Dal Secolo d'Italia di sabato 26 gennaio 2008
E' la forza delle coincidenze significative. Ma la serata dedicata al ricordo di Bettino Craxi è stata celebrata a neanche un’ora dalla caduta di Romano Prodi, imponendo nei fatti un confronto tra due precise stagioni della nostra storia politica. E così l’attesa e la visione del film La mia vita è stata una corsa hanno rappresentato e detto molto… «È la vendetta di Bettino», ha sussurrato più di qualcuno. E tra le poltrone di velluto rosso del cinema Embassy ai Parioli si è assistito a un vero e proprio rito della memoria e della speranza. C’erano, ovviamente, alla serata organizzata dalla Fondazione presieduta da Stefania Craxi, tanti ex socialisti e tante persone vicine umanamente e politicamente all’ex leader del Psi. C’era Silvio Berlusconi, amico personale di Craxi e suo compagno di strada nell’epopea ”made in Italy“ degli anni Ottanta. C’era l’ex presidente Carlo Azeglio Ciampi, che con il craxismo ha in comune l’ispirazione risorgimentale e la passione garibaldina. E a chi gli dice «è caduto il governo» non risponde nemmeno, si limita ad allargare le braccia. Molti gli esponenti di Forza Italia, che in qualche modo rivendicano le opzioni liberali, anticomuniste e riformiste di Craxi. E non mancano esponenti di quella destra che pone al centro la passione nazionale: da Altero Matteoli e Adolfo Urso, da Ignazio La Russa e Maurizio Gasparri a donna Assunta Almirante e Guido Paglia…
Solo una poltrona, tra quelle riservate alle massime autorità, è rimasta vuota. Ed è quella per il sindaco di Roma e leader del Partito democratico Walter Veltroni. Una voce fuori campo aveva annunciato che sarebbe arrivato a film iniziato. Ma alla fine della proiezione il suo posto era ancora vuoto. È come se Veltroni, nel giorno della fine di Prodi, non potesse stare lì a celebrare e rivendica re quella via italiana al riformismo intrapresa da Craxi e che oggi chiede una sua nuova stagione…
E poi la forza di quelle immagini. Un documentario – gli ottanta minuti firmati da Paolo Pizzolante – che ha suscitato applausi a ripetizione. Un percorso iniziato con Craxi che commentava la fotografia della strage di piazzale Loreto – «hanno giustificato con l’ideologia l’assenza della pietà…» – e concluso con l’esilio ad Hammamet sovrapposto alle icone di due grandi esuli italiani, Mazzini e Garibaldi. E in un’intervista il leader socialista ricorda di essere andato con i suoi figli a rendere omaggio di fronte alla villa di Giulino di Mezzegra, nel luogo in cui era stato ucciso il leader fascista. Proprio in quel momento nel film scorre la targa: «Benito Mussolini, 28 aprile 1945». Immagini, come dicevamo, che collocano la vicenda di Craxi tutta all’interno del Novecento italiano. «Io nella mia vita la tranquillità non l’ho mai cercata», commenta il leader del Psi riguardando a tutta la sua parabola.
E via con quella biografia “vissuta pericolosamente”. Gli esordi a Milano negli anni Sessanta, il rapporto con Pietro Nenni, il vecchio socialista che era stato compagno di battaglie del giovane Mussolini, la scelta anticomunista nel ’56, contro la repressione sovietica in Ungheria, nel momento preciso in cui – lo ricorda lui stesso in uno spezzone del film – «Craxi cominciò a essere considerato di destra». E avanti con le battaglie per l’autonomia socialista, gli scontri con il Pci, il confronto con la contestazione giovanile, gli anni del terrorismo. Poi, nel 1976, l’elezione a segretario del Partito socialista. In quel momento, dopo il congresso del Midas, l’avvenimento non era forse apparso come di quelli destinati a lasciare il segno. Nessuno avrebbe immaginato che per oltre un quindicennio l’agenda politica nazionale sarebbe stata dettata da via del Corso e che i due vecchi giganti della partitocrazia italiana, quello democristiano e quello comunista, avrebbero subito a lungo il dinamismo e l’offensiva riformista e modernizzatrice del leader socialista. Poi la scelta ideologica di “tagliare la barba” a Marx e di sostituirlo con il libertario Proudhon e, inoltre, la svolta tricolore che impressero Craxi e il craxismo nell’immaginario degli italiani. Molto suggestive le parole con cui Craxi differenzia la sua strategia per liberare Aldo Moro da coloro che con il pretesto della “politica della fermezza” avevano decretato l’assassinio dello statista democristiano. Si ascolta poi, sullo sfondo della canzone di De Gregori, Craxi pronunciare quelle parole chiudendo il quarantaduesimo congresso del suo partito a Palermo il 26 aprile 1981: «Viva l’Italia. Perché c’è un’Italia, come dice la canzone, che resiste e che lavora, un’Italia che si dispera e che si innamora, un’Italia che noi dobbiamo rappresentare, capire e aiutare con la fedeltà di sempre…».
Scorrono gli anni del primo presidente del Consiglio socialista, quelli dell’Italia che tira, del Craxi che rilancia il Risorgimento, la passione nazionale, la figura di un martire socialista come Cesare Battisti e individua un nuovo ruolo per le forze armate, che si lancia nella ricerca di un’alternativa riformista e terzaforzista tra Dc e Pci e nel progetto decisionista della Grande Riforma istituzionale. È il Craxi ghibellino e dal “cuore garibaldino” che riscopre nel volontarismo di Giuseppe Garibaldi le radici di una via italiana alla modernità. E in quegli anni Ottanta che videro il trionfo del craxismo, all’indomani della crisi di Sigonella e del discorso alla Camera del leader socialista, anche un giornalista di sinistra come Giampaolo Pansa era costretto ad ammettere: «No, non mi pare che Craxi bluffi. E il suo racconto ci consegna un piccolo spaccato di questa Italietta ai confini dell’impero che ci fa onore: un gruppo di uomini che conservano i piedi per terra e la testa sul collo, pragmatici, prudenti, magari anche poco collegiali, arruffoni, dalle mosse pasticciate, ma del tutto fermi nel difendere il buon diritto del proprio paese e l’autonomia dello Stato che rappresentano… Era già accaduto a qualche presidente del Consiglio? Non mi pare. Ecco, per re Bettino, un record che vale una medaglia, e che nessuno potrà contestargli».
Come emerge dal film, piaccia o meno, il marchio di Craxi ha segnato gli anni Ottanta. «È stato – ha scritto in proposito il giornalista Gianni Pennacchi – il difensore dell’orgoglio nazionale, il profeta del presidenzialismo e il campione della modernizzazione qualcuno può forse dubitare che tali valori non siano anche di destra?». Era quindi naturale che un personaggio, un leader, con tali caratteristiche sparigliasse i giochi e disturbasse l’establishment. Un ribelle guastatore dei giochi precostituiti in nome della libertà dei popoli: così Craxi vedeva se stesso. Quasi una figura classica di quell’epopea romanzesca che, per gli eroi, prevede che all’ascesa faccia seguito, o presto o tardi, un fatale destino. Paradossalmente, dopo avere a lungo auspicato una nuova Repubblica, il leader socialista finiva con l’esserne la vittima sacrificale, diventandone, poi, dal suo esilio ad Hammamet, l’implacabile cattiva coscienza, ha scritto don Gianni Baget Bozzo: «Perché aveva vinto storicamente, Craxi andava eliminato politicamente. Le elezioni presidenziali del 1992 furono l’inizio dell’esecuzione. E Craxi finì in esilio bollato come un ladro».
Resta indimenticabile, il documentario lo attesta, il suo discorso alla Camera del luglio ’92 in cui l’ex presidente del Consiglio socialista accusa tutto il sistema dei partiti. E, come ricorda in una successiva intervista televisiva, nessuno rispose, nessuno... Toccanti anche le parole con cui Craxi
mette sotto accusa tutti coloro che si sono piegati ai nuovi potenti, quelli che si sono tappati la bocca, quelli che hanno cambiato padrone, quelli che hanno riscritto le cose... «La storia si ripete come farsa – scrisse qualche anno fa Giuliano Ferrara – ma noi craxiani, in quegli anni ’90 che Luciano Violante giudica una “palla al piede”, fummo in qualche senso salotini e avemmo il nostro Piazzale Loreto, le fughe e le gabbane voltate, gli spregevoli spettacoli trasformistici, la stagione dei falsi eroi e dei falsi miti. Si rischiava meno, l’ostracismo e la maledizione della folla, al massimo, non la vita. Ma l’investimento emotivo nel rigetto di un’Italia di finti intransigenti, di finti moralizzatori, di finti giustizieri, ebbe qualcosa che piano piano ci avvicinò malinconicamente allo scenario tragico dell’Italia del ’43».
Solo una poltrona, tra quelle riservate alle massime autorità, è rimasta vuota. Ed è quella per il sindaco di Roma e leader del Partito democratico Walter Veltroni. Una voce fuori campo aveva annunciato che sarebbe arrivato a film iniziato. Ma alla fine della proiezione il suo posto era ancora vuoto. È come se Veltroni, nel giorno della fine di Prodi, non potesse stare lì a celebrare e rivendica re quella via italiana al riformismo intrapresa da Craxi e che oggi chiede una sua nuova stagione…
E poi la forza di quelle immagini. Un documentario – gli ottanta minuti firmati da Paolo Pizzolante – che ha suscitato applausi a ripetizione. Un percorso iniziato con Craxi che commentava la fotografia della strage di piazzale Loreto – «hanno giustificato con l’ideologia l’assenza della pietà…» – e concluso con l’esilio ad Hammamet sovrapposto alle icone di due grandi esuli italiani, Mazzini e Garibaldi. E in un’intervista il leader socialista ricorda di essere andato con i suoi figli a rendere omaggio di fronte alla villa di Giulino di Mezzegra, nel luogo in cui era stato ucciso il leader fascista. Proprio in quel momento nel film scorre la targa: «Benito Mussolini, 28 aprile 1945». Immagini, come dicevamo, che collocano la vicenda di Craxi tutta all’interno del Novecento italiano. «Io nella mia vita la tranquillità non l’ho mai cercata», commenta il leader del Psi riguardando a tutta la sua parabola.
E via con quella biografia “vissuta pericolosamente”. Gli esordi a Milano negli anni Sessanta, il rapporto con Pietro Nenni, il vecchio socialista che era stato compagno di battaglie del giovane Mussolini, la scelta anticomunista nel ’56, contro la repressione sovietica in Ungheria, nel momento preciso in cui – lo ricorda lui stesso in uno spezzone del film – «Craxi cominciò a essere considerato di destra». E avanti con le battaglie per l’autonomia socialista, gli scontri con il Pci, il confronto con la contestazione giovanile, gli anni del terrorismo. Poi, nel 1976, l’elezione a segretario del Partito socialista. In quel momento, dopo il congresso del Midas, l’avvenimento non era forse apparso come di quelli destinati a lasciare il segno. Nessuno avrebbe immaginato che per oltre un quindicennio l’agenda politica nazionale sarebbe stata dettata da via del Corso e che i due vecchi giganti della partitocrazia italiana, quello democristiano e quello comunista, avrebbero subito a lungo il dinamismo e l’offensiva riformista e modernizzatrice del leader socialista. Poi la scelta ideologica di “tagliare la barba” a Marx e di sostituirlo con il libertario Proudhon e, inoltre, la svolta tricolore che impressero Craxi e il craxismo nell’immaginario degli italiani. Molto suggestive le parole con cui Craxi differenzia la sua strategia per liberare Aldo Moro da coloro che con il pretesto della “politica della fermezza” avevano decretato l’assassinio dello statista democristiano. Si ascolta poi, sullo sfondo della canzone di De Gregori, Craxi pronunciare quelle parole chiudendo il quarantaduesimo congresso del suo partito a Palermo il 26 aprile 1981: «Viva l’Italia. Perché c’è un’Italia, come dice la canzone, che resiste e che lavora, un’Italia che si dispera e che si innamora, un’Italia che noi dobbiamo rappresentare, capire e aiutare con la fedeltà di sempre…».
Scorrono gli anni del primo presidente del Consiglio socialista, quelli dell’Italia che tira, del Craxi che rilancia il Risorgimento, la passione nazionale, la figura di un martire socialista come Cesare Battisti e individua un nuovo ruolo per le forze armate, che si lancia nella ricerca di un’alternativa riformista e terzaforzista tra Dc e Pci e nel progetto decisionista della Grande Riforma istituzionale. È il Craxi ghibellino e dal “cuore garibaldino” che riscopre nel volontarismo di Giuseppe Garibaldi le radici di una via italiana alla modernità. E in quegli anni Ottanta che videro il trionfo del craxismo, all’indomani della crisi di Sigonella e del discorso alla Camera del leader socialista, anche un giornalista di sinistra come Giampaolo Pansa era costretto ad ammettere: «No, non mi pare che Craxi bluffi. E il suo racconto ci consegna un piccolo spaccato di questa Italietta ai confini dell’impero che ci fa onore: un gruppo di uomini che conservano i piedi per terra e la testa sul collo, pragmatici, prudenti, magari anche poco collegiali, arruffoni, dalle mosse pasticciate, ma del tutto fermi nel difendere il buon diritto del proprio paese e l’autonomia dello Stato che rappresentano… Era già accaduto a qualche presidente del Consiglio? Non mi pare. Ecco, per re Bettino, un record che vale una medaglia, e che nessuno potrà contestargli».
Come emerge dal film, piaccia o meno, il marchio di Craxi ha segnato gli anni Ottanta. «È stato – ha scritto in proposito il giornalista Gianni Pennacchi – il difensore dell’orgoglio nazionale, il profeta del presidenzialismo e il campione della modernizzazione qualcuno può forse dubitare che tali valori non siano anche di destra?». Era quindi naturale che un personaggio, un leader, con tali caratteristiche sparigliasse i giochi e disturbasse l’establishment. Un ribelle guastatore dei giochi precostituiti in nome della libertà dei popoli: così Craxi vedeva se stesso. Quasi una figura classica di quell’epopea romanzesca che, per gli eroi, prevede che all’ascesa faccia seguito, o presto o tardi, un fatale destino. Paradossalmente, dopo avere a lungo auspicato una nuova Repubblica, il leader socialista finiva con l’esserne la vittima sacrificale, diventandone, poi, dal suo esilio ad Hammamet, l’implacabile cattiva coscienza, ha scritto don Gianni Baget Bozzo: «Perché aveva vinto storicamente, Craxi andava eliminato politicamente. Le elezioni presidenziali del 1992 furono l’inizio dell’esecuzione. E Craxi finì in esilio bollato come un ladro».
Resta indimenticabile, il documentario lo attesta, il suo discorso alla Camera del luglio ’92 in cui l’ex presidente del Consiglio socialista accusa tutto il sistema dei partiti. E, come ricorda in una successiva intervista televisiva, nessuno rispose, nessuno... Toccanti anche le parole con cui Craxi
mette sotto accusa tutti coloro che si sono piegati ai nuovi potenti, quelli che si sono tappati la bocca, quelli che hanno cambiato padrone, quelli che hanno riscritto le cose... «La storia si ripete come farsa – scrisse qualche anno fa Giuliano Ferrara – ma noi craxiani, in quegli anni ’90 che Luciano Violante giudica una “palla al piede”, fummo in qualche senso salotini e avemmo il nostro Piazzale Loreto, le fughe e le gabbane voltate, gli spregevoli spettacoli trasformistici, la stagione dei falsi eroi e dei falsi miti. Si rischiava meno, l’ostracismo e la maledizione della folla, al massimo, non la vita. Ma l’investimento emotivo nel rigetto di un’Italia di finti intransigenti, di finti moralizzatori, di finti giustizieri, ebbe qualcosa che piano piano ci avvicinò malinconicamente allo scenario tragico dell’Italia del ’43».
Luciano Lanna, laureato in filosofia, giornalista professionista dal 1992 e scrittore (autore, con Filippo Rossi, del saggio dizionario Fascisti immaginari. Tutto quello che c'è da sapere sulla destra. Vallecchi 2004), oltre ad aver lavorato in quotidiani e riviste, si è occupato di comunicazione politica e ha collaborato con trasmissioni radiofoniche e televisive della Rai. Già caporedattore del bimestrale di cultura politica Ideazione e vice direttore del quotidiano L'Indipendente, è direttore responsabile del Secolo d'Italia.
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