sabato 26 giugno 2010

Eva dorme, romanzo d'esordio di Francesca Melandri (la mia recensione e un articolo di Massimiliano Griner)

"Ma l'apartheid di montagna non è l'identità"
Dal Secolo d'Italia di sabato 26 giugno
L’Alto Adige? Per la maggior parte degli italiani era e rimane soprattutto una meta turistica, tra le più ambite dagli appassionati della montagna. Tutto quel che c’è da sapere è comodamente riassunto nelle patinate ma sbrigative pubblicazioni offerte dalle agenzie di viaggio. Troppo breve e frenetico lo spazio di una vacanza per guardare oltre l’incantevole bellezza dei luoghi. Troppo lunga la distanza, anche culturale, da quelle terre incastonate in un confine così lontano da apparire immaginario. C’era una volta il Südtirol, sarebbe sufficiente sussurrare, per evocare “folletti” in abiti tradizionali e donne biondissime e statuarie degne della matita magica di Milo Manara.
Eppure quella raccontata dalla sceneggiatrice Francesca Melandri nel suo romanzo d’esordio – Eva dorme (Mondadori, pp. 347, € 19) – non è una favola né soltanto un feuilleton, sia pure poderoso e suggestivo. È la storia vissuta quanto dolente di una terra rimasta orfana di patria, meglio: della Heimat...
 Così i sudtirolesi di lingua tedesca da sempre chiamano amorevolmente la loro casa natia. Malgrado dopo la Prima guerra mondiale si siano ritrovati italiani, loro malgrado. Per italianizzare davvero quella terra verticale, tuttavia, il divieto di parlare tedesco in pubblico e la nuova toponomastica made in Italy non potevano essere sufficienti. Né lo sarebbe stato incentivare i meridionali a trasferirsi lassù pensando di ridurre gli altoatesini a minoranza. Dovevano sloggiare, punto. Hitler, da parte sua, se li sarebbe ripresi volentieri e Mussolini avrebbe fatto sì che i più ostinati venissero convinti a partire, con le buone o con le cattive. La Seconda guerra mondiale rimescolò le carte ma la neonata Repubblica non affrontò che molti anni dopo la questione altoatesina.
Tra le righe di questa trascurata pagina della nostra storia, si muovono i personaggi tratteggiati da Francesca Melandri (nella foto) attraverso la voce narrante: Eva, affascinante quarantenne, «gambe snelle, busto pieno e statura da Nordeuropa». La prima immagine che ce ne offre l’autrice è all’aeroporto di Monaco: «Anche dopo nove di volo ero vestita e truccata come per il vernissage di New York da cui provenivo, abito in jersey verde pistacchio, orecchini a goccia e ballerine». Il viaggio che l’aspetta, però, è ben più impegnativo. Non soltanto perché, alla vigilia di Pasqua, dovrà affrontarlo in treno: 1397 chilometri che la porteranno dalle guglie dolomitiche a Reggio Calabria. Sarà, il suo, anche un viaggio a ritroso nel tempo, durante il quale potrà riconciliarsi con gli avvenimenti storici e le vicende private vissute da bambina senza padre. Ce n’era stato uno, che avrebbe voluto e potuto farle da padre, salvo poi sparire senza dare più sue notizie per decenni. Ora che sta morendo, però, la chiama: vuole rivederla. Eva non ha dubbi: parte. «Solo una volta nella vita mia madre è stata certa dell’amore per un uomo, e io di quello di un padre – racconta – mentre tutti gli altri sono passati come acquazzoni estivi: ci hanno infangato le scarpe, ma lasciato i prati secchi».
Quell’uomo è il carabiniere calabrese Vito Anania, spedito dall’Arma a pattugliare quelle terre rese inospitali dal terrorismo quando – dopo la notte dei fuochi del ’61 ricordata da Massimiliano Griner – l’Alto Adige si trasformò in una zona di guerra con tanto di posti di blocco e perquisizioni a tappeto. Non tutti i soldati, però, facevano la faccia feroce e consideravano nemici i figli del morente impero austriaco. «Avevano occhi di velluto e ciglia lunghe come bambine e, pur con le uniformi e le armi, non ci riuscivano proprio a restare marziali – li ricorda Eva – e anche se forse erano spaventati avevano ancora abbastanza leggerezza da fare i complimenti alle ragazze». Vito è uno di loro, quando dopo tre anni di pattugliamento lo promuovono brigadiere e lo assegnano al vettovagliamento della caserma si preoccupa di pagare i debiti accumulati con i commercianti locali da coloro che lo avevano preceduto. Se gli altri avevano fatto la cresta sulle forniture, lui avrebbe combattuto contro quel legittimo risentimento anti-italiano: «Li avrebbe convinti uno a uno: non tutti gli italiani sono truffatori. Anche così, pensava, si serve la patria». Poi era arrivata Gerda Huber, la madre di Eva, ancora giovane e bellissima nonostante una vita spesa tra fornelli e taglieri, e lui aveva pensato: «È troppo bella per me. Bella da provocare dolore, da averne nostalgia pure mentre ce l’hai ancora davanti». Si amano e il lieto fine sembra possibile. Il regolamento dell’Arma, però, non consente ai familiari dei militari di dare “pubblico scandalo” e Gerda, oltre che madre nubile, è anche sorella di un terrorista. Terroristi strani, quelli della prima generazione di bombaroli altoatesini, «capaci di piangere se per errore moriva un innocente, uomini che conoscevano il valore della fatica per i quali un atto dimostrativo non vale una vigna distrutta e un contadino in rovina». Persone semplici: piccoli commercianti, meccanici, fabbri, contadini. Con in testa un unico obiettivo: il referendum di autodeterminazione che li avrebbe ricongiunti alla madre patria austriaca. Non la mera autonomia amministrativa per cui si batteva la Südtiroler Volkspartei, il partito dei sudtirolesi di lingua tedesca guidato da Silvius Magnago, scomparso lo scorso 25 maggio alla veneranda età di 96 anni, pochi giorni dopo la pubblicazione di questo romanzo in cui la figura del padre dell’autonomia appare in tutta la sua grandezza. C’è anche Eva bambina al raduno di Castel Firmiano del 17 novembre ’57, quando ad arringare le 30, 40mila persone (su una popolazione di neanche 300mila) che gridano «Los von Trient, los von Rom (via da Trento, via da Roma)» è proprio Magnago. «Chi rinuncia all’argomentazione verbale e ricorre ad azioni distruttive contro cose o persone, per quanto giuste siano le sue ragioni, si mette dalla parte del torto: ecco l’unico credo politico di Silvius Magnago – scrive la Melandri – ed egli non si era mai lasciato affascinare da nessuna delle ideologie di quel suo secolo di ferro e fuoco. Aveva visto fin troppo bene a cosa si arriva quando la politica cede il passo alla violenza: un pianeta in fiamme».
Sì, perché il meranese Magnago – già combattente con la divisa della Wehrmacht sul fronte russo, dove aveva perso una gamba e con essa ogni tentazione nazionalista – figlio di un magistrato trentino e di una altoatesina di lingua tedesca, aveva vissuto nella sua esperienza familiare l’integrazione come un arricchimento e la contaminazione culturale come un’opportunità. Non voleva un’autonomia a favore di un solo gruppo linguistico e a danno dell’altro, ma credeva in un’autonomia “territoriale” e aveva trovato in Aldo Moro (anche lui presente nel romanzo) l’interlocutore pronto a prendersi la responsabilità di un accordo che riconoscesse la difesa delle minoranze come un interesse nazionale. L’assemblea plenaria della Südtiroler Volkspartei, il 22 novembre 1969, approvò a maggioranza il “Pacchetto” – l’insieme di misure con cui lo Stato garantiva larga autonomia alla provincia di Bolzano – e attentati, bombe e morti cessarono. Un risultato storico, cui Magnago continuerà a lavorare come presidente della Provincia di Bolzano con una dedizione che gli conquistò la stima anche dei suoi più strenui avversari politici.
«Mia madre ha sempre avuto una venerazione per lui – racconta Eva – mentre noi giovani non l’avevamo così in simpatia, gli preferivamo il leader dei verdi, Alexander Langer (nella foto sopra), folletto visionario con denti da coniglio che per la nostra Heimat, ormai autonoma e sempre più ricca, sognava un’anima più grande, meno meschina, non un gretto apartheid di montagna». Un traguardo che passa per la riconciliazione dei popoli, nella consapevolezza che l’identità, per quanto possa essere antica e forte, se non sa aprirsi al confronto, è destinata a morire e a tradire così la sua vocazione più autentica.
Roberto Alfatti Appetiti

Quel terrorismo "dimenticato" dei primi anni '60
Articolo di Massimiliano Griner
Dal Secolo d'Italia di sabato 26 giugno 2010
La questione alto-atesina, che ha tanta parte nello stravolgere le vite dei protagonisti di Eva dorme, il bel romanzo d’esordio di Francesca Melandri qui sopra recensito da Alfatti Appetiti, è un fenomeno tuttora poco conosciuto, e di cui è stato scritto pochissimo. Una rara eccezione è Martiri invisibili di Mauro Minniti che al fenomeno guarda con occhi da italiano che vive in una regione ormai a statuto speciale, ma è indubbio che il contributo di Melandri rimanga il più importante. La storia inizia quando l’Italia, vinta la prima guerra mondiale, annette il sud Tirolo, zona etnicamente tedesca, volendone fare un cuscinetto difensivo contro l’Austria. Durante il fascismo il regime decide quindi di italianizzare la regione, sia favorendo l’immigrazione di italiani – che passano da meno di diecimila nel primo dopoguerra a oltre centomila nel secondo –, sia espellendo gli autoctoni che non prendono cittadinanza italiana (sono quasi 70.000 a trasferirsi nel terzo Reich). Per chi resta vengono imposti divieti odiosi, come parlare tedesco, mentre i toponimi originari vengono sostituiti con derivati dall’italiano.
Nel dopoguerra l’Austria non riesce a farsi restituire il Sud Tirolo, e anche se il fascismo è caduto, il trattamento iniquo nei confronti degli altoatesini nella sostanza non cambia. Non è quindi un caso se nel ‘56 il malcontento pone le condizioni per la nascita di un fronte di Liberazione locale, il BAS (Befreiungsauschuss Südtirol), il cui fine conclamato è la riannessione della regione all’Austria. Cominciano a svettare figure come Luis Amplatz, a Bolzano, e Georg Klotz, che più tardi diventerà noto come il martellatore della Val Passiria a causa della sua predilezione per il tritolo. Infatti, per dimostrare che non scherzano, nel ‘57 gli oltranzisti del BAS fanno saltare in aria la tomba del senatore Ettore Tolomei, l'ideatore della toponomastica italiana durante il fascismo. Il BAS mostra però tutta la sua forza e la sua potenzialità la notte del 12 giugno 1961, con un’ondata di attentati rimasta nota come “notte dei fuochi”. La prima esplosione avviene a Bolzano all'una di notte. Poi, nelle ore successive, le bombe mietono manciate di tralicci dell’alta tensione, lasciando il capoluogo al buio. Alcune cariche per fortuna non scoppiano. Una ad alto potenziale viene individuata nei pressi di una diga: se fosse esplosa, avrebbe provocato un disastro.
Seguono anni di attentati, rappresaglie, militarizzazione del territorio con la costituzione ad hoc di un corpo speciale dei carabinieri, che non si vedeva all’opera dai tempi del contrasto alla banda di Salvatore Giuliano. Un’escalation che ha un bilancio finale impressionante: 400 attentati, quindici caduti tra le forze dell’ordine, e due civili innocenti. L’episodio più grave avviene il 9 settembre del ’66 nei pressi di Malga Sasso, non lontano dal Brennero, quando i separatisti fanno saltare in aria una casermetta della guardia di finanza, uccidendo tre militari. I membri del BAS godono dell’appoggio dei servizi segreti austriaci, che non rimangono a guardare, ma giocano la loro partita favorendo gli oltranzisti, e fomentando gruppi di ultras neonazisti, il cui fanatismo è molto utile alla causa.
Oggi sappiamo che la risposta italiana fu molto spregiudicata, e non si limitò a trattare la faccenda come un caso criminale. Fino a Malga Sasso, l’irridentismo non costituiva una minaccia sufficiente perché lo stato potesse giustificare una dura repressione. Si optò quindi per trascinarlo su posizioni più estreme, lasciando mani libere agli elementi più estremisti e agli attentatori. E non si può escludere, anche se non vi è prova, che in alcuni casi siano stati i servizi segreti italiani a compiere alcuni attentati dimostrativi, per poi attribuirli agli irridentisti.
Ne è prova il caso del generale Beolchini, comandante del IV corpo d’Armata di stanza a Bolzano. Qualche tempo prima della “notte dei fuochi” Beolchini aveva segnalato ai servizi segreti di allora, il SIFAR, che qualcosa di grosso bolliva in pentola. Il SIFAR però non era intervenuto, e l’ondata di attentati si era puntualmente realizzata. In compenso Beolchini era stato destituito e inviato in altra sede.
Un altro episodio inquietante avvenne la notte del 7 settembre di quel 1964 a Malga Saltusio, in Alta Val Passiria, a due passi dal confine con l’Austria, quando in un casolare fu ucciso a colpi di pistola Luis Amplatz e gravemente ferito George Klotz, che riuscì a sfuggire e in seguito a espatriare. A sparare fu con ogni probabilità l’allora ventiduenne Christian Kerbler, un confidente dei servizi italiani infiltrato tra gli estremisti del BAS. Quella stessa notte Kerbler si consegnò alle forze dell’ordine che stavano facendo una battuta nella zona ma poi riuscì a fuggire, questa la versione ufficiale, lanciandosi dalla camionetta che lo stava portando a Bolzano. A quanto sembra troverà sicuro rifugio in Libano.
Oggi nessuno ha più dubbi che quella di Malga Saltusio fu una vera e propria trappola, frutto di un’operazione congiunta di polizia e carabinieri, non diversa da quella che aveva portato alla cattura, da morto, di Salvatore Giuliano. Inoltre viene fatto rilevare, non a torto, che se era stato possibile infiltrare Kerbler per assassinare i capi del BAS, sarebbe stato possibile infiltrare altri agenti per prevenire efficacemente attacchi sanguinosi come quello alla casermetta della Guardia di Finanza.
In questo quadro di violenza, e di graduale scomparsa delle più elementari norme del diritto, accaddero anche episodi estremamente gravi o che avrebbero potuto diventarlo. In Eva dorme è narrato l’episodio della mancata rappresaglia di Montassilone, il 13 settembre 1964, in val Pusteria. In seguito all’omicidio di un carabiniere, gli abitanti del borgo rischiarono di essere fucilati per ordine di un colonnello dell’arma che aveva perso la testa. L’eccidio fu evitato grazie a un suo sottoposto, un tenente colonnello che si rifiutò di obbedire all’ordine illegale, e che in seguito ne patì le conseguenze a livello di carriera.
Nel romanzo di Melandri l’ordine di eseguire la rappresaglia è attribuito al generale De Lorenzo, all’epoca comandante dell’arma dei carabinieri, ma è difficile credere a questa ipotesi. Se la strage fosse stata compiuta sarebbe stato uno straordinario strumento propagandistico nelle mani degli austriacanti, e per quanto De Lorenzo potesse essere spregiudicato nella gestione dell’Arma, certo non era né stupido né improvvido.
È invece indubbio che in Alto Adige si fecero le ossa molti personaggi che torneranno in scena quando la strategia della tensione assumerà una valenza nazionale. Non solo numerosi uomini chiave dei servizi segreti che negli anni successivi verranno indagati per il loro comportamento ambiguo, ma anche membri della pubblica sicurezza, come quel Russomanno dell’Ufficio Affari Riservati sospettato di aver impostato la pista anarchica dopo la strage di piazza Fontana, o il futuro capo dell’ufficio politico di Padova Molino, sospettato di favoreggiamento nei confronti della cellula neonazista di Franco Freda. Nel “laboratorio” dell’Alto Adige di quegli anni, attirati dall’atmosfera satura di tensione, muovono i primi passi anche figure di primo piano dell’estremismo neofascista, come Carlo Fumagalli, fondatore del misterioso Movimento di Azione Rivoluzionaria, l’ex repubblichino Eugenio Rizzato coinvolto nella congiura della Rosa dei Venti, e altri esponenti di Ordine Nuovo sospettati, in seguito, di aver giocato un qualche ruolo nella strage di piazza Fontana.
Massimiliano Griner
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