Articolo di Luciano Lanna
Dal Secolo d'Italia del 3 dicembre 2010
Da qualche tempo tendiamo a distinguere tra nazionalismo e identità nazionale, tra una delle ideologie otto-novecentesche e un sano patriottismo che, compatibile nel quadro dell'orizzonte europeista, si tende da un po' a qualificare come "repubblicano".
Ma tutto questo non deve condurci all'equivoco storiografico di confondere il "nazionalismo ideologico", dall'evidente matrice giacobina e illuminista, con l'omonimo fenomeno tutto italiano che esattamente cento anni fa, dal 3 al 5 dicembre del 1910, con un Congresso a Firenze dava vita all'Associazione nazionalista. Trecento persone, per lo più intellettuali, vennero convocate nella città toscana da Gualtiero Castellini ed Enrico Corradini. Fra quanti parteciparono e fra quanti inviarono la loro adesione c'erano nomi di primo piano nell'ambito della politica, della cultura e del giornalismo militante.
Celebre il telegramma con il quale il poeta, di formazione anarco-socialista e carducciana, Giovanni Pascoli, invitava da Bologna a «riconquistare l'Italia all'Italia». E sarà lo stesso che quando, sull'onda del movimento nazionalista, s'avviava l'impresa di Libia, commenterà: «La grande proletaria s'è mossa». Tutto tranne che qualcosa di reazionario, di piccolo-borgese e di conservatore. Non a caso, uno dei nazionalisti più in vista, Luigi Valli, nel testo Che cosa è e che cosa vuole il nazionalismo, che venne distribuito dopo il congresso, spiegava non si doveva in alcun modo confondere il nuovo movimento culturale e politico italiano «col nazionalismo francese che - precisava - è una tendenza prevalentemente clericale, antidemocratica ed antisemita, rivestitasi di un bel nome, e che col nazionalismo italiano non ha nulla di comune». Del resto, all'appuntamento fiorentino non mancarono le adesioni di repubblicani e radicali e quelle, pure qualificanti, delle presidenze nazionale dell'associazione "Dante Alighieri", della "Lega Navale" e della "Trento e Trieste". A presiedere il congresso fu Scipio Sighele, uno dei pionieri in Italia della psicologia collettiva e della sociologia criminale, studioso di fama internazionale e irredentista che proponeva infatti una via democratica al nazionalismo.
A Firenze, in realtà, si volle fare il punto su tutto un fermento che dall'inizio del Novecento si era espresso attraverso le riviste Il Regno di Corradini, Il Marzocco (il cui titolo venne scelto da D'Annunzio) e Leonardo di Papini e Prezzolini. E tutti tendevano a considerare un precursore Francesco Crispi, l'ex garibaldino che diventato presidente del Consiglio con la Sinistra storica espresse un'orientamento geopolitico che guardava all'Africa e al Mediterraneo. Ma era stato già Giuseppe Prezzolini a spiegare sul Regno la "specificità" del nazionalismo italiano: «Io vorrei mostrare - scriveva - l'italianità del nostro pensiero, e stendere la mano a qualche scrittore che in opere poco lette aveva già espresso parte di quello che da noi si sostiene. Sarebbe infatti strano, e diciamolo pure, ridicolo, un nazionalismo d'imprestito. Noi non abbiamo bisogno di vivere a pigione nelle idee francesi o inglesi: noi non abbiamo bisogno né di Barrés, né di Chamberlain, né di Kipling. Noi possiamo rivolgerci a Gaetano Mosca e Vilfredo Pareto». E a proposito di intellettuali come Pascoli, va segnalato che l'autore del primo testo ufficiale dell'associazione nazionalista che abbiamo citato, Luigi Valli, era un dantista di fama internazionale, autore di saggi critici come La Chiave della Divina Commedia oppure il celebre Il linguaggio segreto di Dante e dei fedeli d'Amore. E Luigi Valli fu uno dei più espliciti a differenziare "quel" nazionalismo dal generico spirito patriottardo e da qualsiasi deriva consevatrice, avversario dichiarato di chi era incline a manovre parlamentaristiche e convergenze con i gruppi moderati e giolittiani. E lui, non caso, si schierò in prima fila nell'interventismo contro il neutralismo giolittiano. Potrebbe forse apparire strano che Valli , ghibellino dichiarato e con una passione per la figura di Federico II di Hohenstaufen, finisse per mobilitarsi a favore dell'entrata in guerra dell'Italia contro la monarchia asburgica e l'impero tedesco. Ma lo studioso intravedeva che ormai, in uno scenario storico proto-novecentesco in cui il vecchio Sacro Romano Impero era rimasto tale solo di facciata e in quanto copertura di una mera politica di potenza, i cosiddetti imperi centrali agivano, come tutte le altre entità politiche, ispirati e mossi solo dai criteri della propria convenienza dinastica o da interessi di natura economica.
L'altro aspetto di tutto quel fermento culturale e politico,che più avanti negli anni avremmo detto "metapolitico", fu il lanciare l'idea del Risorgimento quale "rivoluzione incompiuta". Su questo pressupposto i nazionalisti si riallacciavano alle tematiche di Sonnino e Franchetti, che per primi avevano teorizzato una soluzione africana per la "questione meridionale". ne scaturì un neo-meridionalismo che si proponeva di risolvere la questione meridionale in politica estera, attraverso la restituzione geo-politica del Mezzogiorno d'Italia alla sua tradizionale funzione di ponte tra Europa e sponda Sud del Mediterraneo. È il meridionalismo che si nutre, appunto, più che delle lamentazioni di Giustino Fortunato e di Gaetano Salvemini, del mito pascoliano della «grande proletaria» che si muoverà nel 1912 con la guerra al vecchio impero ottomano alla conquista della «quarta sponda» libica. «Il nazionalismo - spiegherà Paolo Arcari, uno dei convenuti a Firenze nel 1910 - è un patriottismo dialettico». Gli uomini del Risorgimento, aggiungeva, compirono nel 1870 il loro programma "minimo". E per afferrarne quello "massimo", lo stesso Arcari invitava a riflettere sul fatto che «Nino Bixio era morto nell'Oceano Indiano». Decisamente oltre il mito dell'Italietta. Guardando a un'Italia globale.
Luciano Lanna
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