Articolo di Federico Zamboni
Dal Secolo d'Italia del 9 gennaio 2011
L’album dell’exploit mondiale si chiamava City to City. Pubblicato all’inizio del 1978 e proiettato ai vertici delle classifiche da un unico brano che possedeva la qualità tipica dei grandi successi: ordinario quanto serve per piacere un po’ a tutti, straordinario quanto basta per imporsi al primo ascolto. All’origine, nella sua stesura per chitarra e voce, una ballata accattivante e nulla di più. Nella versione finale, grazie all’arrangiamento e a una singola idea brillantissima, un pezzo pressoché irresistibile. Trascinante ma per nulla sguaiato. Seducente ma non ruffiano. Uno di quelli su cui anche il più ottuso degli addetti ai lavori scommetterebbe a occhi chiusi, con la certezza di vincere.
La copertina, viceversa, non era niente di speciale. Si vedeva l’autore, un certo Gerry Rafferty, disegnato in mezzo a delle nubi. Lui era accovacciato e imbracciava la chitarra col manico rivolto in avanti, puntato dritto sull’osservatore. I capelli erano lunghetti ma ordinati, così come la barba che gli incorniciava il viso. Gli occhiali erano scuri, ma con le lenti colorate in uno strano marrone-rosa che riprendeva la tinta delle nubi. Una grafica elementare. Un’immagine rassicurante. E il singolo faceva anche di peggio, quanto a originalità: nient’altro che il disegno della faccia in primissimo piano, con gli occhiali cerchiati di rosso e le lenti a fare da cornice al suo nome, da una parte, e al titolo del brano, dall’altra.
Baker Street, appunto. Come l’indirizzo immaginario di Sherlock Holmes. Come la stazione della metropolitana di Londra in cui Rafferty era solito esibirsi prima che la musica si trasformasse in un lavoro a tempo pieno. Quando ancora non aveva alcun modo di sapere se ce l’avrebbe fatta oppure no. E se, in ogni caso, ne sarebbe valsa la pena. Se i pezzi della sua vita si sarebbero ricomposti in qualcosa di meglio del puzzle di partenza, con quel padre alcolizzato che era morto anzitempo, quando lui aveva appena sedici anni. «Dirigi i tuoi passi lungo Baker Street / luce nella testa e morte sui piedi / Beh, un altro pazzo giorno / Trascorrerai tutta la notte bevendo / e dimenticherai tutto / Pensavi che fosse molto facile / Dicevi che era molto facile / Ma ci stai provando, ci stai provando ora / Un altro anno e poi saresti stato felice / Soltanto un anno ancora e poi saresti stato felice / Ma stai piangendo, stai piangendo ora.»
Pensieri di quelli che sgorgano dal fondo di un momento di solitudine. Versi che si appoggiano a un’armonia semplice, che arriva da chissà dove ed è come se ti si sedesse accanto con la naturalezza di un amico. O di un fratello con cui vai d’accordo. O di una donna che non ti giudica. Che ti vuole così bene da aver smesso di farlo, e da restarti vicina ugualmente. Le labbra modellano le parole, le adattano con cura e quasi senza sforzo, le ripetono fino a far sì che il cervello le impari a memoria. Le dita accarezzano le corde della chitarra. Trovano le note. Inseguono il ritmo ideale per farle camminare/correre/fermarsi/riprendere. Camminano, e sembra che stiano per correre. Corrono, e sembra che stiano per alzarsi in volo. Danzano.
Ma alla fine è solo un’altra canzone. Bella ma non bellissima. Sincera ma non illuminante. Una tristezza già rivelata. Delle speranze comuni, persino modeste, quasi mediocri: «Lui ha questo sogno di comprare della terra / Ha intenzione di smettere con l’alcool e con le avventure di una notte / E allora si sistemerà in qualche piccola cittadina tranquilla / e dimenticherà tutto».
Alla fine è solo un’altra canzone... per ora. Perché poi, invece, succede il miracolo che la trasformerà in qualcosa di eccezionale. Il disegno è grazioso, ma è ancora un abbozzo. Mancano i dettagli. Mancano i colori. La chitarra era solo la matita. Il sax diventa il pennello che accende il dipinto e lo rende indimenticabile. Spande il colore con pochi rapidi tratti. In teoria dovrebbe aspettare che arrivi il suo turno, secondo il classico schema che colloca gli assolo nella parte finale. Invece no. Questa volta sarà diverso. Questa volta è diverso. Pochi secondi di introduzione e ancora prima della voce irrompe il sax. Brucia le tappe. Dice (afferma) che non bisognerà lasciarsi ingannare dalle apparenze, nell’ascoltare quel che segue. La chitarra suonerà accordi gradevoli, il cantante srotolerà parole con un che di già sentito: ma si tratterà solo di quello che sta alla superficie. C’è un’emozione più forte, là sotto. C’è un dolore più acuto da tenere a bada. C’è un destino che per ora si accontenta di restare a guardare e che concede ancora tempo, prima di tirare i fili e di serrare i nodi. Anche se un giorno lo farà. Eccome, se lo farà.
Molti non lo direbbero in questo modo. O non lo direbbero affatto, perché non hanno nessuna voglia, o nessuna necessità, di trasformare i suoni in concetti. O di interrogare le proprie emozioni per vedere che cosa nascondono. Ma intanto ascoltano quel sax e se ne innamorano. Lo vogliono accanto a sé, come un ciondolo che fa piacere avere sotto mano. Metà ornamento e metà portafortuna. Metà gioia di possederlo e metà malinconia di averne perso uno che in un certo senso gli assomigliava. Un pezzo unico, purtroppo. Un regalo di una persona a cui tenevano molto. Moltissimo.
Baker Street esplose così, in quello scorcio iniziale del 1978. A trentun anni Gerry Rafferty, nato in Scozia ma di padre irlandese, si ritrovò catapultato in cima alle Hit Parade non solo inglesi ma anche statunitensi. Il singolo fece da traino all’album. E avrebbe potuto diventare davvero il passepartout che apre tutte le porte, e non solo per un anno o due ma a lungo termine. Senonché – per quanto possa sembrare paradossale da parte di un artista che aveva iniziato esibendosi per strada – Gerry non amava suonare in concerto. E se non suoni dal vivo le tue chance, specialmente negli Stati Uniti, si riducono al minimo. City to City era arrivato in cima, Night Owl (1979) si fermò al 29esimo posto, Snakes & Ladders (1980) al 61esimo. Nel giro di due anni era tutto finito, quanto meno sul mercato americano. In Inghilterra il declino fu un po’ più lento, ma altrettanto definitivo. Il penultimo album apparve nel 1994, l’ultimo nel 2000.
Gerry scivolò nell’oblio e sprofondò nell’alcol. Un paio d’anni fa si diffuse addirittura la notizia infondata della sua morte. E sempre un paio d’anni fa lui stesso preannunciò l’uscita di un nuovo disco. Invece, martedì scorso, si è spento nella sua casa nel Dorset, nel Sud dell’Inghilterra.
Federico Zamboni
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