Articolo di Federico Zamboni
Dal Secolo d'Italia del 24 luglio 2011
Sta crescendo rapidamente, la Artist First. Un paio d'anni fa Claudio Ferrante, amministratore delegato dell'azienda ed ex direttore generale della Carosello, la descriveva così: «È la prima società italiana di distribuzione commerciale - fondata insieme a Giuseppe Cerri, presidente del Gruppo di Logistica Log Service Europe - e nasce dall'idea di offrire una alternativa all'attuale sistema distributivo nel nostro Paese, che è sempre stato appannaggio delle major. Con noi l'artista mira all'indipendenza assoluta e diventa così imprenditore di se stesso. Dalla scelta delle copertine ai singoli da passare in radio. Noi distribuiamo i dischi prodotti interamente dagli artisti, creando l'anello di congiunzione tra loro e il mercato. La nostra è anche una consulenza artistica a 360 gradi, dalla comunicazione stampa alla realizzazione grafica, il tutto al servizio della musica e dell'intrattenimento».
Una novità pressoché inevitabile, viste le profondissime e irreversibili modifiche sopravvenute negli ultimi anni all'interno del mercato discografico. Con l'avvento e il diffondersi dell'informatica a moltiplicare all'infinito le opportunità di fare tutto da soli. Con il dilagare di Internet, e delle sue versioni più rapide, a rendere possibile l'invio istantaneo di qualsiasi tipo di file, audio, video o multimediale, in ogni parte del mondo. Archivi immensi che si aprono in un attimo. Gli abituali confini tra lecito e illecito che perdono di significato, non appena la proprietà materiale ed esclusiva cede il passo all'utilizzo momentaneo, in streaming, e alla condivisione amichevole del "peer to peer". La rivoluzione di vertice dei Radiohead di In Rainbows: l'album del 2007 che si poteva scaricare a offerta libera, o persino gratis. La rivoluzione di base di tutti gli artisti sconosciuti, o giù di là, che preferiscono restare se stessi e diffondere le loro opere correndo il rischio di non guadagnare nulla, anziché consegnarsi agli esperti del marketing ed essere sicuri di dover sottostare ai loro diktat, venendo a patti con i meccanismi perversi dei circuiti vecchio stampo.
Una rivoluzione che sta scuotendo l'establishment musicale e che, tuttavia, ha appena cominciato a sprigionare le sue immense potenzialità. Iniziative come quella di Artist First non sono necessariamente il toccasana, visto che possono esaurirsi nel veicolare lo stesso tipo di proposte che vanno già per la maggiore e tradursi, quindi, in una mera riorganizzazione dei sistemi di vendita, ma segnano ugualmente un passo avanti. I margini di indipendenza aumentano. Il controllo creativo resta nelle mani degli artisti. E se il fervore di Manuel Agnelli, che coi i suoi Afterhours ha deciso di affidarsi a Ferrante & C., sembra francamente eccessivo («Abbiamo trovato qui tutto quello che sostanzialmente manca alla grande discografia in questo momento storico: l'Anima»), è indubbio che il passato fosse di gran lunga più costrittivo.
Fin tanto che il processo di produzione e vendita è rimasto quello tradizionale, che al di là del carattere artistico della "merce" ricalcava gli schemi di qualunque altro tipo di industria, le possibilità di affrancarsi dalle principali imprese del settore, appunto le cosiddette major, erano esigue, per non dire nulle. Il fatto stesso che i brani dovessero essere incisi negli studi di registrazione, che si affittavano a caro prezzo e che venivano utilizzati per diverse settimane, o addirittura per parecchi mesi, implicava una capacità di investimento che molti artisti non potevano o non volevano sostenere. Quelli a inizio carriera, o comunque in attesa del grande successo, erano a corto di capitali. Quelli ormai consacrati, invece, avrebbero avuto tutto il denaro necessario a finanziarsi da sé ma preferivano far pesare il proprio potere contrattuale e scaricare l'onere sulle case discografiche. Un "do ut des" che ovviamente non era certo senza contropartite, e che infatti diventava oggetto di accordi dettagliati tra i rispettivi manager, ma che per lo più si svolgeva all'insaputa delle star.
Quello che contava era l'obiettivo finale, e il resto passava in second'ordine. Gli enormi profitti inducevano tutti a non andare troppo per il sottile: la correttezza si inchinava alla convenienza; l'affinità personale all'utilità reciproca; la condivisione del progetto espressivo alla speranza di spartirsi il bottino. L'alleanza era spesso asimmetrica, in ossequio ai rapporti di forza. E, col crescere della popolarità, il salvacondotto dei divi si arricchiva di sempre nuove concessioni, fino alla totale impunità. I peggiori capricci venivano percepiti o interpretati come dati di fatto, che essendo legittimati dal potere commerciale erano da accogliere di buon grado, o comunque senza fare storie. Sdrammatizzati con un sorriso o sopportati per dovere professionale. Rubricati quasi automaticamente come semplici bizzarrie, secondo il classico e abusato cliché del "genio e sregolatezza". Anche se il genio, magari, si riduceva a qualche trovata superficiale, tanto efficace quanto inconsistente. Roba che aveva a che fare con l'artificio anziché con l'arte. Bigiotteria da quattro soldi e però di incredibile effetto. Perline e specchietti per quella massa di primitivi che va sotto il nome di pubblico. Ciarpame che andava a ruba come e meglio dei gioielli autentici.
Ma l'incantesimo non era eterno, naturalmente. Andava ripetuto daccapo a ogni nuova uscita. E se mancava il bersaglio - l'estasi a pagamento dei fan - era tutto il castello fatato a crollare. Perché l'ammirazione dei discografici non era tanto per la magia quanto per i suoi esiti. Per i suoi risultati pratici. Per le sue conseguenze operative, a sei o sette zeri. A maggior ragione quando, e con l'andare degli anni è accaduto sempre più spesso, non si trattava di veri editori, ovverosia di appassionati col pallino degli affari, ma di opportunisti sotto mentite spoglie, pronti a vendere indifferentemente musica o hamburger. Artisti veri o ciarlatani. Le speranze sincere dei migliori o le panzane vigliacche dei furbetti.
Federico Zamboni
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