenefrega.
Prendete Bruto, sempre su Buon sangue. «Gira il minestrone che sennò s’attacca, bagna questa pianta che sennò si secca, apri la finestra e fai entrare il vento. Uh, è tutto quanto in movimento».
Mah. Possibile che, a parità di significato e di immediatezza, non si potesse tirare fuori qualcosa di meno rozzo? Fossero i versi di un teen ager, che inizia a divertirsi con le parole e con la musica, niente da eccepire. Magari cresce e migliora a dismisura. Ma a quarant’anni? A quarant’anni, senza bisogno di avere tre lauree e di conoscere a menadito l’opera omnia di Montale, è legittimo aspettarsi di più. Pretendere di più.
Ce ne sarebbero i presupposti, del resto. Quando non si lascia risucchiare nei clichè dell’eterno adolescente, che si aggira per il mondo ad occhi sgranati e trova tutto “una figata”, Lorenzo sfodera intelligenza acuta e grande empatia, riuscendo ad essere allo stesso tempo spontaneo e profondo. Vedi quello che ha scritto dopo la morte di suo fratello Umberto, che aveva la passione del volo e che è deceduto, lo scorso 22 ottobre, mentre pilotava un ultraleggero nei cieli di Latina. «Sono arrivato sul posto che ancora tutto fumava e c’era forte odore di bruciato. Forse di gomma, di carne bruciata, di plastica, di carburante. Non importa. Intorno la natura come sempre indifferente e viva. Pronta a ricoprire il nero della carcassa infuocata ridotta a poco più di un falò di cacciatori. Sono arrivato lì e un pugno forte in pieno petto mi ha piegato a terra. Ho pregato. Ho sentito l’amore esplodere in me. Poi il rispetto e l’ammirazione per questo mio fratello volante».
Se hai dentro queste cose, se sai trovare queste parole, e se di mestiere fai il cantautore, devi trovare il modo di amalgamarle alla musica. Non puoi dimenticartele, non puoi rinunciarci, proprio quando scrivi le tue canzoni. Se sei in buona fede – e verrebbe da dire di sì, nonostante qualche concessione di troppo alle preferenze dei network radiofonici – devi assumerti qualche rischio in più, pur di rendere giustizia al meglio della tua sensibilità. E della tua ispirazione.
«Ora – dice lui nel presentare il nuovo album, Safari – cerco più un aspetto prettamente emotivo nelle cose, più che l'aspetto razionale, che ha avuto un ruolo forte nella fine degli anni Novanta, quando cercavo di dire assolutamente qualcosa con una canzone, perché la canzone doveva avere il ruolo di informare. Ora invece voglio che la canzone sappia emozionare».
Benissimo. Ma le emozioni, se non stai più che attento, rischiano di galleggiare nel vuoto. Di degenerare in uno stato d’animo che ti accompagna costantemente, e che prescinde dalla realtà. Una sorta di incantamento che può essere piacevolissimo da vivere, ma che sul piano artistico, e culturale, e politico, porta a vedere tutto con lo stesso sguardo benevolo e trasognato, attenuando le differenze fin quasi a cancellarle.
«Ho trovato un'ispirazione, che è quella che sto cercando di seguire, quando ho sentito una musica, il Laudare di Cortona, fine Milleduecento, che è sulla tradizione francescana. La Chiesa ci ha sempre fatto credere che il francescanesimo ha inventato la povertà, la rinuncia, l'autoflagellazione. In realtà, il francescanesimo ha inventato la gioia, il giubilo, come lo chiamavano allora. L'ha inventata talmente alla grande che ha inserito la povertà come massima gioia, non come massima privazione».
Misticismo. La più nitida delle percezioni, se arriva a coronare un percorso di autentica consapevolezza spirituale. Ma anche la più ingannevole delle tentazioni, se, invece, confonde l’afflato cosmico con l’amore sentimentale e con gli affetti personali. Se vuole avere allo stesso tempo tutta l’attrazione del mondo ordinario e tutta la serenità del distacco dalle illusioni e dell’approdo alla trascendenza. Se nasce più che altro dal desiderio (dall’ansia) di liberarsi una volte per tutte del nodo di gioia e di dolore che tiene avvinti i nostri soliti, contraddittori, umanissimi casini.
Federico Zamboni, nato a Milano nel 1958 ma cresciuto a Roma, è giornalista e conduttore radiofonico. Tra il 1979 e il 1981, con lo pseudonimo di Claudio Fossati, ha tenuto una rubrica (quasi) fissa sul quindicinale “Linea”, dedicata a quella che allora si chiamava la “musica giovanile”. Dopo aver smesso di scrivere articoli per circa 15 anni, dedicandosi a tutt’altre cose, ha ripreso a pubblicare regolarmente nel 2000. Prima su “Ideazione.com”, poi sui quotidiani “Linea”, di cui è stato caporedattore fino al maggio scorso, e “Il Secolo d’Italia”.
Un’intervista di quasi tre anni fa avvalora la prima ipotesi. «Non prendermi per presuntuoso – dice lui al giornalista dell’Unità, Diego Perugini – ma credo di avere veramente qualcosa che nessun mio collega ha. E resto uno dei pochi che in Italia incarna la figura di artista moderno. (...) Io cerco di lavorare sulla canzone classica, che ormai è cosa retrò e appartiene al secolo scorso, cercando però una via nuova. Una forma canzone diversa, che forse ancora non c’è».
Vale a dire: in quanto dj sono capace di assemblare le cose più diverse, passando disinvoltamente – ed efficacemente – da un linguaggio all’altro; di fronte al declino della canzone tradizionale, che bene o male raccontava una storia e cercava di condensarla in poche strofe (e nell’immancabile ritornello), io rispondo con un approccio completamente diverso, che tralascia la ricerca dell’essenziale e dà grandissimo spazio al contesto. Al posto di una vicenda ben precisa, con un inizio e una fine, un flusso di sensazioni e di immagini. Come si diceva all’inizio, se ha colpito me colpirà anche voi. La memoria individuale diventa un tutt’uno con la memoria collettiva. La maggior parte delle parole diventano intercambiabili. E se i versi sono banali, pazienza. Se la stessa cosa si poteva dire meglio, in maniera meno affrettata, chissenefrega.
Prendete Bruto, sempre su Buon sangue. «Gira il minestrone che sennò s’attacca, bagna questa pianta che sennò si secca, apri la finestra e fai entrare il vento. Uh, è tutto quanto in movimento».
Mah. Possibile che, a parità di significato e di immediatezza, non si potesse tirare fuori qualcosa di meno rozzo? Fossero i versi di un teen ager, che inizia a divertirsi con le parole e con la musica, niente da eccepire. Magari cresce e migliora a dismisura. Ma a quarant’anni? A quarant’anni, senza bisogno di avere tre lauree e di conoscere a menadito l’opera omnia di Montale, è legittimo aspettarsi di più. Pretendere di più.
Ce ne sarebbero i presupposti, del resto. Quando non si lascia risucchiare nei clichè dell’eterno adolescente, che si aggira per il mondo ad occhi sgranati e trova tutto “una figata”, Lorenzo sfodera intelligenza acuta e grande empatia, riuscendo ad essere allo stesso tempo spontaneo e profondo. Vedi quello che ha scritto dopo la morte di suo fratello Umberto, che aveva la passione del volo e che è deceduto, lo scorso 22 ottobre, mentre pilotava un ultraleggero nei cieli di Latina. «Sono arrivato sul posto che ancora tutto fumava e c’era forte odore di bruciato. Forse di gomma, di carne bruciata, di plastica, di carburante. Non importa. Intorno la natura come sempre indifferente e viva. Pronta a ricoprire il nero della carcassa infuocata ridotta a poco più di un falò di cacciatori. Sono arrivato lì e un pugno forte in pieno petto mi ha piegato a terra. Ho pregato. Ho sentito l’amore esplodere in me. Poi il rispetto e l’ammirazione per questo mio fratello volante».
Se hai dentro queste cose, se sai trovare queste parole, e se di mestiere fai il cantautore, devi trovare il modo di amalgamarle alla musica. Non puoi dimenticartele, non puoi rinunciarci, proprio quando scrivi le tue canzoni. Se sei in buona fede – e verrebbe da dire di sì, nonostante qualche concessione di troppo alle preferenze dei network radiofonici – devi assumerti qualche rischio in più, pur di rendere giustizia al meglio della tua sensibilità. E della tua ispirazione.
«Ora – dice lui nel presentare il nuovo album, Safari – cerco più un aspetto prettamente emotivo nelle cose, più che l'aspetto razionale, che ha avuto un ruolo forte nella fine degli anni Novanta, quando cercavo di dire assolutamente qualcosa con una canzone, perché la canzone doveva avere il ruolo di informare. Ora invece voglio che la canzone sappia emozionare».
Benissimo. Ma le emozioni, se non stai più che attento, rischiano di galleggiare nel vuoto. Di degenerare in uno stato d’animo che ti accompagna costantemente, e che prescinde dalla realtà. Una sorta di incantamento che può essere piacevolissimo da vivere, ma che sul piano artistico, e culturale, e politico, porta a vedere tutto con lo stesso sguardo benevolo e trasognato, attenuando le differenze fin quasi a cancellarle.
«Ho trovato un'ispirazione, che è quella che sto cercando di seguire, quando ho sentito una musica, il Laudare di Cortona, fine Milleduecento, che è sulla tradizione francescana. La Chiesa ci ha sempre fatto credere che il francescanesimo ha inventato la povertà, la rinuncia, l'autoflagellazione. In realtà, il francescanesimo ha inventato la gioia, il giubilo, come lo chiamavano allora. L'ha inventata talmente alla grande che ha inserito la povertà come massima gioia, non come massima privazione».
Misticismo. La più nitida delle percezioni, se arriva a coronare un percorso di autentica consapevolezza spirituale. Ma anche la più ingannevole delle tentazioni, se, invece, confonde l’afflato cosmico con l’amore sentimentale e con gli affetti personali. Se vuole avere allo stesso tempo tutta l’attrazione del mondo ordinario e tutta la serenità del distacco dalle illusioni e dell’approdo alla trascendenza. Se nasce più che altro dal desiderio (dall’ansia) di liberarsi una volte per tutte del nodo di gioia e di dolore che tiene avvinti i nostri soliti, contraddittori, umanissimi casini.
Federico Zamboni, nato a Milano nel 1958 ma cresciuto a Roma, è giornalista e conduttore radiofonico. Tra il 1979 e il 1981, con lo pseudonimo di Claudio Fossati, ha tenuto una rubrica (quasi) fissa sul quindicinale “Linea”, dedicata a quella che allora si chiamava la “musica giovanile”. Dopo aver smesso di scrivere articoli per circa 15 anni, dedicandosi a tutt’altre cose, ha ripreso a pubblicare regolarmente nel 2000. Prima su “Ideazione.com”, poi sui quotidiani “Linea”, di cui è stato caporedattore fino al maggio scorso, e “Il Secolo d’Italia”.
5 commenti:
Per una volta non sono d'accordo con Zamboni.
Ho regalato "Safari" a mia moglie, che di Lorenzo - Jovanotti ha tutto, e pur non essendo io un fan del cantautore ho trovato quest'album emozionante.
Non tutte le canzoni sono buone ma alcune sì: "Fango", "Dove ho visto te" (tra Paolo Conte e gli Avion Travel), la titletrack e "Il temporale".
I testi sono immediati, forse potrebbero essere più raffinati nella forma, ma alcuni versi arrivano a segno. Non sono d'accordo con Zamboni perché è chiaro che in questo album Lorenzo sceglie di non "rappare", muovendosi invece tra il cantautorato e una forma di mix globale di ritmi. E poi siamo ben lontani dal ragazzino, almeno per i temi. Se confrontiamo quest'album con l'ultimo di Max Pezzali, suo quasi coetaneo, Lorenzo ci fa miglior figura. Quando si rivolge alla donna idealizzata e salvifica, Pezzali fa ridere: non si capisce bene se è rimasto davvero ragazzino o continua ad arruffianarsi i ragazzi. Come si fa a chiamarla "Bomba atomica".
Lorenzo, invece, in "A te" usa un tono adulto. Da adulto in crisi.
Difficile che "Fango" sia compresa da un ragazzo, mentre un adulto in crisi sì. Il verso "La tele dice che le strade son pericolose, ma l'unico pericolo che sento veramente è quello di non riuscire più a sentire niente" mi ha creato identificazione. E' ciò che io sento in questo periodo di quarantenne in crisi.
"Safari" è, secondo me, un album per maschi adulti e in crisi. Sia per come tratta i temi esistenziali, sia per come si rivolge alle donne. C'è Anima, dentro. In senso un po' Hillmaniano.
Innanzitutto un invito, a Claudio e a chiunque altro: non date mai troppo credito ai titoli degli articoli; non tanto perché di solito non sono opera dell’autore del pezzo, ma proprio perché di norma tendono a privilegiare – e quindi a enfatizzare – un singolo aspetto a scapito degli altri. Detto questo, in realtà il mio articolo non era centrato solo sul nuovo album ma mirava a fare un ragionamento d’insieme sull’approccio creativo di Lorenzo/Jovanotti adesso che è approdato ai suoi 40 anni. Il riferimento al rap, in questa prospettiva, va preso in maniera estensiva: e non a caso, infatti, io parlo di “filastrocche di matrice rap”, intendendo con ciò la tendenza, a mio avviso deteriore, ad affastellare le parole privilegiando la quantità rispetto alla qualità. Il vero problema, comunque, è un altro. Come scrivo nell’ultima parte del pezzo (e questo aspetto, invece, è stato perfettamente colto dai colleghi del Secolo che hanno curato l’impaginazione) Lorenzo/Jovanotti sembra fare una gran confusione tra misticismo e sentimentalismo. Da un lato non vuole rinunciare a nessuna emozione, dall’altro aspira a una perfetta, e definitiva, serenità. A me sembra il classico equivoco occidentale sul buddismo e dintorni: col cavolo che ci si vuole liberare delle illusioni generate dalla mente per approdare a un diverso tipo di consapevolezza. Le illusioni continuano a piacere eccome (Tanto-tanto-tanto, per citare l’hit di Buon sangue), però si vorrebbe eliminare ogni traccia di sofferenza, o anche solo di affanno. Un po’ di yoga, quanto basta a dormire bene e a far passare quei fastidiosi mal di schiena, e via con la solita vita. Incasinata, divertente, indolore.
PS Sul parallelo con Max Pezzali sorvolo. Sia pure coi suoi limiti (e chi non ne ha?) Lorenzo/Jovanotti è un artista che ha da dire qualcosa di interessante; Pezzali è solo l’ennesimo fabbricante di canzoncine orecchiabili, che stanno all’arte come gli hamburger alla gastronomia.
"Lorenzo/Jovanotti sembra fare una gran confusione tra misticismo e sentimentalismo. Da un lato non vuole rinunciare a nessuna emozione, dall’altro aspira a una perfetta, e definitiva, serenità. A me sembra il classico equivoco occidentale sul buddismo e dintorni: col cavolo che ci si vuole liberare delle illusioni generate dalla mente per approdare a un diverso tipo di consapevolezza. Le illusioni continuano a piacere eccome (Tanto-tanto-tanto, per citare l’hit di Buon sangue), però si vorrebbe eliminare ogni traccia di sofferenza, o anche solo di affanno. Un po’ di yoga, quanto basta a dormire bene e a far passare quei fastidiosi mal di schiena, e via con la solita vita. Incasinata, divertente, indolore".
Limitato da problemi di Internet che spero di risolvere nei primi di febbraio, approfitto di nuovo di un collegamento di fortuna per rispondere.
Spero che la risposta venga ugualmente letta, almeno da Zamboni.
Ho incollato questa parte della tua replica, Federico, perché a mio avviso va ben al di là della questione Lorenzo-Jovanotti.
Concordo con te che questa tendenza è palese in molte persone attualmente, di destra e di sinistra, ed è una conseguenza di tanta cultura orientale mal assimilata (in senso individualista) e di cattocomunismo della peggior specie. Insomma. sembra davvero che le emozioni debbano essere tutte positive, senza mai tenere conto che emozioni e sensazioni sono un bel caos di luce e di ombra e che l'ombra è importante tanto quanto la luce.
Effettivamente Lorenzo-Jovanotti ha sempre avuto questo tipo di tendenza, cozzando spesso in ridicole affermazioni che ha giustificato come una fase della sua evoluzione ma senza mai rimetterle in discussione (come quando in "Penso positivo" metteva in fila Muccioli, il Che e Madre Teresa...), senza ironia e sfumature.
Anche lui, come Madonna e altri, ha avuto la sua fase indiana quando l'India, come dice Rampini, è diventata tutt'altro. In "Safari" il tono è adulto, di esotico c'è poco, e forse anche di midcult, ma in parte rimane stridente la confusione tra il bisogno di "sentire" e l'evidente rifiuto delle sensazioni negative.
Come lasci intuire tu, Federico, al di là della dedica dell'album, di come Lorenzo ha affrontato la morte del fratello non c'è nulla. L'unico ambito ben esplorato ed espresso nell'album è quello col femminile.
Personalmente questo discorso sulle sensazioni e sull'ammorbamento a cui ci sta portando il misticismo orientale male innestato in occidente (gli orientali c'entrano poco: loro i loro demoni sanno riconoscerli, fanno parte del loro mondo insieme alla luce...) mi tocca.
Da un lato non sappiamo più riconoscere che il rapporto con la morte e con il dolore riguarda comunque sensazioni ed emozioni, esattamente come quello con le gioie dell'esistenza; dall'altro ci creiamo dei contesti sempre più protetti in cui fingere che grazie alle filosofie orientali ci rendono tutti simili e fuori dal mondo. Felici e deficienti, ma in un mondo invivibile che non vogliamo "sentire". Aggiungiamoci l'ossessione per la sicurezza e l'abuso di antidepressivi...
Concordo con Lorenzo quando dice che "non sentire più niente" è terrorizzante, ed è una delle derive di quest'epoca, ma nel contempo credo che la possibilità di "sentire" ci terrorizza altrettanto. Questa, mi sembra, è la contraddizione da affrontare.
Concordo con Claudio, che per prima cosa ringrazio di cuore per l'attenzione (e l'intelligenza) con cui mi legge. E' vero. La questione va ben al di là di Lorenzo/Jovanotti. E se lui non insistesse coi richiami più o meno espliciti - da "Si è svegliato il serpente", in "Coraggio", alla stessa "SoleLuna", che è una delle possibili traduzioni di Hatha (Yoga) - certe contestazioni non si porrebbero nemmeno. Quello che bisognerebbe capire, non solo in quest'ambito, è che i riferimenti culturali, e a maggior ragione quelli religiosi (o sapienziali, termine che personalmente preferisco), implicano un minimo di coerenza complessiva. Se no si tratta solo di suggestioni momentanee. O, peggio, di citazioni d'accatto.
PS Una delle cose più interessanti di "Safari", secondo me, è "Antidolorifico magnifico": i ricordi personali, e le impressioni insolite, come rifugio in un'identità disgiunta dalla realtà del momento e, quindi, come analgesico mentale. Parlarne diffusamente in un articolo non sarà facilissimo, ma alla prima occasione...
Non penso tu abbia ascoltato a fondo l'ultimo album di Pezzali... sei rimasto al 1991!
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