Articolo di Mario Bernardi Guardi
Secolo d'Italia, 11 dicembre 2010
È il 1914, un italiano a New York. Si chiama Emanuel Carnevali ed è di origine fiorentina. Diciassette anni, «povero essere dalla testa grossa e dalle fragili spalle», si porta dietro una travagliata vicenda familiare. Una coppia ferocemente "scoppiata", quella dei suoi genitori, e prima ancora che lui nascesse: la mamma, Matilde Piano, buona e sensibile, ma in gravidanza diventata schiava della morfina; il babbo, Tullio, violento, geloso, capace, quando vivevano insieme, di picchiarla per ogni più piccolo pretesto.
Matilde muore nel 1907, affidando il bimbo alle cure della sorella Melania, anche lei con una storia di sofferenze e di abbandoni: ha due figli, Federigo e Leonardo, nati da padri diversi e irresponsabili. Uno scenario del genere sembra fatto apposta per partorire fremiti di rivolta. Mescolati a una nativa, istintiva tensione poetica alta e a un'oscura voglia di verità e di assoluto. Come dire, il seme del Novecento più creativo e distruttivo.
Quello che ancora ci turba, chiedendoci un "confronto" di cui forse non siamo ancora capaci. Ad ogni modo, è in questo "quadro" che il genio sregolato di Emanuel affila i suoi umori. Selezionati dalla pistoiese Via del Vento in un quaderno della collana "Le Streghe" (Il bianco inizio e altre prose memoriali, a cura di Francesco Cappellini, pp. 36, € 4), in sintonia con la scoperta adelphiana del poeta fiorentino, datata 1978, allorché la casa editrice milanese ne pubblicò liriche, saggi e racconti, con il titolo che Carnevali stesso aveva scelto per un romanzo autobiografico rimasto incompiuto (Il primo dio).
New York, primavera 1914. Emanuel si è «lasciato alle spalle una rete ormai disintegrata di relazioni affettive e sociali», non ha un centesimo in tasca, ma tanta fame e tanta rabbia in corpo. Fa mille mestieri - garzone, lavapiatti, cameriere ecc. - in un crescendo di abiezione, tra camere ammobiliate, strade malfamate, puttane malandate. Con malattie veneree al seguito. E una fame inestinguibile: «Io e la miseria ci accoppiavamo come due cani all'angolo di una strada». Ma… Ma «c'era sempre una piccola luce splendente che mi guidava attraverso l'America, questo paese nero: sapevo di essere un poeta e avevo in animo il desiderio di scrivere. Ce n'erano milioni come me; e se questi milioni avessero avuto una voce, sarebbe stata la voce di Dio...». Poi, un giorno, arriva suo fratello, il primogenito Augusto, quello che era stato affidato al padre e che ora è qui con lui, a condividere la miseria: e sono «due naufraghi su una zattera nel mezzo dell'oceano», tutti e due, però, «pieni d'Italia», come pieni d'Italia sono i loro discorsi e le loro risate. A vent'anni, nel 1917, Emanuel ha ormai imparato la nuova lingua che mai più abbandonerà, ha cominciato a vendere le sue poesie alla rivista The Seven Arts, si è sposato con una giovane emigrata di origine piemontese, Emilia Valenza.
Lui è un marito tenero, lei, una sposa adorante: ma il matrimonio durerà solo due anni. Si fa sempre più solida, invece, la vocazione poetica: Emanuel pubblica alcune poesie sulla rivista Poetry di Chicago, conosce e frequenta le avanguardie letterarie americane, stringe amicizia con William Carlos Williams e Carl Sandburg che gli apriranno le porte dell'altra rivista letteraria del momento, Others. Sono anni di fervore creativo: insieme ai suoi amici, Emanuel, vive l'avventura della creazione della dissipazione, con ebbrezze e furori che evocano Rimbaud e anticipano la "beat generation". «La poesia è la vita», proclama. La sua urgenza di "vero" lo spinge a scavare nel cuore della metropoli, in una cerca affannosa. Deve svelare, svelarsi. Non è questo lampo, la poesia? Gli incubi del passato pesano, fanno sanguinare il presente: «La follia verrà a sedersi accanto a me/ e mi passerà/ le mani nei capelli». Negli intensi "Cenni biografici" che ha stilato, Francesco Cappellini evidenzia questa oltraggiosa oltranza di Carnevali, ma ce ne mostra anche l'energia propositiva, perché Emanuel entra in contatto epistolare con i più importanti scrittori italiani del momento - Palazzeschi, Govoni, Saba, Slataper, Soffici, Papini - e per primo li fa "sbarcare" in America traducendoli in inglese.
È una vita in corsa: c'è da dire, da fare, da scrivere. A Chicago, dove si è trasferito, in una memorabile serata-party con gli altri artisti di Others, Emanuel, conosciuto come "the black poet", prorompe in una infuocata invettiva «contro i tecnici e i professionisti della poesia». Suscita scandalo, ma anche commossa ammirazione: ad esempio in William Carlos Williams che da quel provocatorio talento è colpito e incitato a percorrere nuove strade. Ma la "dannazione" incalza Emanuel. Con la foga autodistruttiva, la vita in strada da barbone mantenuto dalle prostitute, la sifilide, l'internamento in ospedale. Dove andare, come salvarsi? Per qualche tempo si rifugia sulle rive del lago Michigan e l'assalto del male pare allentarsi. Ma l'abisso è sempre lì, atrocemente invitante. Non può lavorare, le mani gli tremano. Gli amici gli pagano il biglietto della nave che lo riporterà in Italia, dove passerà da una casa di cura all'altra, col marchio della "psicopatia degenerativa" o "encefalite letargica". Eppure Emanuel non è finito, non finisce. Anzi, nel 1925 è tra i collaboratori di The Quartet, fondata a Parigi da Ernst Walsh, insieme a Gertrude Stein, Hemingway, Pound. Ed è proprio Ez a fare il nome di Carnevali in un'intervista a un giornale italiano, a commissionargli la traduzione dei primi Cantos, a lanciare un appello per quella giovane folgore spersa nel buio: un appello accolto dal ministro Federzoni che lo fa trasferire in un ospedale di Roma, dove si sta sperimentando una nuova terapia contro l'encefalite. Ormai, però, Emanuel è "una nera caverna", "una stanza chiusa". Dove il destino entra con un ghigno, facendolo morire strozzato da un boccone di pane l'11 gennaio 1942. Pane amaro e morte annunciata: una verità "cattiva", coltivata di poesia in poesia.
Mario Bernardi Guardi
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