Articolo di Giuseppe Mammetti
Dal Secolo d'Italia del 27 novembre 2011
Se non è Hepburn-mania ci manca davvero poco. La nuova versione di Colazione da Tiffany, appena restaurata, proiettata il 9 novembre in 170 sale italiane in occasione del cinquantenario della pellicola, si è classificata secondo incasso della giornata, con 199mila euro al botteghino. Contestualmente, Gremese porta in libreria l'ennesima biografia della diva, Audrey Hepburn. La principessa di Tiffany di Karney Robin (p. 189, € 25), con un discreto successo di vendite.
Tutto lascia immaginare che, nonostante gli anni trascorsi e l'esaltazione generale di una bellezza semiandrogina, il mito stia rifiorendo: forse per incarnare l'alternativa a modelli di femminilità troppo aggressiva. Oppure per oscurarli, perché il divismo non passa mai di moda e quello di Audrey Hepburn, addirittura più di Marylin, è un mito buono per tutte le stagioni.
Quella che i molti ribattezzarono "La diva delle dive", compreso il grande Blake Edwards, nacque a Bruxelles, dall'affarista inglese Joseph Antony Rouston - il vero nome dell'attrice è Audrey Kathleen Ruston - e dalla nobildonna olandese Ella van Heemstra. Dopo la sua nascita, a distanza di qualche anno, la famiglia prende anche il cognome della nonna paterna, l'aristocratica Kathleen Hepburn, discendente da un ramo che include un re, Edoardo III d'Inghilterra, e il quarto conte di Bothwell, James Hepburn. Nonostante la cultura fiamminga della madre, la sua famiglia è un pezzo d'Inghilterra trapiantato nel cuore dell'Europa. Lei vi trascorre un'infanzia relativamente tranquilla, in giro per il continente a causa degli affari del padre. Si spostano tra Regno Unito, Belgio e Paesi Bassi, dove Audrey inizia a danzare, manifestando in modo precoce quella passione che, seppure indirettamente, l'avrebbe portata al cinema.
La crisi familiare arriva nel '35, con il divorzio dei genitori. Dopo il periodo clandestino della guerra, trascorso per lo più in Olanda sotto il dominio nazista, col nome di Edda van Heemstra - era necessario nascondere le origini britanniche - torna a Londra e fa il suo debutto nel mondo dello spettacolo, come ballerina. Il giudizio negativo di un'eminenza del tempo, la didatta Marie Rambert, talent scout e insegnante di Vaclav Nizinskij, le nega il palcoscenico, ma finisce per spalancarle le porte del successo. Il primo ruolo è quello di una venditrice di sigarette in Risate in Paradiso di Mario Zampi, al quale seguono una serie di piccole parti in pellicole di secondo piano, almeno fino a quando Colette, la scrittrice simbolo dell'intellighentia francese, la sceglie per interpretare a teatro la sua Gigi. Il successo è immediato e poco dopo arriva anche la chiamata a Hollywood. Nel '53, come protagonista di Vacanze Romane, accanto al mostro sacro Gregory Peck.
A rileggere le interviste dei protagonisti e le testimonianze del tempo, sembra che il mito della Hepburn come simbolo di grazia ed eleganza sia nato già con il primo film, che le valse anche l'unico Oscar della carriera, nel '54. Da lì in poi iniziò la scalata, con pellicole come Guerra e Pace di King Vidor ('54), Sabrina di Billy Wider ('56), La storia di una monaca di Fred Zinnemann ('59), Colazione da Tiffany ('61 ) di Blake Edwards, Sciarada di Stanley Donen ('63) e My Fair Lady di George Cukor ('64), che avrebbero fatto innamorare una generazione e scavato un solco in tutta la storia del cinema. E dire che anche la parte della principessa Anna di Vacanze Romane, come si legge nel volume di Riccardo Palmieri Diva per caso (Ed. Curcio, 2009) le capitò addosso inaspettatamente. La Paramount, casa produttrice del film, aveva già scelto Liz Taylor. A rimescolare le carte fu proprio il regista, William Wyler, che la scelse dopo un provino, concesso solo per formalità. «All'inizio - raccontò lui stesso anni dopo - recitò la scena del copione, poi si sentì qualcuno gridare "Taglia!", ma le riprese in realtà continuarono. Lei si alzò dal letto e chiese "Com'era? Sono andata bene?". Si accorse che tutti erano silenziosi e che le luci erano ancora accese. Improvvisamente, si rese conto che la cinepresa stava ancora girando... Aveva - furono le parole di Wyler - tutto quello che stavo cercando, fascino, innocenza e talento. Inoltre era molto divertente. Era assolutamente incantevole, e ci dicemmo "È lei!" . Il fascino della giovane Audrey fece capitolare persino un orgoglioso come Gregory Peck, che dopo due settimane di riprese chiese al suo agente di far spostare i titoli di testa, profetizzandone il successo: "Sono abbastanza intelligente da capire che questa ragazza vincerà l'Oscar nel suo primo film e sembrerò uno sciocco se il suo nome non è in cima, insieme al mio"».
Se la tenera ma risoluta principessa Anna di Vacanze Romane le procurò una fama planetaria, la stupenda Holly di Colazione da Tiffany, diretta da Blake Edwards, garantì alla Hepburn la consacrazione definitiva. Mancò l'Oscar per un pelo, vinto quell'anno dalla Loren per La Ciociara, e si aggiudicò il secondo David di Donatello per la migliore attrice straniera, dopo quello del '60 per La storia di una monaca. Ma soprattutto, interpretò uno dei personaggi più riusciti dell'intera storia del cinema. Una di quelle icone che segnano definitivamente la carriera d'un attore e lo inseriscono nella galleria degli immortali. Perché Holly, protagonista nata dalla penna geniale di Truman Capote, è uno dei personaggi simbolo della macchina dei sogni hollywoodiana, che vale lo Charlot di Chaplin, la Rossella O'Hara di Vivien Leigh o il Giuda Ben-Hur di Charlton Heston. E sta al cinema come La Gioconda di Leonardo o la Desdemona dell'Otello di Shakespeare stanno alla pittura e al teatro. Una figura irrinunciabile, di quelle destinate a generare centinaia di imitazioni - pensate alle giovani attrici che anche solo inconsciamente imitano la Hepburn, oppure ai personaggi nati sulla falsariga di Holly - o a vivere, anche loro malgrado, in eterno.
L'immagine della ragazza sventata che fece innamorare uno scrittore alle prime armi, George Peppard nella parte di Paul, che viveva di lussi sfrenati pur essendo povera, che sognava di risollevarsi sposando un miliardario e passava la mattinata davanti le vetrine di Tiffany, è uno dei personaggi più importanti del Novecento. Soprattutto è uno dei più veri, dei più belli e intensi. Di quelli che lasciano uno strascico infinito e fanno la fortuna di chi ne condivide, anche solo minimamente, la fama. Pensate a Tiffany, la gioielleria, o a Givenchy, lo stilista del celebre tubino nero e di quasi tutti i vestiti dell'attrice. Ma soprattutto a quelli, e sono moltissimi, che anche solo di riflesso hanno partecipato al suo successo: legandosi per sempre alla stella più splendente di Hollywood.
Giuseppe Mammetti
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