"Un fenomeno di nome Ibra". Viaggio negli ultimi decenni tra calcio, musica e letteratura
Dal Secolo d'italia del 18 gennaio 2011
Se a Zorro, per apporre la sua celebre firma, occorrono tre graffi, sia pure rapidissimi, a Zlatan Ibrahimovic domenica ne è stato sufficiente uno per calare la sua zeta su San Siro. Un’occhiata fulminea, predatoria, e una zampata da oltre venticinque metri che ha lasciato di stucco l’incolpevole portiere del Lecce.
Come l’eroe mascherato – l’ormai novantenne titolare dell’ultima consonante del nostro alfabeto – Ibra, non a caso cintura nera di Tae Kwon Do, si è rivelato una volta di più troppo astuto per i suoi avversari.
Come l’eroe mascherato – l’ormai novantenne titolare dell’ultima consonante del nostro alfabeto – Ibra, non a caso cintura nera di Tae Kwon Do, si è rivelato una volta di più troppo astuto per i suoi avversari.
Il paragone con uno dei più celebri personaggi dell’immaginario potrà sembrare azzardato, ma una cosa è certa: rispetto ai suoi colleghi, Ibracadabra – come l’hanno battezzato i commentatori sportivi – è un extraterrestre, un fenomeno talmente snodato da sembrare un fumetto. E Un fenomeno di nome Ibra (Castelvecchi Ultra-Sport, pp. 190, € 14,90) si intitola il libro, da poco arrivato in libreria, scritto da Michele Monina, ultimo di una interessante trilogia sul calcio contemporaneo, iniziata nel 2008 con Ultimo stadio, viaggio tra i tifosi in Italia (Rizzoli) e Milito, faccia da bomber (Castelvecchi).
Non una semplice biografia, perché accanto alla ricostruzione puntuale del percorso sportivo di Ibra, c’è la godibile rilettura “trasversale” dell’immaginario collettivo degli ultimi decenni a cavallo tra calcio, musica e letteratura. A partire dall’inizio degli anni Ottanta, con una coincidenza di date «dal sapore esoterico» a unire il destino di due acrobati del calcio, uno immaginario e l’altro reale, uno piccolino – nel solco di una tradizione che sostiene come occorrano gambe corte per giocare bene – e l’altro gigantesco nel suo metro e novantadue di altezza. «Sì, perché il 1981 – scrive Monina – vedeva scendere sul pianeta terra sia Holly Hutton che Zlatan Ibrahimovic, entrambi destinati a vestire i colori blaugrana del Barcellona». La curiosa coincidenza, sottolineata dallo scrittore anconetano, è che il manga giapponese da cui poi nacque l’omonimo cartoon, intitolato originariamente Capitan Tsubasa, è stato pubblicato da Yoichi Takahashi negli stessi giorni in cui Ibra nasceva a Rosengaard, “ghetto” balcanico adiacente a Malmoe, la terza città di Svezia.
Fine della metafora: il campione svedese non combatte, come Zorro, in nome della povera gente e della giustizia. Né, come Holly, è mosso dall’orgoglio di giocare nella sua nazionale. Rom dell’etnia Korakhanè proveniente dalla Bosnia-Ervegovina, Ibra «è uno svedese dal nome e dall’aspetto molto poco scandinavo. Uno svedese di oggi, appunto – scrive Monina – che mai potremmo immaginare farsi emblema di uno spirito nazionalista esasperato, come il Dejian Stankovic di una mai giocata Italia-Serbia, o prima di lui di un Sinisa Mihajlovic, passato alle cronache per la sua amicizia con il criminale di guerra Zeljko Raznatovic, capo delle Tigri di Arkan. Ibra non ha patria e sembra non volerla avere».
Alla fine dei conti, Ibra non gioca per la maglia che indossa – pronto a rinnegare con disinvoltura a ogni trasferimento di città e relativi colori sociali – e neanche per i tifosi, che pure lo applaudono, lo venerano e inevitabilmente finiscono per odiarlo al momento dell’addio.
«Uomo senza maglia e senza paura», lo definisce Monina. «Gli altri corrono, io gioco», questa battuta di Ibra la dice lunga sul suo carattere irriverente e sfrontato, sempre sopra le righe. Tanto sbruffone da presentarsi ai suoi compagni di squadra dell’Ajax, malgrado fosse alla sua prima esperienza importante, con una battuta che sembra citare il marchese del Grillo interpretato da Alberto Sordi: «Io sono Zlatan e voi chi cazzo siete?».
Dalla casacca biancorossa della squadra olandese a quella bianconera – che si sfilerà prontamente quando la Juventus verrà retrocessa in serie B – per poi indossare la maglia dell’Inter e infine (si fa per dire) quella rossonera con cui ha già segnato quindici reti. «Sono tornato per vincere tutto», ha detto e c’è da credergli. Pochi come lui sanno fiutare la vittoria, inseguirla con la sua stessa fredda determinazione.
Numeri spettacolari, colpi a effetto, dribbling ubriacanti quanto urticanti per gli sventurati che mette a sedere, gol da cineteca come quello segnato domenica, che ha disegnato sul volto di Adriano Galliani, l’amministratore delegato del Milan, una comica espressione di incredulità. Sorprende la genialità ma anche il furore agonistico, la “cattiveria” nei contrasti in cui non toglie mai la gamba ma semmai la alza laddove nessuno può arrivare. A Fabio Capello, suo allenatore alla Juventus, che gli raccomandava di fare giocate semplici, rispondeva seccamente: «Se vuoi qualcuno che faccia giocate più semplici, sostituiscimi».
«Non ha nessuna remora ad abbattere monumenti, se non addirittura divinità, della recente storia della squadra per in cui gioca», scrive Monina commentando la polemica in diretta tv avuta recentemente con Arrigo Sacchi. «Quando uno parla troppo, parla troppo – l’ha ammonito Ibra – e tu sei uno di loro. Io faccio il mio gioco, se non ti piace non mi guardi».
Abituato a zittire pubblico e critici con gesti e parole eloquenti, ancora più duro è stato con il giornalista che – dopo la pubblicazione di una foto in cui era in atteggiamenti affettuosi con il compagno del Barcellona Gerard Piquè – gli chiedeva se era gay.
«Vieni a casa mia con tua sorella e ti faccio vedere». Politicamente scorretto, certo. Un mercenario, certo, ma nell’era del calcio miliardario subappaltato alle televisioni e agli sponsor chi non lo è? Ma anche un campione animato da un furioso senso di rivalsa, un Billy Elliot cresciuto troppo e troppo in fretta, che non dimentica da dov’è partito e che, senza clamori, ha fatto realizzare nel suo paese di nascita un centro sportivo per i ragazzi.
«Vieni a casa mia con tua sorella e ti faccio vedere». Politicamente scorretto, certo. Un mercenario, certo, ma nell’era del calcio miliardario subappaltato alle televisioni e agli sponsor chi non lo è? Ma anche un campione animato da un furioso senso di rivalsa, un Billy Elliot cresciuto troppo e troppo in fretta, che non dimentica da dov’è partito e che, senza clamori, ha fatto realizzare nel suo paese di nascita un centro sportivo per i ragazzi.
Roberto Alfatti Appetiti
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