Dal Secolo d'Italia di martedì 23 novembre 2010
Sarà pur vero, come si ripete ormai da anni, che i vivai calcistici sono in crisi, che non si investe sui giovani come si dovrebbe, se non altro per mera lungimiranza, e che l’usato sicuro – il trentenne svincolato e a costi accessibili – monopolizza ormai il nostro asfittico calcio-mercato. Nello stesso tempo, però, non si può certo parlare di crisi delle vocazioni. Le scuole calcio, per la disperazione dei genitori più apprensivi, non sono mai state così frequentate e non c’è campetto di periferia che durante la settimana – che ci sia il sole o piova a tamburo battente – non si affolli di ragazzini entusiasti e pronti a tutto. I libri rimangano pure a casa a prender polvere. Mamma, papà, per fare i compiti c’è tempo e poi domani è una giornata facile e magari si troverà anche un quarto d’ora per tirare due calci nel cortile della scuola. Quello che conta è ritagliarsi una zona del campo e presidiarla. Che sia d’erba naturale o sintetica, di terriccio polveroso o fangoso, non importa. È questo, alla fine, il primo esercizio di libertà con cui ci si misura. Tutto il resto può aspettare e il mondo degli adulti s’accomodi pure sugli spalti a prender freddo, spettatore immobile e impotente.
«Fino all’età di otto anni non sapevo nulla della chimica del gioco e delle passioni che suscita, dello sfoggio di emozioni, abilità, sudore, malizie, corse, dribbling, finte, armonia eleganza, astuzia, colori, invidie, tristezze e gioie, vittorie e sconfitte, campioni e perdenti – scrive J.J. Armas Marcelo nell’incipit del suo bellissimo romanzo Il sogno del calciatore adolescente (66thand2nd, pp. 205, € 15) – ma quando assaporai il piacere di misurare l’universo con il pallone tra i piedi e gli occhi puntati verso la porta, qualcosa di grande e straordinario si svegliò in me, nell’anima addormentata del ragazzino che fino a quel momento non si era mai fermato a considerare che nella vita si fanno scoperte improvvise, capaci di cambiarla per anni o per sempre. La cosa più sorprendente, però, era quell’elasticità muscolare, scaturita da impulsi sotterranei e istinti naturali che non credevo mi appartenessero fino all’istante in cui non scoprii il calcio ».
Così lo scrittore spagnolo, classe ’46, racconta la scoperta del mondo attraverso la scoperta del calcio – «il primo piacere di cui abbia memoria» – nel romanzo, pubblicato in Spagna nel ’97 con il titolo Quando eravamo i migliori, e ora disponibile in italiano grazie a 66thand2nd, la piccola casa editrice romana specializzata in letteratura sportiva. Nell’isola di Gran Canaria, negli anni Cinquanta e Sessanta, un gruppo di bambini, poi ragazzi, cresce con una passione irriducibile per il calcio e la Union Deportiva, la squadra che rappresenta l’isola. Nella testa e nelle gambe un unico sogno: giocare un giorno nel grande Real Madrid, varcare la soglia del glorioso Bernabéu. L’autore è uno di loro e coronerà tale ambizione fino a indossare, neanche ventenne, la camiseta blanca della seconda squadra del Real nell’era pre-mourinhiana. «Eravamo una banda di giocolieri anarchici e libertari – ha detto lo scrittore – e da quando è arrivato Mou con i suoi modi duri siamo diventati una macchina da gol».
Di quella personale epopea a cavallo degli anni Sessanta, Marcelo racconta: «Tutti i giovedì ebbi la fortuna di sfidare i campioni della prima squadra. Passavamo ore a cercare di infilare il maestoso portiere Betancort e a rubare i segreti di vecchi campioni come Puskas e Gento. Poi quando ci incontrava in tribuna d’onore la domenica, capitava che Di Stefano ci offrisse una coppa di Champagne». Fino a capire che la sua strada sarebbe stata un’altra: diventare scrittore. «Persi un anno di università e per la vergogna cominciai a studiare come un matto». Famoso soprattutto in Spagna e in America Latina, Armas Marcelo ha all’attivo un’imponente produzione letteraria e sua è la prefazione al Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa nell’edizione spagnola. Apprezzato dai colleghi – Vargas Llosa è suo amico e maestro – malgrado questo capriccio del narrare di calcio. «Da allora – scrive in questo romanzo coinvolgente e commuovente – quello che ancora oggi suscita in molte persone del mio ambiente un rifiuto intellettuale, è stato per me una scuola di vita, un modo per imparare le regole del gioco dell’esistenza e affrontare le contese che ci oppongono gli uni agli altri con metodi essenzialmente pacifici. E anche se si fondava su una scala di valori discutibili, piena di inganni e interessi sospetti, il calcio mi ha insegnato a non disprezzare mai l’avversario, ma soprattutto a dare il giusto valore alle cose in un mondo confuso e ignoto in cui muoviamo i primi passi alla cieca, incapaci di distinguere i rischi calcolati dai meri azzardi, le visioni immaginarie dalle realtà autentiche».
Il sogno del calciatore adolescente racconta questo lungo apprendistato alla vita e il ruolo che il calcio ha “giocato” nell’educazione sentimentale ed estetica di tanti ragazzi a ogni latitudine, forgiandone i princìpi: l’attesa della giusta opportunità da parte di chi non ha nessuna intenzione di farsi trovare con le braccia conserte, l’attaccamento selvaggio alla propria terra, città o quartiere che sia, l’immaginario costruito attorno alle partite immortali dei grandi campioni, alle giornate spese in “curva” con gli amici che tali rimarranno per sempre. Oltre a questo, Marcelo restituisce uno spaccato fedele della Spagna franchista – il Real Madrid, del resto, fu uno dei simboli del franchismo – i cui echi arrivarono anche nelle isole Canarie, con le sue spiagge adibite a campi di calcio. Il tutto illuminato, oltre che dal sole, dall’amore per il calcio; anzi, dal “senso calcistico della vita”.
Roberto Alfatti Appetiti
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