Wie oft? Quante volte? Quanto spesso? Era la domanda più frequente tra le donne che si incontravano per strada nella Berlino martoriata del 1945, nei giorni, nelle settimane, nei mesi dell’occupazione sovietica, quando i russi sfondarono sul fronte orientale e presero la capitale del Reich in fumo, quartiere dopo quartiere, strada dopo strada, casa dopo casa. E con la città presero le loro donne, vecchie, giovani o bambine, senza riguardo per nulla, né per l’età, né per la condizione, né per lo stato di salute: bottino di guerra. Era accaduto più o meno la stessa cosa con l’avanzata dei nazisti in Russia, ora la storia si rovesciava, i ruoli si invertivano, carnefici i russi, vittime le tedesche.
Sarebbe accaduto ancora, nelle cento e più guerre successive, fino ai giorni nostri e di nuovo nel cuore dell’Europa, nei Balcani: serbi, croati, bosniaci, ortodossi, cristiani, musulmani. E sempre la stessa vigliacca divisione: gli uomini di qua, le donne di là, prede e bottino di guerra, rifugio violato e preteso, per annegare animalescamente la durezza della guerra. Ora madri, ora sorelle, ora puttane, a piacimento. Il cinema tedesco affronta il tabù più scabroso della seconda guerra mondiale: quello delle donne violentate dalle truppe russe che occuparono la metà orientale del paese nella controffensiva del 1945. Lo fa con un film basato sul diario di una testimone, una giornalista che visse a Berlino il dramma della rovina, dei bombardamenti, della sconfitta, della solitudine, infine dell’assalto. In tutti i sensi. Una giornalista, Marta Hillers, che riversò su piccoli quaderni l’orrore e l’angoscia di quei giorni, la disperazione e la paura, l’umiliazione ma anche l’incredibile voglia di vivere e sopravvivere, navigando tra le rovine materiali e morali della città più conquistata che liberata. Il film prende il titolo dal libro, Anonyma, eine Frau in Berlin ("Anonima" è lo pseudonimo dietro cui, fino alla sua morte, si è celata l’autrice). E’ diretto da Max Färberböck (nella foto in basso a sinistra), regista anche di Aimée & Jaguar, un altro classico della Berlino ai tempi della guerra, che ha curato anche l’adattamento cinematografico del testo originale.
In Germania è il film del momento, accolto da critiche contrastanti, ora positive ora feroci: in attesa dell’impatto sul pubblico, a dividersi sono le grandi firme delle maggiori testate giornalistiche, da Andreas Kilb della Frankfurter Allgemeine ad Andrian Kreye della Süddeutsche Zeitung, da Christiane Peitz del Tagesspiegel a Joachim Kronsbein dello Spiegel, da Knut Elstermann di Radio Eins a Bettina Homann di Zitty. Sui canali televisivi si susseguono i documentari su quei mesi terribili, con ricostruzioni storiche e filmati d’epoca e con i microfoni pronti a raccogliere i ricordi e le lacrime delle poche testimoni ancora in vita.
Il film è da ieri nelle sale cinematografiche tedesche e noi siamo andati a vederlo nel primo spettacolo allo Zoo Palast, il cinema che ha per anni ospitato le serate della Berlinale, alle spalle dello Zoologischer Garten di Berlino. Una sala sorprendentemente vuota, una ventina di spettatori in tutto, un’anziana signora seduta in disparte nelle file laterali con la quale ho incrociato lo sguardo a fine proiezione: aveva gli occhi pieni di lacrime, un’emozione che fa giustizia delle critiche al regista.
Rispetto al libro, il film opera alcuni compromessi. Salta dei passaggi, semplifica le situazioni, inserisce personaggi femminili giovanili. Il ritmo procede a strappi, ora troppo lento, ora troppo rapido, alla ricerca di una narrazione che possa tenere tutto insieme. E però, se il giudizio su un film che si basa sul racconto in prima persona dell’autrice deve essere misurato anche dalla scelta dell’attrice protagonista, la decisione di affidare il ruolo a Nina Hoss è stata delle più felici. Un’interpretazione densa e drammatica, capace di incarnare alla perfezione gli stati d’animo della protagonista: angoscia, paura, rassegnazione, determinazione, umorismo nero. Una miscela difficile da rappresentare, che la Hoss riesce a proporre con grande convinzione confermandosi una delle attrici più interessanti nel panorama cinematografico ormai non solo tedesco ma europeo. Lo spessore della sua interpretazione fa perdonare anche la scelta più scellerata del regista, quella di cedere al peccato cinematografico di forzare la relazione fra l’autrice del diario e un ufficiale sovietico, inventando una storia d’amore di cui non v’è traccia nel libro. Questo per quel che riguarda il film sul piano tecnico.
Ma la scelta di affrontare il tabù dei tabù della storia tedesca non può confinare il dibattito sul film al piano strettamente tecnico. Non era ancora capitato di veder rappresentata sul grande schermo la violenza cieca di un’avanzata militare che sin dal primo momento si rivelò per quel che era e che sarebbe stata una volta firmato l’armistizio: non una liberazione ma un’occupazione. Non una vittoria ma l’umiliazione di un popolo che da quel momento in poi sarebbe divenuto il baluardo più occidentale del nuovo sistema di sicurezza russo. Dietro la banalità del male della guerra e le tremendamente normali storie di vendetta, lo stupro sistematico delle donne tedesche celava l’obiettivo di annichilire non solo l’orgoglio – peraltro già distrutto – dei soldati o degli uomini dell’apparato di regime ma l’amor proprio di un’intera popolazione. L’annullamento della dignità delle donne e dei loro mariti, padri, fratelli, figli, costretti a subire l’umiliazione oltre la sconfitta.
Le cifre sono sempre rimaste avvolte da una cortina di pudico riserbo ma sembra veritiera la stima di centomila donne violentate nella sola Berlino.
Ora che il tempo ha guarito le ferite (basti pensare che in politica estera la Germania unita è oggi il partner europeo più importante per la Russia di Putin e Medvedev) e che i timori del revisionismo si sono dissipati, il paese ritorna a parlare dei propri tabù di guerra, rispondendo all’ormai lontano appello di W. G. Sebald, che dieci anni fa si chiedeva come mai la letteratura tedesca avesse rinunciato a raccontare eventi di grande portata del proprio passato. Si pubblicano i libri sull’affondamento nel 1945 della nave da crociera Gustloff da parte dei sovietici con diecimila profughi a bordo, si aprono i dibattiti sulla vera ragione dei bombardamenti a tappeto delle città tedesche da parte degli alleati, si moltiplicano i film e i libri sulle vicende dei “Vertribene”, gli sfollati dai territori orientali. Argomenti trattati con scrupolo e rigore storiografico, fuori da strumentalizzazioni politiche, nel tentativo di riannodare il filo della storia e della memoria a quasi vent’anni dalla riunificazione.
Anche la storia di Anonima è emblematica. Marta Hillers scrisse il suo diario tra l’aprile e il maggio 1945 su tre quaderni e su alcuni fogli sparsi. Qualche mese dopo revisionò tutto, elaborando 121 pagine sulla carta grigiastra del periodo di guerra. Fece leggere i quaderni al fidanzato rientrato dal fronte: questi voltò la testa dall’altra parte e sparì. E’ quello che fecero tutti gli altri tedeschi, ad ovest per la vergogna, ad est perché i russi erano i nuovi padroni e le gesta dell’Armata Rossa si tinsero di un eroismo che non c’era stato. I diari furono affidati a Kurt W. Marek, un critico letterario che con lo pseudonimo di C. W. Ceram aveva pubblicato un bestseller di archeologia, “Civiltà sepolte”. Si trasferì negli Stati Uniti e pubblicò in inglese la prima versione di Anonima. Era il 1954, seguirono traduzioni in norvegese, italiano, danese, giapponese, spagnolo, francese e finlandese. Solo nel 1959 fu pubblicata l’edizione tedesca ma da Kossodo, una piccola casa editrice svizzera con sede a Ginevra. In patria nessuno lo voleva pubblicare e il libro non ebbe alcun successo. L’autrice proibì qualsiasi riedizione sino alla sua morte, che avvenne nel 2001. E’ allora che Hans Magnus Enzensberger decise di intraprendere la strada della ripubblicazione. Il libro uscì nel 2003 presso l’editore Eichborn di Francoforte. Fu un successo, replicato un anno dopo in Italia con l’edizione Einaudi, prefatta dallo stesso Enzensberger. Adesso è il momento del grande schermo.
Pierluigi Mennitti (Brindisi, 1966). Laureato all’Università La Sapienza di Roma in Scienze Politiche, è stato direttore della rivista di cultura politica Ideazione, per la quale tiene una rubrica (Alexanderplatz) in qualità di inviato in Germania, paese nel quale risiede. In veste di politologo ha più volte presenziato alla trasmissione Otto e mezzo condotta da Giuliano Ferrara. Collabora anche con la rivista Emporion e diversi quotidiani, tra cui il Secolo d'Italia.
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