Dal Secolo d'Italia del 26 giugno 2011
Questa ricorrenza non s’ha da festeggiare. Così parlò l’Ernest Hemingway Foundation di Oak Park, città natale del grande scrittore americano che si tolse la vita il 1° luglio del 1961. Esattamente cinquant’anni fa. La Fondazione che ne “gestisce” la memoria attraverso il museo e l’organizzazione di eventi, preferisce ignorarne l’ultima pagina, la più imbarazzante: quella del suicidio. Rimandando ogni festeggiamento a data ritenuta più consona: quella della nascita, il 21 luglio.
Una scelta ipocrita e come tale probabilmente l’avrebbe liquidata Hemingway che, del resto, non fu mai troppo tenero verso quella comunità ostentatamente alto borghese, i cui abitanti avevano molto, volevano ancora di più e cercavano sempre pretesti per andare nella vicina Chicago: concerti, inaugurazioni di mostre, visite alla galleria d’arte, conferenze. Un pugno di chilometri per sentirsi migliori. Troppo pochi per Hemingway e la sua insaziabile sete di avventura. Altro che college, polverosi libri e carriera universitaria. Neanche il tempo di diplomarsi e già è in Francia: autista di ambulanze per la Croce rossa americana. Di lì in Italia, a trasportare morti civili, con una tale fretta di diventare eroe da beccarsi due pallottole di mitra e centinaia di frammenti di metallo nelle gambe per l’esplosione di un mortaio da trincea nei pressi della linee italiane sul Piave. È l’8 luglio del 1918, non ha ancora compiuto diciannove anni.
«Sin dall’inizio, amava affermare di essere ‘fraid a nothing, di non avere paura di niente». È quello che scrive Linda Wagner-Martin nelle prime pagine di Ernest Hemingway. Una vita da romanzo (Castelvecchi, pp. 256, € 16), la ricca biografia che arriverà nelle nostre librerie la prossima settimana. Opera utilissima per comprendere lo scrittore al di là dello stereotipo che egli stesso aveva alimentato, l’immagine accattivante che riteneva adatta a una celebrità: un uomo duro, ricco di talento, sportivo e sempre pronto a misurarsi, foss’anche in osteria, virile sopra ogni cosa. Wagner-Martin, pur senza alcun intento “dissacratore”, legge tra le righe dei suoi libri, indaga nella vita di questo camaleonte di professione, nei rapporti con il padre molle ma amato che gli trasmetterà l’amore per la natura e la familiarità con le armi (e la predisposizione alla depressione), con la madre autoritaria che farà a pezzi nei suoi racconti, con le quattro mogli, i figli e soprattutto i viaggi e gli amici. Una vita da romanzo, proprio come suggerisce il sottotitolo.
Lo fa partendo dall’inizio: dai primi lavori giornalistici, dal formarsi dello stile – frasi semplici, parole contate, paragrafi essenziali – che ne farà negli anni a venire un narratore insuperabile, capace di assorbire come una spugna tutto quel che gli accade intorno aggiungendovi “sapore”. Altro che scrittore realista, com’è stato spesso definito, Hemingway, pur prendendo spunto dalla “realtà”, si iscrive a pieno titolo nel solco degli scrittori delle emozioni. Non è certo un caso, del resto, se autori “sanguigni” come John Fante e Charles Bukowski lo eleggeranno a modello. Da sfatarsi anche il mito dello scrittore politicizzato e pronto a «salire sul carrozzone degli anticapitalisti». A tal proposito Wagner-Martin spiega: «Hemingway si opponeva alla letteratura come presa di posizione politica e sosteneva come lo scrittore sia per natura e scelta uno spirito indipendente. Non intendeva subire “la sbandata a sinistra”, che anzi definiva “un pacco di stronzate”».
Tutt’altro che compagni, peraltro, erano i colleghi che ammirava e conobbe quando, poco più che ventenne e già sposato, si trasferì a Parigi. Primo tra tutti Ezra Pound, che considerò da subito suo maestro e grazie al quale cominciò a pubblicare poesie e racconti su riviste letterarie. Una volta stabilita la sua residenza nella capitale francese, Hemingway iniziò a frequentare la comunità di americani espatriati conosciuta come la “Generazione perduta”, termine coniato proprio da Hemingway nel suo romanzo biografico Fiesta. Nel 1925, così scriveva all’amico Scott Fitzgerald, più famoso e più ricco di lui, dalla Spagna: «Mi chiedo quale potrebbe essere la tua idea di paradiso. Un bellissimo spazio vuoto riempito di ricchi monogami, individui potenti e membri delle migliori famiglie, tutti intenti a trincare fino alla morte... Per me il paradiso sarebbe una grande plaza de toros con due posti riservati per me alla barrera e un ruscello pieno di trote subito fuori, in cui nessuno può pescare tranne me».
Il suo ideale di vita: un ring per boxare, una guerra da vivere e raccontare – come quella civile spagnola – o anche l’Africa per cacciare, Cuba per pescare e bere un mojito a La Bodeguita del medio o un daiquiri al El Floridita.
«Ovunque fosse, però, toccava il culmine della felicità in compagnia degli amici più cari (i compagni di caccia e pesca, i commilitoni, i colleghi) – scrive l’autrice – e persino l’unione sessuale tra uomo e donna, il consueto plot matrimoniale eterosessuale, era forse meno interessante o più prevedibile rispetto ad altre configurazioni d'intimità». Hemingway, del resto, anche nelle sue opere si concentrava su storie e personaggi americani e la sua immaginazione privilegiava l'esprit de corps tra uomini: ricordava di aver passato la parte migliore della sua gioventù con amici maschi, giovani che come lui si entusiasmavano per una buona preda, una placida remata notturna sul lago, una nuova marca di birra, un’occhiata al corpo di una ragazza. Per questo, ancora qualche decennio dopo la morte, la critica femminista non si faceva scrupolo di farlo a pezzi, sostenendo che nel suo cattivo rapporto con le donne, nel suo essere un seduttore incapace d’amare, una specie di gigolò ante litteram, risiedesse, paradossalmente, il segreto del successo. Lui del resto, non perdeva occasione per apparire più cinico di quanto non fosse. «È stata una donna a rovinare Scott (Fitzgerald) – chiosava – ma lui, invece di mollarla, l’aveva accudita durante la malattia. Gli uomini che lasciano una donna farebbero meglio a spararsi, perché una donna lasciata è un problema per sempre». E Hem di problemi ne contava più d’uno, tanto da spararsi davvero. Aveva 62 anni e un nobel per la letteratura nel cassetto ma la campana, stavolta, suonava per lui. In attesa di vederlo sul piccolo schermo nell’interpretazione di Clive Owen – pare che James Gandolfini, il protagonista dei Sopranos, abbia pensato all’attore britannico per il film ispirato alla storia d’amore tra il grande scrittore e la reporter di guerra Martha Gelhhorn (ruolo, quest’ultimo, destinato a Nicole Kidman) – lo salutiamo citando la frase cult del Grande Gatsby: «povero vecchio bastardo».
Roberto Alfatti Appetiti
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