Dal Secolo d'Italia del 9 luglio 2011
«La vignetta di Andrea col maggiolone Volkswagen che sfonda il guarda rail mentre i tizi dentro pensano solo a farsi passare la canna, fotografa un’epoca molto meglio di un intero trattato sociologico». Pablo Echaurren quel momento di passaggio tra gli anni Settanta e gli Ottanta, due epoche vicinissime nel tempo eppure opposte, l’ha vissuto e, come lui, tanti degli amici chiamati da Franco Giubilei a raccontare la breve quanto intensa esistenza dell’artista pugliese che ne fu protagonista principale e ponte.
Diciamolo subito: Vita da Paz. Storia e storie di Andrea Pazienza (Black Velvet, pp.285, € 15), l’ampio volume appena arrivato in libreria, non è l’ennesima agiografia. Ogni pagina sconfina dal filone biografico per restituire l’atmosfera di quel periodo, di cui Pazienza – scomparso il 15 giugno 1988 a soli 32 anni – riuscì più di altri ad interpretarne l’inquietudine e lo spirito autentico. Lo fece attraverso il fumetto, un’arte considerata minore da tutti, compreso il padre Enrico, professore di educazione artistica e pittore, che avrebbe voluto vedere il figlio misurasi con la tela. Non che non c’avesse provato, ma veder finire i suoi quadri nelle case dei costruttori e dei farmacisti – «le persone che detestavo di più» – l’aveva spinto a dedicarsi ai fumetti. Una scelta di campo dettata dalla esigenza di parlare a tutti, anche a chi non aveva una particolare preparazione culturale. Scrittore generazionale, sì, ma senza farsi portavoce di alcuno né tantomeno avallando la deriva ideologica del Movimento. Spinto dall’esigenza situazionista di immergersi tra i coetanei per raccontarne sogni e speranze ma anche ingenuità ed eccessi.
Nato a San Benedetto del Tronto, paese materno, e cresciuto nella paterna San Severo di Puglia, aveva frequentato il liceo artistico di Pescara per poi arrivare a Bologna nel 1974, attirato dal Dams, il nuovo istituto di discipline delle arti, della musica e dello spettacolo che avrebbe dovuto innovare i linguaggi espressivi fino a quel momento rimasti ai margini degli indirizzi letterari accademici. Nient’altro che un’illusione: come fumettista non era considerato abbastanza “artista” dalla cultura ufficiale e per il pubblico delle strisce tradizionali i suoi personaggi “cattivi” e alternativi (Zanardi, Pompeo e tanti altri) erano troppo trasgressivi… «La parola più usata per definire la sua arte è stata trasgressione – ha scritto Vincenzo Mollica – mentre lui si divertiva con i pellegrini della trasgressione come un burattinaio si diverte con i propri burattini».
L’intento, semmai, era quello di svecchiare il fumetto e riallinearlo alle altre avanguardie artistiche, facendolo scendere dalle “nuvole” dell’avventura classica per contaminarlo con l’attualità. Echaurren non se ne fa una ragione: «È stato nel fumetto quello che il futurismo è stato per le altre arti, una ventata di freschezza e genialità». Un riferimento non casuale, se si pensa all’esplicito riferimento in Pentothal al futur-ardito Mario Carli e alle sue Notti filtrate. Le sue passioni, peraltro, sono rivolte ai grandi irregolari del pensiero, Ezra Pound su tutti. «Questo apprezzamento per artisti politicamente scorretti può sembrare normale – spiega Giubilei – ma nella seconda metà degli anni Settanta, coi compagni e i fasci che si sprangavano quotidianamente quando non impugnavano la pistola, le dichiarazioni d’amore per gli autori vicini alla destra avevano un suono completamente diverso». Tanto diverso da far sì che un artista libero come lui – «estremamente individualista, libertario e extracodice», per citare le parole dell’amico Roberto “Freak” Antoni, voce degli Skiantos – venisse guardato con diffidenza. «In particolare – sottolinea Giubilei – dai pezzi di Movimento più ideologizzati come gli autonomi». A chi glielo faceva notare, Pazienza rispondeva con una battuta: «Mi hanno preso per reazionario solo perché il fare sciopero per aiutare i postelegrafonici di Modena non credevo potesse servire a noi del Dams».
A tutto ciò si aggiunga l’interesse di Paz per il kendo, un’arte marziale giapponese che mal si concilia con l’immaginario gruppettaro “de sinistra”, ed ecco venire alla luce le differenze. In primo luogo estetiche. Alto quasi un metro e novanta, dandy sfrontato e narcisista, amava indossare giacche di tweed d’impronta hemingwayna e guidare ad alta velocità, malgrado la miopia, grandi auto iperaccessoriate. Frequentava regolarmente la palestra – altra abitudine ritenuta fascistoide – e in casa custodiva un’armatura da antico samurai con tanto di sciabola. Indizi univoci e concordanti, che Sandro Raffini, ex cantante dei Gaznevada, sintetizza così: «Pazienza era legato a miti che erano patrimonio culturale della destra, dalla pratica della caccia al culto delle armi e delle arti marziali». Meridionale tutt’altro che remissivo – meridionale alla Mohammed Alì, si definisce – ama mostrare il proprio coraggio nelle situazioni più estreme: che si tratti di fare il bagno con i piranha in Amazzonia o di tuffarsi sul Rio Negro col rischio di trovarsi di fronte uno squalo, non perde occasione per spingersi oltre ogni ragionevolezza.
Al potere non andrà l’immaginazione e l’ala creativa dei settanta verrà cancellata da quella cosiddetta organizzata. Non rimane che cavalcare l’onda del nuovo decennio. Scrollatasi di dosso la componente nichilista-punk dei Settanta, da cantore del ’77 diventa la rockstar del fumetto italiano celebrata su Vogue. Si esprime nei più diversi ambiti della grafica, firma manifesti cinematografici (tra cui quello della Città delle donne di Fellini nel 1980), videoclip, copertine di dischi e campagne pubblicitarie, come quella per Energie. Senza rinunciare al fumetto, malgrado l’incipiente crisi del settore. «A un certo punto della mia vita mi sono detto: non sono nato per disegnare i guantini di Michael Jackson, e non mi interessa disegnare orologini per la Philip Watch o non mi interessa entrare nella moda. Quello che mi interessa è comunicare, continuare a raccontare favole».
Quando è ormai chiaro che la spallata all’arte contemporanea non ci sarà e i suoi “colleghi”, svaniti i deliri collettivistici, si affrettano a cercare spazi ad personam in televisione e nei grandi giornali, facendo della satira una professione e diventando, a furia di far caricature degli altri, la caricatura dei rivoluzionari che erano, Pazienza si ritira nella Toscana senese con la moglie.
«La satira non gli è mai piaciuta – ricorda nel libro Sergio Staino – perché sostanzialmente non gliene fregava niente. Anche la sua partecipazione alla Bologna dell’Autonomia del ’77 era un modo più per stare in mezzo alle ragazze, che per un disegno o una volontà politica di lottare contro l’ingiustizia».
La sua rivolta si limita a un’alzata di spalle. Se prima capricci e bizze erano concessi in virtù della giovane età, dell’indubbio talento e del contagioso disordine creativo dei Settanta, in una situazione più “normalizzata”, creano soprattutto fastidio. Lui non se ne fa un cruccio: «Voglio evitare il più possibile di lavorare per poter fare il più possibile quello che mi pare. Preferisco essere libero ed essere definito inaffidabile».
Di ritorno dal Brasile, decide di farsi e quell’ultima dose d’eroina gli risulterà fatale, pagando così l’unica concessione al conformismo: quello della tossicodipendenza. Negli Stati Uniti, probabilmente, gli avrebbero già dedicato un museo, da noi l’unica struttura esistente è il Centro Fumetto “Andrea Pazienza” di Cremona, impegnato a valorizzare giovani autori. Sarà pur vero – come scrisse Frigidaire per l’ultimo saluto a Paz – che «morto un genio non se ne fa un altro», ma continuare a puntare sui giovani è il modo migliore per onorarne il ricordo senza trasformarlo in un monumento polveroso quanto inutile.
Roberto Alfatti Appetiti
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