Articolo di Gianfranco Franchi
Dal Secolo d'Italia del 21 gennaio 2011
«Vengo da un'isola e da una famiglia che hanno rafforzato in me l'identità di americano periferico, outsider, alieno nel mio stesso paese. Ho origini italiane. Sono figlio di un sarto calabrese burbero ma gentile e di un'italoamericana intraprendente e amabile che ha mandato avanti con successo la nostra impresa famigliare di sartoria. Sono stato educato dalle suore e dai preti cattolici irlandesi in una povera scuola confessionale sull'isola di Ocean City, New Jersey, dove sono nato nel 1932», racconta Gay Talese in uno dei frammenti più intensi di questo libro, Frank Sinatra ha il raffreddore (Rizzoli, pp. 316, € 12), una brillante e personale antologia dei suoi articoli.
Sono ritratti di grandi eroi pop americani decaduti o in decadenza, o diventati personaggi laterali, tendenzialmente figli del popolo assurti a un'improvvisa e inattesa gloria. Il grande giornalista americano è convinto che ciascuno dei suoi pezzi rifletta la sua sensibilità e la sua prospettiva di outsider nato nella piccola provincia yankee: e che la sua visione del mondo sia sostenuta da qualcosa di diverso rispetto a molti altri colleghi, vale a dire «dall'essenza delle persone e dei posti che mi sono lasciato alle spalle, la gente trascurata, quella che non fa notizia». Talese racconta che questo approccio è nato imparando a osservare e ascoltare gli avventori del negozio dei suoi, quando era piccolo: e s'è sviluppato tenendo presente l'esempio di quei grandi narratori capaci di raccontare storie popolari senza nessun artificio. Sono pezzi già apparsi su Esquire, Times, New Yorker e Harper's Magazine, magari negli anni Sessanta, ma hanno mantenuto grande freschezza e vivacità. Soprattutto negli scambi di battute Talese fa respirare qualcosa di piacevolmente realistico, e di difficile da rappresentare: vale a dire le esitazioni, le pause, i cambi di ritmo, convinto com'è che tutto ciò che una persona esita a dire, dal vivo, vada raccontando molto della sua interiorità, del suo stato d'animo e delle sue intenzioni. Nel libro c'è qualche articolo che ha già acquisito il respiro del grande classico, come l'eponimo "Frank Sinatra ha il raffreddore", come "La stagione silenziosa di un eroe", dedicato a un Joe Di Maggio che invecchia con stile impeccabile e non dimentica la sua infanzia tra i pescatori italiani emigrati negli States, o come "Alì all'Avana", che racconta dell'ex campione ormai malato che sbarca nell'isola per salutare un altro vecchio combattente sopravvissuto: Castro. Sono articoli che vanno documentando non soltanto momenti intensi, grotteschi o commoventi di artisti o atleti che hanno avuto e hanno ancora adesso grande valenza simbolica: ma vanno raccontando tanto di una cultura e di una società occidentale capace di fondere ingenuità bambinesca e assoluta grandeur, come quella americana. Esemplare, in questo senso, la vicenda della generazione di artisti e borghesi che volevano essere Hemingway e finivano a Parigi a fingersi poveri per non pagare i conti, e a mescolarsi con puttane, jazzisti e poeti omosessuali ("In cerca di Hemingway"), in cerca di emozioni forti a buon prezzo. Paradigmatica. Non mancano, come in "Quando avevo venticinque anni", consigli alle giovani leve del giornalismo e della scrittura. Il primo è forse il più prevedibile, e il più coerente con la sua storia autoriale: «Secondo me l'unica qualità essenziale è la curiosità, e la forza di evadere e di conoscere il mondo e le persone che conducono vite straordinarie o che occupano posti oscuri. Ho ampliato questo concetto scrivendo libri sulle mogli dei mafiosi (Onora il padre), sui paladini dell'amore (La donna d'altri), sui sarti immigrati (Ai figli dei figli), gli operai siderurgici ad alta quota (The Bridge)». Il secondo consiglio, invece, è più spiazzante, coraggioso e intelligente. «Mai scrivere per soldi». È il consiglio che Talese ha tenuto presente nonostante tutto, nonostante l'epoca malata di profitto e di avidità in cui viviamo: è stato il suo grande punto di riferimento nei momenti di maggiore difficoltà della sua carriera, e in quelli che hanno richiesto precise scelte di vita. È stato un principio importante per scrivere un pezzo intelligente, atipico e spiazzante come quello sulle centinaia di migliaia di gatti vagabondi a New York, quando era a inizio carriera. La loro esistenza e la loro storia era sotto lo sguardo di tutti, ma nessuno sembrava saperlo raccontare - e nessuno poteva raccontarlo con lo stile di Talese. Lui era uno che aveva capito che quando il traffico per le strade si dirada e la gente dorme, certi quartieri della città cominciano a brulicare di gatti. Qualcuno riesce a vederli, mentre vagabondano attorno ai palazzi: ma mai abbastanza a lungo. Nessuno ha capito, a differenza sua, che i gatti di strada sono divisi in tre gruppi: i selvatici, i bohémien e i gatti che lavorano part-time nel negozio di alimentari o al ristorante. Non stupisce che uno così abbia scritto un pezzo come "New York è una città di cose che passano inosservate": il suo è giornalismo poetico. L'incipit brucia. «New York è una città di cose che passano inosservate. In questa città i gatti dormono sotto le auto parcheggiate, due armadilli di pietra si arrampicano su per i muri della cattedrale di San Patrizio e migliaia di formiche si radunano in cima all'Empire State Building. New York è il paradiso degli eccentrici e una miniera di notizie curiose». In quella città esistevano (e forse esistono) i "portieri senza porta", figure grottesche che andavano, guardinghe e senza uniforme, per i marciapiedi ad aprire lo sportello delle auto nei posti giusti, di fronte a un teatro o a una mostra o a una convention, in cerca di buona mancia. E in quella città, si poteva divinare la storia d'un generale dalla sua statua equestre: dalle zampe del cavallo. Se entrambe erano sollevate da terra, significava che era morto in battaglia; se una sola era sollevata, significava che era morto per le ferite ricevute; se tutte e quattro erano poggiate a terra, era morto vecchio e tutto tranquillo nel suo letto. Da privilegiato. Ecco: Talese racconta ciò che tutti possono vedere ma nessuno osserva; nessuno comprende a fondo; qualcuno fraintende, altri lasciano andare. O rimuovono. E quando gioca, come nel caso di Frank Sinatra, a fare satira d'un'icona, riesce a farlo con una grazia unica. Per esempio, così: «Sinatra era malato. Era vittima di un disturbo così comune da essere per molti trascurabile. Ma quando affliggeva Sinatra, quell'indisposizione poteva precipitarlo in uno stato d'angoscia, di depressione profonda, panico e perfino rabbia. Frank Sinatra aveva il raffredore. Sinatra col raffreddore è come un Picasso senza colori, come una Ferrari senza benzina». E detto questo Talese può dire che Sinatra è come un boss, è come uno di quegli uomini che in Sicilia vengono molto rispettati, diciamo così, quelli che si scomodano di persona per raddrizzare i torti: è andata, è riuscito a pizzicare i suoi punti deboli senza negarne la grandezza: è riuscito a mostrare i suoi limiti senza ferirlo. E così accade quando scrive di un pugile come Floyd Patterson, che cerca di ricostruirsi dopo la lezione sofferta per mano di Sonny Liston e spiega quanto sia splendido e umiliante al contempo andare knock-out: Talese sembra sempre vicino agli sconfitti. Sa interpretarli con profonda intensità. La sua è una lezione che in Italia tendiamo tutti a dimenticare. Combattere è fondamentale: perdere può succedere, vincere può capitare. Ma combattere è tutto. E fa letteratura.
Gianfranco Franchi
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