Parlare a tutti: Almirante lo insegnò con il sorriso
Articolo di Miro Renzaglia
Dal Secolo d'Italia, edizione domenicale del 26 ottobre 2008
Sarà che quando, anzi: soprattutto quando le faccende si fanno tropo serie, a me ha sempre preso la voglia irrefrenabile di sovvertirle con una risata. Quindi: se proprio devo indicare un tratto caratteristico che mostri la differenza fra "noi" e "loro", fra il nostro gusto popolare e la loro puzzetta sotto al naso chic-elitario, mi viene subito in mente il piacere della risata versus la loro tetra agonia. Ho ancora bene in mente la serietà, il rigore, la tetraggine dei militanti delle varie avanguardie, autonomie, lotte, stelle, ecc...ecc... della sinistra rivoluzionaria negli anni '70... Per non parlare della paresi facciale che doveva aver colto tutta la classe dirigente del Pci: cazzo! non ridevano mai... Tutti compresi e compressi com'erano nella missione di salvare il proletariato, s'erano scordati che il popolo ride...
Non so se ricordate le vecchie "tribune politiche" di allora... Beh! per la verità, non erano solo i comunisti a non ridere mai: a prendere tutto maledettamente sul serio, a sottolineare la gravità del momento con impeccabili facce da funerale, erano anche tutti gli altri capi e dirigenti di partito. C'era solo il capo di un partito che, pure, dati i tempi e i lutti che colpivano la sua comunità, avrebbe avuto tutto il diritto di mostrarsi più affranto e mummificato degli altri. Eppure, invece, durante il dibattito, ammiccava, sorrideva, faceva guizzare dagli occhi lampi di ironia per l'assurdità di una domanda o di humor sarcastico ma elegante per l'improvvidenza di una altrui tesi sgangherata. Usava iperboli, metafore, allegorie, citazioni letterarie per ribaltare la mestizia di analisi che volevano essere algebriche e, lui, invece, con la lieve alzata di un angolo di labbro a similar sorriso di scherno, dimostrava, pure senza parole, astratte e strampalate, suscitando la sghignazzata pubblica. Si chiamava Giorgio Almirante e, quando era il suo turno di passaggio televisivo, il popolo, anche quello che gli votava visceralmente contro e lo chiamava, per istigazione mediatica, "fucilatore di partigiani", faceva alzare gli indici di ascolto al doppio o al triplo della media. Chiedete a chi ha assistito ai suoi show (tali sarebbero definiti oggi che la politica ha spesso i tratti del ridicolo...) come li ricorda bene e, nonostante tutto, con quanta simpatica nostalgia... Si dirà: "Eh! sì, vabbeh... era facile per lui, che veniva da una famiglia di teatranti, usare la mimica e suscitare ilarità...". Eh! no, cari miei: c'avrà pure avuto il genio teatrale nel sangue ma, proprio perché sapeva usarlo a mestiere, se avesse voluto avrebbe potuto recitare qualsiasi altra parte, anche quella dello sfigato puro, pure senza esserlo... Gli è, invece – ne sono convinto – che quel "capopolo" (così lo definivano i compagni quando pensavano di schernirlo e, invece, lo adulavano...) non recitasse affatto: mostrava semplicemente un tratto della "nostra" anima popolare: quella che sa ridere...
Non so se ricordate le vecchie "tribune politiche" di allora... Beh! per la verità, non erano solo i comunisti a non ridere mai: a prendere tutto maledettamente sul serio, a sottolineare la gravità del momento con impeccabili facce da funerale, erano anche tutti gli altri capi e dirigenti di partito. C'era solo il capo di un partito che, pure, dati i tempi e i lutti che colpivano la sua comunità, avrebbe avuto tutto il diritto di mostrarsi più affranto e mummificato degli altri. Eppure, invece, durante il dibattito, ammiccava, sorrideva, faceva guizzare dagli occhi lampi di ironia per l'assurdità di una domanda o di humor sarcastico ma elegante per l'improvvidenza di una altrui tesi sgangherata. Usava iperboli, metafore, allegorie, citazioni letterarie per ribaltare la mestizia di analisi che volevano essere algebriche e, lui, invece, con la lieve alzata di un angolo di labbro a similar sorriso di scherno, dimostrava, pure senza parole, astratte e strampalate, suscitando la sghignazzata pubblica. Si chiamava Giorgio Almirante e, quando era il suo turno di passaggio televisivo, il popolo, anche quello che gli votava visceralmente contro e lo chiamava, per istigazione mediatica, "fucilatore di partigiani", faceva alzare gli indici di ascolto al doppio o al triplo della media. Chiedete a chi ha assistito ai suoi show (tali sarebbero definiti oggi che la politica ha spesso i tratti del ridicolo...) come li ricorda bene e, nonostante tutto, con quanta simpatica nostalgia... Si dirà: "Eh! sì, vabbeh... era facile per lui, che veniva da una famiglia di teatranti, usare la mimica e suscitare ilarità...". Eh! no, cari miei: c'avrà pure avuto il genio teatrale nel sangue ma, proprio perché sapeva usarlo a mestiere, se avesse voluto avrebbe potuto recitare qualsiasi altra parte, anche quella dello sfigato puro, pure senza esserlo... Gli è, invece – ne sono convinto – che quel "capopolo" (così lo definivano i compagni quando pensavano di schernirlo e, invece, lo adulavano...) non recitasse affatto: mostrava semplicemente un tratto della "nostra" anima popolare: quella che sa ridere...
Fin qui, nelle istituzioni. E i militanti? Eh! Cazzo!!! Le funeste serate al circolo d'essai a sorbirsi, con annesso e susseguente e mortifero dibattito, La corazzata Potëmkin, mica le devo ricordare io e adesso, dopo che lo ha fatto, con audacia, molto tempo fa, Paolo Villaggio (anche se, è bene dirlo: non era il film ad essere "una cagata pazzesca" ma l'aura che la pesante compostezza del momento culturale richiedeva al pubblico partecipante...). A me, primo: nessuno ha mai chiesto di vedere un film come prova dimostrativa di fedeltà alla linea; secondo: già il fatto che qualcuno me lo volesse propinare come seduta necessaria alla mia formazione rivoluzionaria avrebbe sollevato, insieme al rifiuto, il risveglio del pirandelliano "sentimento del contrario" e mi sarei sottratto all'impegno con uno sghignazzante: "Che peccato! Guarda: proprio a malincuore ma non posso venire... Stasera in TV danno Un americano a Roma: e quando me ricapita?". E qui entriamo nell'anedottica personale e c'entra proprio questo film... Eravamo più o meno nel '75 (millenovecento) e capitò veramente che un pidocchietto di cinema periferico riproponesse in terza visone il capolavoro di Steno, con il grande Alberto Sordi... Io e un mio compagno di classe (camerata di classe suona male, vero?) decidemmo di passarci il pomeriggio... Nell'intervallo, per l'immancabile smercio di bruscolini e pop corn, si accendono le luci, ci voltiamo e, proprio qualche fila dietro di noi, c'erano conoscenti duri e puri di un gruppetteria compagna della nostra stessa scuola... Per un attimo tememmo che fossero lì, alle nostre spalle, per ovvietà meno nobili da quelle dettate dalla sana visione del film dell'Albertone nazionale... Senonché, notato che noi li notammo, presero la via di uscita e sparirono... Capimmo il perché il giorno dopo, beccandoli a scuola... Ne fermo uno e gli chiedo: "Scusa, senti un po'? Ma che ce facevate te e li compagnucci tui ieri al cinema a vede' Un americano a Roma?". "Ma chi? noi a vede' quella fregnaccia borghese... C'avemo da fa' de mejo noi, er pomeriggio... ve sete sbajati: non eravamo noi al cinema Leblon...". "Ah! - replicai - E come fai a sape' che il film lo davano proprio al Leblon?". Insomma, per esserci c'erano ed erano proprio loro, ma guai a confessare la caduta in tentazione della risata... Un po' come erano guai a dire che gli piaceva il nazional-popolare Lucio Battisti: "Chi? Quel fascistone?" ti rispondevano all'epoca; solo molti anni dopo avrebbero confessato che "Sì, vabbeh, è vero: lo sentivamo pure noi ma mica lo potevamo ammettere a quei tempi". L'ipocrisia era così chic?
Eppure, bisogna capirli... Nel senso che bisogna giustificarli, in qualche modo... Nella nostra tradizione culturale ci sono, per esempio, L'Umorismo di Pirandello e un Nietzsche che, nello Zarathustra, con evidente spirito autoironico, permette al pastore di ridere di lui, dopo che con un morso ha staccato la testa al serpente di una fin troppo semplicistica concezione dell'eterno ritorno... Possono vantare qualche cultore del riso alla stessa stregua di questi, loro? Posso sbagliare ma non mi sembra.
Eppure, bisogna capirli... Nel senso che bisogna giustificarli, in qualche modo... Nella nostra tradizione culturale ci sono, per esempio, L'Umorismo di Pirandello e un Nietzsche che, nello Zarathustra, con evidente spirito autoironico, permette al pastore di ridere di lui, dopo che con un morso ha staccato la testa al serpente di una fin troppo semplicistica concezione dell'eterno ritorno... Possono vantare qualche cultore del riso alla stessa stregua di questi, loro? Posso sbagliare ma non mi sembra.
Avevano voglia, insomma, a bearsi, loro, del detto: "Una risata vi seppellirà". Non hanno seppellito proprio niente, forse anche perché NON sapevano ridere... Siamo stati noi che, ridendo, abbiamo seppellito loro. Questione di neanche tanto sottili differenze... popolari... E del resto, ancora oggi, la maschera comica per eccellenza della sinistra radical-chic non è quel Nanni Moretti che farà pure ridere ma non ride mai?
Miro Renzaglia è nato a Roma nel 1957. Ha pubblicato Controversi (E.C.D.P. Milano, 1988), I rossi e i neri (Settimo Sigillo, Roma, 2002). Nel 1990 ha fondato la rivista Kr 991 che ha diretto fino al 1999. Suoi testi poetici sono presenti in antologie, riviste e DVD. In qualità di saggista, critico letterario e di costume, collabora (o ha collaborato) a quotidiani, periodici e siti web, fra cui: Secolo d'Italia, Linea, Rinascita, Letteratura Tradizione, Orion, Occidentale, Noreporter. Ha partecipato a molte iniziative di Casapound. Collabora al Progetto Polaris, per il quale ha partecipato alla realizzazione di due DVD: Metastasi e Capitalismo e Multinazionali (Produzione Trifase, Roma, 2004). È autore e performer del concerto di musica-poesia Radiografia di uno sfacelo (CD registrato in proprio, Roma, 2003), rappresentato in diverse città italiane. Blogger molto seguito, ha recentemente fondato il settimanale online Il fondo.
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