Articolo di Italo Cucci
Dal Secolo d'Italia del 22 dicembre 2010
Il titolo me l'ha dato la gente. E mi ha stupito il ritorno di una parola che temevo perduta, una parola che piaceva a Longanesi, per i Vecchi Fusti, e a Montanelli, per scolpire i Busti al Pincio: galantuomo. Appena ho saputo che Enzo Bearzot, il mio "Vecio", era morto, l'ho comunicato agli amici di Facebook (ho anche questo difetto) e sono stato investito da una vera valanga di messaggi il cui tono era sempre lo stesso: se n'è andato un grande italiano, è scomparso un galantuomo. E anche: è morto un amico.
Ho ancora pudore a parlar del "Vecio" perché dopo che abbiamo vinto il Mundial di Spagna Ottantadue è stata tanta la gioia che ci ha accomunato, ma altrettanta la rabbia che abbiamo diluito soltanto in lunghi anni, mettendoci di mezzo anche un altro Mundial, questo buttato via nell'Ottantasei, nonostante il Messico - dove andammo a giocare con la cosiddetta Nazionale della Gratitudine, ma anche con molti sbarbatelli - evocasse il mitico Italia-Germania quattrattrè cantato anche dai mariachi nella Zona Rosa di Città del Messico. Il pudore, la riservatezza: erano le virtù di Enzo che in tanti anni di amichevole vicinanza solo raramente ha lasciato trasparire i sentimenti più forti, e l'ha fatto solo quando ha saputo che avevamo qualcosa in comune da confessarci; ma era anche il segreto del suo straordinario rapporto con i giocatori che credettero in lui fino in fondo e con lui costruirono un successo senza precedenti.
Storico: più del pur grande evento di Germania 2006 che vide sfilare - insieme ai campioni di Lippi - tutti i politiconi italiani, più o meno istituzionali, nella notte azzurra di Berlino e davanti al popolo del Circo Massimo. Perché quella sera dell'11 luglio '82, a Madrid, un vecchio italiano si mise a ballare di gioia nella tribuna d'onore del Bernabeu ed era il Capo dello Stato italiano Sandro Pertini, più che mai - in quelle ore - presidente di tutti gli italiani. Le risate, dopo, quando Enzo raccontava la partita a scopone sull'aereo che li riportava in patria, il confrontare le amate pipe, il dirsi cose semplici fra la massima istituzione del Paese e l'uomo che in quel momento il Paese adorava perchè aveva riportato in Italia il titolo mondiale assente dal 1938. Ci fu anche un momento di baruffa, col "Vecio", quando Minà gli dedicò un programma televisivo di tre ore dimenticando completamente Vittorio Pozzo, che di Mondiali ne aveva vinti due, e consecutivi, cosa mai più riuscita ad altri (e forse il motivo della recente dèbacle di Lippi, che voleva imitare il Grande Alpino): «Potevi ricordartene tu - dissi a Enzo - perché se è vero che con la vittoria di Spagna sei diventato amico di Pertini, devi sapere che con la vittoria di Francia Pozzo meritò la stretta di mano di Mussolini che ballava, sì, ma solo in famiglia». E lui - manco a dirlo: «Tasi mona».
Vinse contro tutti, Enzo Bearzot, e va ricordato proprio nelle ore in cui molti cercheranno di dimenticarlo. La guerra che i critici gli fecero fu tanto feroce che il successo non riuscì mai a cancellar del tutto gli insulti, mesi di derisione, bordate tecniche strampalate firmate anche dai grandi del tempo, Brera compreso, che si salvò in corner partorendo l'Idea della Squadra Femmina, ché così ribattezzò la Nazionale Mondiale di Bearzot illustrandone la qualità tutta italiana di saper attendere a braccia aperte l'avversario (o il conquistatore) per poi colpirlo fulmineamente in contropiede: fu la fine che toccò, in particolare, al tronfio Brasile di Falcao che, non pago del pareggio che l'avrebbe promosso al turno successivo, fu trascinato alla ricerca del gol della vittoria proprio da Paulo Roberto, garibaldino di Porto Alegre, epperciò condannato alla sconfitta. Non solo per i gol di Pablito Rossi ma anche per quella incredibile parata di Zoff all'ultimo istante di Italia-Brasile. Ho fatto due nomi, e potrei aggiungerne venti, per rappresentare tutti quegli "eroi" che Tosatti cantò in una edizione irripetibile di un giornale italiano, il Corriere dello Sport- Stadio, tirato in un milione e settecentonovantamila copie, tutte esaurite, con quel titolo "Eroici" che pur è passato alla storia. Fosse andata male, poteva esser totalmente diverso, forse "Conigli", perché in un suo libro Tosatti ha scritto che insieme a quell'editoriale famoso che cominciava «Alza in alto la Coppa, Dino, perché il mondo la veda...», ne aveva scritto un altro per la sconfitta. In fondo, non ci credeva proprio nessuno, alla vittoria, esclusi tre sciocchi: Amatucci, Baretti e Cucci, l'abc dell'Illusione. Vincemmo la partita ma fummo travolti dal corteo dei vincitori della ultim'ora saliti sul carro del "Vecio" cui un famoso giornalista di un grande giornale aveva dedicato un pensierino gentile: «Ha le meningi bollite». Perché aveva scelto Zoff, Gentile, Cabrini, Bergomi, Collovati, Scirea, Oriali, Tardelli, Conti, Graziani Rossi. E Zoff fu il suo paradossale portavoce nei giorni duri della polemica perché aggiungeva sostanziale al silenzio stampa; Gentile il picchiator cortese che fece fuori prima Maradona poi Zico; Scirea la naturale espressione della qualità tecnica e umana della squadra; Tardelli la passione e la rabbia esplose nell'urlo del Bernabeu più potente del Nessun dorma di Pavarotti; Conti il fantasista strepitoso che Enzo curava come un figlio, addirittura prendendolo in braccio nelle vigilie piene di ansia. E Rossi, il pallido ragazzo mortificato dagli insulti dei moralisti che lo volevano fuori dalla Nazionale (stessa scena con Buffon e Cannavaro alla vigilia del Mondiale 2006, forse gli stessi critici, ma non ho tempo per certe amare rivisitazioni): fu l'attenzione paterna del "Vecio", insieme alla sua intuizione tecnica, a farne il Pichichi del Mundial, il bomber ancora oggi nella leggenda del calcio.
Povero grande Enzo, con il suo stipendiuccio da panchinaro parastatale, attorniato da gufi e sirene, dal meglio della cialtroneria calcistica (e non solo) del Paese, in difficoltà più nell'ora della vittoria che in quella dell'impossibile sfida (dicevano). Gli arrivò un'offerta dagli Emirati, dopo la Spagna, e gli dissi accettala, scappa, gli italiani perdonano tutto tranne il successo, parola di u altro che di rospi ne ha ingoiati tanti, Enzo Ferrari. E lui a dire no, come faccio a lasciare i ragazzi, i ragazzi, i ragazzi, erano tutti suoi figli, gli pareva di fare venti orfani e finì per realizzare la non felice Nazionale della Gratitudine che a Messico '86 fu piegata fa Platini e oscurata da Re Diego Maradona ancora impegnato a gridare "Le Malvine sono argentine" mentre noi italianuzzi non avevamo alcuna voglia di riveder consacrato quel modesto tecnico friulano che in realtà aveva reinventato il calcio all'italiana con un pizzico di zona brasiliana. Noi piangiamo l'addio di Enzo Bearzot, oggi, ma soprattutto lo piangono i suoi ragazzi e i suoi corregionali, quei friulani che hanno dato da sempre grandi campioni e grandi uomini al calcio italiano, oggi in prima fila Zoff, Delneri, Capello, Reja, pronti anch'essi diventar "Veci". Mai come lui, però, che mi resta nel cuore con il suo mesto sorriso e per quella carezza che mi fece quando - dopo un periodo di forte incomprensione - diventammo amici. Ho sempre pensato - ma non gliel'ho mai detto - di esser stato anch'io uno dei suoi ragazzi.
Italo Cucci
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