Articolo di Federico Zamboni
Dal Secolo d'Italia del 31 luglio 2011
Estremizziamo un po’: al classico fan di Mtv, quello capace di rimanere incollato per ore e ore davanti al teleschermo, o comunque abituato a restare sintonizzato anche se non sta guardando in modo specifico perché per lui, in ogni caso, la musica deve accompagnarsi inevitabilmente alle immagini dei videoclip, una riflessione sui motivi dello straordinario successo dell’emittente non interessa affatto.
Cosa dovrebbe farsene, di tutte quelle domande (e delle eventuali risposte) che non solo non aggiungono una briciola di piacere-attrazione-divertimento al suo svago preferito ma che addirittura lo interrompono, insinuando nel piacevole, e interminabile, flusso delle emozioni, l’ingombrante presenza di un mucchio di – aargh! – concetti?
Come sottolineava Jim Farber già una ventina di anni fa, quando ormai il fenomeno era esploso definitivamente, «Sin da principio Mtv aveva fatto balenare una possibilità straordinaria agli occhi dei suoi spettatori. Guardateci e “vivrete in eterno”, recitava uno dei suoi primi slogan. Una simile promessa si basava sul concetto secondo cui, non essendoci progressione narrativa nelle vicende mostrate, l’azione si svolgeva in un eterno presente e il tempo veniva fermato e sostituito da una scorrevole effervescenza, un cabaret ininterrotto, scherzoso ed erotico fatto di colori vivaci, rockstar sensuali e musica a tutto volume. È questa l’attrattiva più immediata di Mtv, una sorta di pornografia senza soddisfazione in cui la carnalità viene costantemente messa in primo piano ma “l’orgasmo” non arriva mai perché altrimenti finirebbe la festa. Ma la questione decisiva è un’altra: che cosa si festeggia? La libertà dalla ragione, tanto per cominciare. Mtv è l’estremo baluardo contro la logica; le immagini ci vengono gettate addosso senza preoccuparsi della loro consequenzialità. Il solo punto fermo è tener desta l’attenzione dello spettatore ed evitare la noia».
Il paradosso, quindi, è che ci sono ottime probabilità che a scrivere di Mtv, di cui proprio domani ricorre il 30ennale della nascita (ovviamente negli USA, visto che qui in Italia arriverà solo nel 1997), ci si rivolga a tutti meno che agli spettatori abituali. Così come, ancora prima, c’è il rischio che a interrogarsi sulle sue implicazioni siano quelli che l’avvento e il dilagare del videoclip l’hanno sempre osservato dall’esterno. Col vantaggio della neutralità, da un lato. Con l’handicap dell’estraneità, dall’altro. Colpiti assai più da ciò che manca, e che non potrà mai sopravvenire, anziché da quello che c’è. Da quello che sono solo in grado di vedere, ma non di vivere.
Il punto è proprio questo, come abbiamo letto nelle parole di Jim Farber. Con Mtv si festeggia «la libertà dalla ragione», grazie a quella sua programmazione attraente e frammentaria che cambia continuamente direzione e si reinventa senza sosta, fino a diventare «l’estremo baluardo contro la logica». Cosa lega i diversi filmati? La velocità. E la mancanza di qualsiasi obbligo di coerenza, non solo tra le varie proposte ma persino all’interno del singolo episodio. Non è mai un viaggio lineare con un inizio e una fine. Con una partenza e un arrivo. Con una traiettoria prestabilita e passibile di verifica. Il solo obiettivo è incuriosire. La sola promessa è che quello che non sta succedendo adesso potrebbe accadere tra un attimo. Non ti stai emozionando? Don’t worry. Ti emozionerai tra poco.
Già. Niente a che vedere con un trekking d’alta quota tra montagne di fiaba, come nel progressive, o con un’immersione nelle profondità della psiche, come con i Pink Floyd. Niente a che fare, nemmeno, con una manifestazione di protesta, sull’onda del primo Dylan, o con una lunga notte di corse sfrenate e ansiose e irrisolte, come con lo Springsteen di Born to Run.
Già. Mtv, che ovviamente sta per Music Television, è innanzitutto “television”. E soltanto dopo è anche “music”. Non semina tracce da seguire, come le canzoni ascoltate alla radio (o su quella simulazione di radio autoprodotta, quasi sempre inconsciamente, che erano i giradischi e i registratori, e che forse sono ancora le prodigiose playlist degli i-pod, almeno per chi se le prepara con amore e non solo per il gusto di andarsene in giro con 24 giga di pezzi ficcati in archivio – l’equivalente di un Suv per fare il giro dell’isolato), ma srotola lunghissimi tapis roulant da cui farsi trasportare senza alcuno sforzo. E magari, senza rendersene conto, in tondo. O su cerchi concentrici, che per quanto si moltiplichino nel numero rimangono iscritti in uno spazio prestabilito. E assai più limitato di quanto non sembri a chi se ne lascia attrarre-catturare-ipnotizzare.
Ma se non è un viaggio, e se non conduce verso nessuna meta, e nessuna scoperta decisiva su di sé e sugli altri, allora cos’è?
Semplice. È una passeggiatina a guardare le vetrine. Non solo quelle dei negozi reali, che esistono già e che hanno già pronta la merce da venderti, ma soprattutto quelle dei negozi che verranno. Scrive ancora Farber, che peraltro rende omaggio alle analisi di Pat Aufderheide, «non è solo la messa in scena di questo sogno a rendere Mtv tanto efficace: è il modo in cui il sogno viene reso reale. Come mezzo di comunicazione di massa, Mtv va a scavare nei nostri desideri più profondi e lo fa (e questo è il nodo cruciale) affidandosi al linguaggio della pubblicità». Scrive Giuseppe Videtti, in un articolo pubblicato pochi giorni fa su Repubblica, «I pubblicitari si fregarono le mani quando scoprirono che un quarto degli adolescenti americani restava incollato a Mtv la maggior parte del tempo libero: avevano in mano lo strumento per orientare le scelte di nuovi consumatori che fino a quel momento erano considerati irraggiungibili dai media».
Sogni a occhi aperti. Credi di guardare fuori di te e di scoprire nuovi orizzonti, o addirittura nuovi modelli, ma stai solo guardando dentro il pozzo delle tue pulsioni e dei tuoi desideri. Non è conoscenza. È libidine. Mtv ha spianato la strada. Poi è arrivato Internet. E il trionfo dell’esistenza virtuale è divenuto completo.
Federico Zamboni
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