martedì 29 gennaio 2008

Se la tennista e la fondista sono islamiche (di Omar Camiletti)

Articolo di Omar Camiletti
Dal Secolo d'Italia di sabato 26 gennaio 2008

Non c’è soltanto la storia dell’atleta sudafricano Pistorius. Le Olimpiadi di Pechino sono vicine e tutto ciò che fa parte dello sport stuzzica l’attenzione dei media, non solo per le vicende più direttamente collegate all’agonismo ma per i tanti risvolti simbolici e anticipatori di fenomeni tipici della postmodernità. Prendiamo due storie di questi giorni. La prima è quella di Sania Mirza. La tennista “sexy” che fa infuriare l’India – come ha titolato il Corriere della Sera – dopo che era stata denunciata per una fotografia che la ritraeva a piedi nudi vicino alla bandiera dell’Unione Indiana.
Tre anni fa, nel febbraio 2005, questa “ragazzina” musulmana sciita – nata a Mumbai ma trasferitasi ad Hyderabad dove allenata dal padre, iniziò a praticare il tennis a soli a sei anni –balzò agli onori dei podi e dei media del grande paese asiatico, diventando la prima donna indiana a vincere una competizione mondiale. Sania Mirza la scorsa settimana a Melbourne ha giocato nel terzo turno degli Australian Open contro l’afroamericana Venus Williams (numero 8 del mondo). Oggi ad appena 22 anni – è del 1986 – si ritrova a un prestigioso trentunesimo posto nella graduatoria mondiale del tennis femminile, trionfando come nuova gloria dell’India (il primo dei maschi è solo 278°). Ma la sua fama non è cresciuta solo grazie ai risultati sportivi. Nel settembre del 2005 un imam rilevò che il suo abbigliamento (i calzoncini corti che indossano le tenniste) non era conforme a ciò che è permesso nell’Islam e il grave fu che nei giorni successivi un’agenzia stampa riportò un commento di totale indifferenza della giovane Sania Mirza a quanto dichiarato dal preside del consiglio degli ulema della sua città, Hiderabad.
Da quel momento, usufruendo della popolarità della Mirza, cominciò a crescere il numero di religiosi che in cerca di pubblicità rendevano note le loro proteste formali, accusandola di avere una influenza corrosiva sulla gioventù, perché come disse un religioso «il vestito che indossa sui campi da tennis non lascia niente all’immaginazione e questo senza dubbio genera solo turbamento». Altri gruppi islamisti infine sparsero la voce di voler minacciare e boicottare a ogni costo lo svolgimento dei suoi incontri di tennis in maniera tale da indurre la polizia di Calcutta ad adottare misure di protezione nei confronti di Sania Mirza. La campionessa dotata non solo di fascino ma anche di un carattere di ferro, interpellò allora la maggior organizzazione sciita dell’India. E il consiglio degli giurisperiti sciiti rispose disapprovando la condanna dell’abbigliamento della tennista emessa dai fanatici, chiedendo loro di non immischiarsi più in faccende sportive. Tuttavia interviste e commenti e gossip dei media sembrarono riguardare solo o quasi le sue reazioni a quelle fatwe.
Determinata ad andare avanti, Sania Mirza ha continuato a giocare e a vincere, nonostante innumerevoli polemiche, come nel 2006 quando alcuni giornali riferirono che Mirza aveva rifiutato di giocare con la tennista israeliana Shahar Peer, per paura delle violente proteste che avrebbero messo in atto i fanatici estremisti contro il diritto all’esistenza di Israele. Pur definendole senza fondamento, solo nel 2007 queste smentite le vennero credute, quando la Peer e la Mirza si incontrarono a Wimbledon (dove vennero eliminate entrambi). Sembrava che tutto si fosse messo a posto, quando ecco una nuova rogna: uno spot pubblicitario girato vicino alla storica moschea “Mecca” di Hyderabad. «Illegale», sentenziò la polizia. «Una provocazione blasfema», tuonarono gli imam. La Mirza che si dichiara fervente musulmana, ha chiesto scusa, cercando di calmare gli animi. Solo per ritrovarsi qualche tempo dopo con un'altra spada di Damocle, questa volta «politica»: una denuncia alla magistratura per «insulto alla bandiera indiana». Colpa di un’innocente foto che la ritrae a fine incontro con i piedi nudi sul tavolo, vicino alla bandierina del suo Paese. E adesso rischia tre anni di carcere per quella foto. Lei si appella a tutti, islamici radicali o nazionalisti fanatici: «Io amo il mio paese, non avrei altrimenti gareggiato fino alla strenuo, per favore guardate i colpi delle mie racchette, non il mio corpo».
Di tutt’altro tenore quanto è invece accaduto a Juashaunna Kelly atleta dell’istituto Teodoro Roosevelt di Washington, campionessa del distretto Columbia nella categoria delle corse sui 1500 e 3000 metri. Alla fine di una gara ha ricevuto la comunicazione di essere stata squalificata per non aver indossato una tenuta sportiva regolamentare e che, secondo quanto riportato dai media locali, violava le regole della corsa. Cosa ha combinato di tanto grave la giovane atleta americana? In conformità della sua fede islamica veste in una comune tuta di fibra sintetica da lei disegnata, di color arancio e azzurro, che oltre alle gambe e alle braccia, tramite un cappuccio le copre anche la testa. «Non è niente di speciale e non mi aiuta certo a correre meglio», ha dichiarato la Kelly dopo aver saputo della squalifica. Per il direttore di gara Tom Rogers, invece, quell’uniforme viola le norme della federazione nazionale delle associazioni dei college statali. Rogers disse che era al corrente delle motivazioni religiose della Kelly e che per questa ragione le aveva proposto varie possibilità per adempiere alle norme: le divise delle atlete devono essere di un solo colore e senza ornamenti. Ma Sarah la madre della giovane atleta e Tony Bowden l’allenatore della squadra del College della Kelly negano che sia andata cosi, e hanno riferito delle numerose volte che venne intimato alla giovane di togliersi il cappuccio dal capo, aggiungendo: «Qualcuno ci spieghi perche fino allo scorso anno non costituì nessun problema la tenuta della ragazza e perché proprio adesso lo è diventato». Episodi isolati o anticipo di realtà con cui si dovrà fare i conti anche a Pechino?

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