Articolo di Annalisa Terranova
Dal Secolo d'Italia del 12 giugno 2011
Resiste, nell'immaginario italiano, la figura del professore alieno dalle canzonette e anche dalle canzoni d'autore, che lasciano fuori le cattedre per guardare la scuola con l'occhio irriverente di chi è costretto ai "banchi forzati": perché sono i ragazzi che consumano musica, mica i docenti. E anche quando sono i professori a cantare, come nel caso di Roberto Vecchioni, cantano sempre per loro, per i giovani.
La scuola è una cosa seria, ma può tranquillamente essere oggetto di parodia, come avviene nella filastrocca La classe degli asini, lanciata da Natalino Otto nel 1948 e poi riproposta da Renzo Arbore: «Tutti i ripetenti della classe Terza D/stan studiando il sillabario/ ripassando l'ABC./ Entra il professore/ con gli occhiali e il cravatton/ ahi ahi ahi con quel registro/ ci sarà interrogazion! Signorina Maccabei/ venga fuori dica lei/ dove sono i Pirenei?/ Professore io non lo so, lo dica lei...». Professore che alla fine non sa rispondere alla domanda delle domande: è nato prima l'uovo o la gallina? L'Italia appena uscita dal dramma della Seconda guerra mondiale aveva anche bisogno di leggerezza... Ma per arrivare al ricordo delle aule dove si incrociavano i primi sospiri e le prime occhiate amorose bisognerà arrivare alla canzone di successo Lisa dagli occhi blu di Mario Tessuto (1969): «Classe seconda B/ il nostro amore è cominciato lì, /Lisa dagli occhi blu/ senza le trecce non sei più tu...». E così Lisa diventa l'immagine nazionale del primo amore scolastico, quello che trafigge subito dopo aver archiviato i grembiulini e i cestini con la merenda predisposta da mamme operose, ancora non risucchiate dal mondo del lavoro. Un'immagine che si dissolve nel "fumo delle barricate" dei licei postsessantottini, quelli dove «Nietzsche e Marx si davano la mano», in un'atmosfera di contestazione agrodolce rievocata da Antonello Venditti in uno dei suoi capolavori, Compagno di Scuola (1975): «Davanti alla scuola tanta gente/ otto e venti, prima campana / "e spegni quella sigaretta" /e migliaia di gambe e di occhiali / di corsa sulle scale. / Le otto e mezza tutti in piedi / il presidente, la croce e il professore / che ti legge sempre la stessa storia / sullo stesso libro, nello stesso modo, /con le stesse parole da quarant'anni di onesta professione...».
Ma è la stagione delle troppe domande, domande che «non hanno mai avuto una risposta chiara». Domande inascoltate e trascurate dalle certezze granitiche frutto dell'ubriacatura ideologica. Gli anni Settanta sono quelli della dissoluzione senza ricostruzione, che lasciano sul terreno involucri ormai senza sostanza, in cui è difficile riconoscere i ruoli: quello di chi aveva l'autorità e quello di chi quell'autorità non è più disposto a riconoscerla. Cantare la scuola diventa lirica proustiana, l'impegno si stempera e si addolcisce nei brandelli del ricordo, come nella canzone di Franco Battiato Campane tibetane (1983): «Marinavamo la scuola, correndo dietro alle farfalle, entrando in punta di piedi, letti di ottone a baldacchino: non scorderò». Oppure assume i toni rabbiosi di un rifiuto "spericolato" e dal sapore un po' nichilista. Così cantava Vasco Rossi nel 1987: «La ragazza mi ha lasciato, è colpa mia! Sono stato anche bocciato e non andrò via. Passerò tutta l'estate qui! ... compresi i lunedì! ... quelli li odio di più... non lo so, ma è così! ODIO I LUNEDÌ». Stesso anno, ma un testo molto diverso quello di Luca Carboni, Silvia lo sai, in cui la scuola non evoca né passioni né amicizia ma solo una desolante indifferenza dei "grandi": «I professori non chiedevano mai se eravamo felici...». E chissà se dopo quell'atto di accusa in cattedra qualcosa è cambiato. Non molto a giudicare dalla canzone d'esordio di Francesco Tricarico, dove c'è la descrizione di due isole tra loro lontane, senza ponti che aiutino a comunicare: l'insegnante che non sa fare il suo mestiere, il bambino che vuole avere solo il diritto al dolore: «Buongiorno buongiorno io sono Francesco/ io ero un bambino che rideva sempre/ ma un giorno la maestra dice oggi c'è tema / oggi fate il tema, il tema sul papà/ io penso è uno scherzo sorrido e mi alzo / le vado vicino ero contento / le dico non ricordo mio padre è morto presto / avevo solo tre anni non ricordo non ricordo / lei sa cosa mi dice neanche mi guardava / beveva il cappuccino non so con chi parlava / dice "qualche cosa qualcosa ti avran detto / ora vai a posto e lo fai come tutti gli altri" / puttana puttana, puttana la maestra...». La presa d'atto che la scuola non sforna modelli né esempi, come canta Max Pezzali in Tutto ciò che ho (2002): «Avrei voluto essere / come il capoclasse che avevo/ quando andavo a scuola / che esempio era per me / avrei voluto come lui / non avere mai un dubbio, / un cedimento, un'incertezza / e non menarmela mai / poi ho capito che ogni mattina / io c'ero sempre, / ero sempre con me. / Se sono giusto oppure no, / se sono a posto o pessimo, / se sono il primo o l'ultimo, / ma sono tutto ciò che ho». Finché la scuola non diventa anch'essa lo specchio deforme di un mondo "storto", una società dove non c'è più senso e dirlo non fa scandalo, non fa denuncia, è solo presa d'atto, come nel testo del rapper Fabri Fibra Mal di stomaco (2006): «Se avessi fatto il corso di farmacia / a quest'ora avrei una laurea e comunque sia / dimmi quanti laureati hanno la garanzia / di non finire lavapiatti in pizzeria /Piacere mi chiamo Fibra, lei è la mamma? /lo sa che sua figlia a sedici anni è già una cagna? /e gira in classe con la pancia mezza nuda / davanti a un professore che ha gli occhi di un barracuda?».
Fuori da quest'orizzonte nero, tuttavia, l'augurio migliore per chi sa che gli esami non finiscono mai, tra i banchi ma anche dopo, rimane quello, commosso e vero, di Francesco De Gregori: «Nino non aver paura di sbagliare un calcio di rigore,/ non è mica da questi particolari che si giudica un giocatore, /un giocatore lo vedi dal coraggio, dall'altruismo e dalla fantasia. / Il ragazzo si farà, anche se ha le spalle strette, / quest'altr'anno giocherà con la maglia numero sette...».
Annalisa Terranova
1 commento:
Per la mia generazione dei 50enni, o giù di lì, la canzone Compagno di scuola di Venditti è parte integrante dell'immaginario collettivo, in particolare secondo me di chi faceva politica, da una parte e dall'altra. Per i giovani del FdG Venditti era considerato di sinistra, ma questo non impediva a molti di noi di ascoltare con piacere le sue canzoni. Quella strofa "dove Nietzsche e Marx si davano la mano" è il ritratto di quel mondo di allora, dove poteva anche accadere di essere amici per la pelle salvo poi attaccarsi ferocemente sulla politica. Se poi considero che la mia militanza missina si coniugava al provenire da una famiglia schiettamente popolare e che non navigava certamente nell'oro, forse da destra ero già più compagno io del cantautore benestante Venditti. Forse, senza saperlo, ero già un "fasciocomunista" ante-litteram.
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