Articolo di Federico Zamboni
Dal Secolo d'Italia del 2 gennaio 2011
Volete bene alla musica? Smettete di comprarla, almeno per un po'. Oppure no: continuate a comprarla, ma smettete di rincorrere le novità. Che oltretutto lo sono, sempre più spesso, solo di nome e non di fatto. Smettete di stipare i vostri i-pod di centinaia di brani da farvi rimbombare nelle orecchie in ogni dannato minuto della giornata.
Vi sbagliate di grosso, se credete che il termine "sottofondo" dipenda dal volume: dipende dall'attenzione. Dalla capacità o meno di sorprendersi ancora davanti a una combinazione di note o di parole. Dall'incapacità di attraversare il silenzio senza paura, senza temere che in quel vuoto esterno risaltino le carenze, gli errori, i vuoti di memoria - e di armonia - della propria orchestra interiore.
Non vi illudete: non è una provocazione. Non lo è per niente. E il fatto che cadrà nel nulla, essendo ovvio che una paginetta di giornale non può competere col potere di seduzione e di manipolazione dei grandi media radiofonici e televisivi, non diminuisce di un niente la sua assoluta serietà. Anzi: semmai conferma la portata del problema. E l'estrema urgenza di risolverlo. L'estrema difficoltà di riuscirci. Il primo articolo dell'anno scorso, in questo stesso spazio, era dedicato allo sconfortato giudizio di Simon Reynolds (nella foto), critico inglese di grande fama e particolarmente attento a cogliere i fenomeni nel loro insieme (vedi i suoi Post-punk 1978-1984 e Hip-hop-rock 1985-2008), a proposito del degrado che ha colpito anche quest'ambito, più che mai affetto da una crisi di abbondanza in cui la quantità ha fatto strame della qualità. In cui l'assunto fondamentale del marketing, secondo il quale la novità è un valore in se stesso, ha fatto dimenticare che il criterio di giudizio significativo non è affatto quello del "nuovo" e del "vecchio", in senso puramente cronologico e fintamente oggettivo.
Il calendario che conta davvero è quello individuale. Non avete mai sentito The Musical Box dei Genesis? O The End di Jim Morrison (e dei Doors)? O Boom Boom di John Lee Hooker? Vero: avete perso l'occasione di incontrarli nel momento in cui erano parte integrante della loro epoca - e la permeavano, e ne erano permeati, nell'incessante gioco di rimandi della realtà collettiva che si dipana in cerchi concentrici - ma a parte questo dovete solo rallegrarvi. Sono frammenti di un patrimonio immenso, e tuttora prezioso, che attende solo di essere (ri)scoperto da chiunque non abbia già avuto la fortuna di apprenderne l'esistenza, e di pescarvi a piene mani.
Simon Reynolds, giustamente, non si limitava a stigmatizzare la pochezza della produzione discografica nei primi dieci anni del nuovo millennio, affermando che «il decennio pop che volge al termine è stato un passaggio a vuoto». Si spingeva ben oltre. Arrivando a porre la questione, cruciale, della perdita di significato della musica nella vita delle persone che comunque la ascoltano-scaricano-acquistano in quantità massicce: quella che un tempo era stata una dimensione essenziale del proprio modo di essere, e di sentire, si è ormai ridotta a uno svago come tanti altri. In apparenza può anche sembrare una presenza tutt'altro che marginale, visto che in fondo sono ancora in parecchi a imparare a memoria i testi dei pezzi più amati o addirittura a iscriversi a questo o a quel fan-club. In realtà manca della sua prerogativa migliore: il desiderio di espandere la propria conoscenza di sé e degli altri, attraverso la percezione di stati interiori sconosciuti e sorprendenti che prefigurano, rivelando scenari inattesi e sfolgoranti, la vastità e i tesori di ciò che ignoriamo. La propria tana è rassicurante, ma resta angusta. L'ignoto può mettere i brividi, ma è l'unica strada verso il Cielo.
Uno degli ultimi articoli del 2010, pubblicato il 12 dicembre, riprendeva invece le parole di Franco Mussida, fondatore e tuttora membro della PFM.
I più attenti se le ricorderanno: «Oggi intorno alla musica popolare contemporanea si avverte un senso di stanchezza, una specie di depressione. Dove sono finiti i valori, le immagini, che hanno fatto da colonna sonora e da sfondo a più di una generazione? Sembra tutto perduto, forse anche per colpa nostra: abbiamo consumato "quella" Musica senza lasciarne neanche un briciolo a chi è arrivato dopo. Si è lasciato fare al Mercato e all'Industria». Si è accettata la versione più facile: quella che blandisce invece di scuotere, che mette così tante cose a portata di mano che ci si dimentica che la comodità è un'arma a doppio taglio. Gli scaffali sono pagine di un catalogo predisposto da qualcun altro. Le vetrine sono spot pubblicitari cristallizzati in un singolo fotogramma. Il messaggio è lo stesso: noi venditori abbiamo tutto quello che ti serve, e lo abbiamo qui. Non hai nessun motivo di allontanarti. Nessun motivo di fare lo sforzo aggiuntivo, dopo una giornata o una settimana di lavoro nevrotico e di vita stressante, di immaginarti qualcos'altro e di andartelo a cercare chissà dove.
Come ha scritto Thomas Pinchon, «se continuano a fare le domande sbagliate non dovranno preoccuparsi delle risposte». Vale in ambito politico. Vale in ambito economico. Vale in ogni altro contesto in cui ci sia da squarciare il velo dei luoghi comuni e delle pseudo verità date per certe. La "domanda sbagliata", in campo artistico, è se il tale disco, il tale libro, il tale film, ci piacciono. Prima ancora di rispondere bisognerebbe domandarsi che cosa si intende: vogliono sapere se ci ha interessati e coinvolti, fino a farne un punto di partenza per nuovi percorsi e nuove scoperte, o solo che corrisponde alle nostre aspettative, ovverosia alle nostre abitudini?
Il circolo vizioso, oggi, è che l'arte si è confusa con la comunicazione di massa. La cultura con l'intrattenimento. Il dibattito coi talkshow. La complessità terrorizza. La necessità di studiare a fondo e di riflettere a lungo, prima di dire la propria su un qualsiasi argomento, è esclusa a priori: ti piace il tale disco, il tale libro, il tale film? Ti piace il tale partito? E il tale leader? Il sondaggio è permanente, anche quando resta implicito. L'unica risposta davvero libera è rifiutare la domanda. L'unica musica davvero importante è quella che fa venire voglia di guardare più lontano. Anzi, di andarci.
Federico Zamboni
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