Per Ottone Rosai, finalmente, è arrivato il momento del riscatto. Una mostra organizzata a Firenze in occasione dei cinquant’anni della morte, celebra il grande pittore italiano reietto due volte, perché fascista e perché omosessuale: «In effetti, la valutazione corretta di Rosai – ha spiegato Giovanni Dall’Orto nel suo sito La gaya scienza – è stata ostacolata da due elementi contrastanti: la sua adesione al fascismo e la sua omosessualità, che lo hanno reso inviso sia ai critici di sinistra sia a quelli di destra». Questo doppio ostracismo ha tenuto Rosai lontano dal centro del dibattito della critica del secondo dopoguerra. Oggi, la mostra fiorentina 50 dipinti di Ottone Rosai a 50 anni dalla morte (dal 27 gennaio a Palazzo Medici) rende merito all’artista che Manuela Grassi su Panorama ha definito, sinteticamente ma efficacemente: «Fascista anarchico e manganellatore, cristiano e omosessuale, antiborghese e ultimo erede della tradizione pittorica iniziata da Masaccio». Un identikit che rappresenta un meritorio schiaffo chiarificatore a chi ancora finge di non conoscere la complessità e la ricchezza delle insorgenze culturali che hanno attraversato l’Italia nella prima metà del Novecento. E proprio in quell’essere, contemporaneamente, “fascista e omosessuale” che si può, oggi, tentare di riscoprire quegli intrecci culturali che portarono al fascismo e che fanno parte integrante dell’identità culturale italiana.
L’esposizione di Firenze dedicata a Rosai si apre con Fuochi del 1913: «Un assaggio simbolista» spiega il critico Luigi Cavallo, curatore scientifico della mostra e del catalogo, «un momento presto esaurito». È in quello stesso anno che il diciottenne Rosai viene scoperto dai futuristi di Lacerba, la rivista letteraria fiorentina. Marinetti, Palazzeschi, Boccioni, soprattutto Ardengo Soffici, che insieme a Giovanni Papini sarà il suo nume tutelare. Nella casa di Soffici, a Poggio a Caiano, Rosai aprì gli occhi al mondo, conobbe la cultura francese: «Sicuramente Cézanne, e il Doganiere Rousseau» spiega Cavallo. Lacerba si autoqualificava così: «Foglio urtante, spiacente e personale». E lo faceva per prendersi l’allegra vendetta contro i boriosi padreterni delle università e delle accademie, ai discorsi pedanti, lunghi e oscuri, si contrappose la brevità, il colorito, la sguaiatezza del parlar popolare. E iniziò quel clima di “baraonda tanto gioconda” a cui Rosai partecipò senza esitazioni.
L’allegria era più che giustificata perché quei giovani avevano trovato modo di farsi avanti e di sperimentarsi, e di vedere i propri meriti riconosciuti. Giovani alla conquista, senza intrighi e senza ipocrisie adulatorie, di un mondo nato vecchio. L’Italia stava per entrare in guerra e questi ragazzi erano tutti (o quasi tutti) interventisti, esaltati dall’idea utopistica che la rivoluzione culturale potesse diventare anche rivoluzione sociale e politica e la guerra fosse lo strumento per raggiungere verità e giustizia. Interventista, della libertà. Il pittore è una sorta di gigante con occhi dolenti, ma è anche una testa calda, a suo agio nei bassifondi. Interventista, parte soldato nel 1915, è ferito, diventa ardito, di quelli matti che hanno in odio ogni concetto di regola e autorità, combatte sul Monte Grappa. Decorato due volte. Dell’esperienza rimangono alcuni quadri, come Vallesina (1916), appartenuto a Vittorio De Sica, o Alla rotonda dello stesso anno, entrambi esposti nella mostra di Palazzo Medici, e due libri Dentro la guerra e Libro di un teppista: il teppista, ovviamente, era lui, Ottone, che doveva quella nomea alla sua innata irruenza, ingigantita dal suo protagonismo nelle manifestazioni futuriste contro i borghesi «benpensanti, imbelli, passatisti». Ghiotte occasioni per sfogarsi e accrescere la sua fama di guastatore. Al suo ritorno dalla Grande Guerra, Rosai aderisce, naturaliter, al fascismo rivoluzionario, vuoto di ideologie e pieno di passione giovanile, vuoto di tradizione e pieno di modernità: «Detesto Firenze – scriveva Rosai della sua città – pidocchiosa cenciosa, eleganza a cinque braccia una lira. Addormentata, ruffiana città, dei Pescietti Caroti e compagni. Popolo di gonzi, gente che avete da fare un lungo passo indietro e migliaia in avanti per sgranchirvi riprendervi ed entrare nella realtà».
È la violenta e provocatoria prosa giovanile, fino a oggi inedita, dello scrittore e pittore Ottone Rosai (1895-1957), indirizzata ai suoi concittadini fiorentini, scritta quando aveva intorno ai 24-25 anni. Il documento intitolato Si salvi chi può, è stato pubblicato, nel nuovo fascicolo de Il Portolano, trimestrale di letteratura dell’editore Polistampa di Firenze, diretto da Francesco Gurrieri ed Ernestina Pellegrini. «È l’esperienza della prima guerra mondiale e dell’immediato dopoguerra a orientare la vis polemica del già futurista Rosai», osserva Giuseppe Nicoletti curatore del saggio che contestualizza il brano inedito. Con il tempo, però, non si affievoliscono le sue relazioni intellettuali e artistiche, con Romano Bilenchi o con il Mino Maccari del Selvaggio. Fu il ministro Giuseppe Bottai che gli procurerà una cattedra all’Accademia, nonostante, si potrebbe dire con parametri odierni, la sua omosessualità fosse conclamata e provata “nero su bianco” dai rigidi rapporti della polizia. La sua meravigliosa complessità è tutto qui: d’altra parte, nel suo ultimo Ricordi di un fiorentino (1955) Rosai, in una breve e sincera premessa, dichiara di non rinnegare il proprio passato di anarchico prima, di futurista poi e infine di fascista. Abbandonato il
futurismo estetico, in fondo rimase futurista per tutta la vita. Nel pieno degli anni del consenso, disse di Marinetti: «Preveggente, indovinatore, precursore dei fatti importanti della storia, presentì la guerra e fu assieme a Mussolini uno dei felici propugnatori del fascismo». Un fascismo, il suo, costruito e non subito, interpretato, sostanzialmente libero, mai retorico e propagandistico. E invece la politica di Rosai è tutta nel suo stile pittorico: i suoi quadri vedono spesso protagonisti umili e pacifici popolani, colti in atteggiamenti quotidiani. Poste nel contesto della pittura italiana del ventennio, le sue opere sono la risposta mite e pacifista all’eroica e dannunziana “energia vitale”. La vera sorpresa sono i nudi, non solo perché appartengono a una produzione meno valorizzata nel passato, ma perché con la loro dolorosa fisicità proiettano l’opera del pittore in una prospettiva europea. Spiega sempre Cavallo: «Rosai non uscirebbe affatto sminuito da un confronto con Francis Bacon. Quest’ultimo deforma l’uomo, pone all’esterno i suoi tormenti interiori. I nudi monumentali di Ottone Rosai al contrario esprimono la violenza dell’essere, la corruttibilità del corpo, mantenendo l’involucro formale».
Il suo tratto nero, sgorgato come sangue dal cuore e definito con virtuosismo dalla mano, scolpisce il volto emblematico di coloro che hanno la ventura di sopravvivere. Ogni uomo diventa mistero da indagare, specchio nel quale scorgere la stessa torrida solitudine che aggrava il peso dei suoi giorni, l’infelicità silenziosa di una condizione vitale comune a molti, troppi». Figlio di una modernità inquieta, Ottone Rosai, oggi, grazie anche alla mostra di Palazzo Medici, rinasce in una cultura italiana finalmente pronta a discutere senza pregiudizi la lezione dei suoi migliori uomini del Novecento. Anche se fascisti. Anche se omosessuali.
Filippo Rossi, giornalista e scrittore (autore, con Luciano Lanna, del saggio-dizionario Fascisti immaginari. Tutto quello che c'è da sapere sulla destra, Vallecchi 2003), ha cominciato al quotidiano Il Tempo, è stato caporedattore del settimanale l'Italia, direttore delle news di Radio 101 e collaboratore di diverse testate politico-culturali. Attualmente è coordinatore editoriale della fondazione presieduta da Gianfranco Fini, "Farefuturo".
1 commento:
Nell’ormai lontano 1996 il CDU di Buttiglione coniò per la campagna elettorale il seguente slogan : “Abbiamo ereditato le virtù, non i vizi”. Era sottinteso il riferimento alla Democrazia Cristiana. Uno slogan è sempre uno slogan pertanto va preso come tale, ma quello era davvero troppo pretenzioso. Inutile dire quanto si sia avverato del sogno buttiglioniano di riprodurre e riproporre virtù della diccì anziché i vizi. Davvero non è il caso di affondare il coltello nella piaga.
Ma queste righe non sono contro Buttiglione. Poverino, lui ci ha provato davvero. Non riesco proprio a credere che sia stato in malafede. Molto più banalmente è stato incapace: non diamogli altre colpe,la politica non è per lui (anche se un paio di cosine su di lei sarei davvero tentato di raccontarle).
Ha fallito,punto.
Piuttosto qui si vuole parlare dei cattivi maestri e dei pessimi discepoli. Ogni tanto si sente risuonare il vecchio refrain “bisogna rinnovare la classe dirigente”. A tale enunciato ultimamente si aggiunge pure un altro slogan: “non è l’età anagrafica che conta! Ci vuole aria nuova!” E altre cose simili.
Beninteso: cose verissime, giustissime. Persino ovvie. Ma se mi guardo attorno (e lo faccio spesso) trovo assolutamente disattese tali aspirazioni. A parte il nepotismo imperante (che nulla ha a che fare con la politica: a meno che qualcuno mi spieghi per quale motivo il figlio di un sindaco o di un onorevole debba necessariamente far politica. Per non perdere il “patrimonio” di famiglia? Come si faceva un tempo fra tirchie famiglie ricche che giammai avrebbero consentito che i loro rampolli disperdessero “le ricchezze” accasandosi con squattrinati?), c’è la “new generation” di politicanti che tutto sono tranne che “il nuovo”.
Fatte salve lodevoli eccezioni (che però non mi sovvengono,strano) costoro continuano a “fare politica” a “pensare” la politica come i politicanti sulle cui ginocchia tremule son cresciuti. Un esempio? Subito. Al termine di un bel convegno politico mi si avvicina un “giovane politico” con la faccia un po’ preoccupata “dovremmo farla pure da noi una manifestazione cosi” (e io continuo a non capire). Alla fine sbotta : “ci vogliono i soldi “.
Io so bene che questo esempio non vi dice molto: siamo assuefatti a molto peggio e ci par normale che l’unica preoccupazione di un “giovane” (parentesi:figlio di un ventennale sindaco del suo paesino) sia trovare i soldi per la sala e tutto il resto, e non la gioia e l’afflato di diffondere, veicolare le belle e lineari idee esposte dal politico che entrambi avevamo ascoltato.
Sento già le obiezioni: “la politica ha i suoi costi !” e altre cose simili.
Passo al secondo esempio: durante la mia breve parentesi di politica “attiva” (nel CDU) ricordo ancora bene con le mie orecchie queste testuali parole “a me mi hanno insegnato nel partito – la diccì, ça va sans dire- che se qualcuno dell’opposizione dice una cosa anche giusta bisogna sempre e comunque contrastarla: mai dare ragione al “nemico” anche se dice cose giuste”.
Se non vi scandalizzate (io si,tantissimo)per quanto vi ho appena detto e ritenete che sia tutto normale è inutile che vada avanti nel discorso.
(ps:quel “discepolo” è oggi vice-sindaco di una città di centomila abitanti e punta dritto a Roma,naturalmente)
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