Articolo di Michele De Feudis
Dal Secolo d'Italia del 31 dicembre 2011
Ci sono libri per i quali la lettura inizia dalla copertina, con Marcello Mastroianni e Federico Fellini appoggiati a una locandina cinematografica che ha fatto storia. Oscar Iarussi, caporedattore de La Gazzetta del Mezzogiorno, con C'era una volta il futuro. L'Italia della Dolce Vita (Il Mulino, pp. 147, € 14) percorre un itinerario culturale per sviscerare mode, manie, tendenze, vizi e virtù nazionali, partendo dal costume e dai riti che si potevano ammirare nella Roma del boom economico, seduti al tavolo di un caffè in via Veneto.
Il saggio è un tributo alla lucidità e al cinismo di Ennio Flaiano, ispiratore della pellicola insieme allo stesso Fellini, a Tullio Pinelli e a Brunello Rondi, e al potere della letteratura visiva di immaginare l'evoluzione delle abitudini popolari scorgendone insieme i punti di forza e le inevitabili mollezze. La Dolce Vita è un film del 1960 e mentre l'Italia di allora si apprestava a interrogarsi sui cent'anni di Unità, emergeva in pieno la scelta di ripudiare la tradizione rurale del paese per intraprendere la sfida dello sviluppo, per competere sullo scenario internazionale, nella speranza di recitare un ruolo da protagonisti nel "Grande Gioco" geopolitico, seppellendo il passato di sconfitti nella Seconda guerra mondiale.
La Dolce Vita diventa allora una indovinata metafora per interpretare l'ansia di riscatto di un paese giovane pieno di contraddizioni: «Le campagne si spopolano per fornire manodopera all'industria pesante (non sempre pensante) e s'inizia il degrado del paesaggio nazionale la cui fascinosa fragilità sarebbe stato ovvio tutelare e mettere a frutto grazie al turismo. Ma non c'è difesa della natura che tenga rispetto al movimento "americano" di una modernità tardiva, quindi più convulsa. In quegli anni è all'opera un impeto faustiano che dilaga e travolge tutto pur di conquistare un posto stabile tra i paesi avanzati». E mentre Enrico Mattei sfida le grandi compagnie petrolifere americane, è la politica estera "levantina", attenta al mondo arabo ma anche ai desiderata dell'alleato d'Oltreoceano, consapevole di avere nel proprio seno il più grande partito comunista d'Occidente, a esaltare la vocazione mediterranea dello Stivale.
"Se gli anni di via Veneto - spiega Iarussi - si possono contare sulle dita di una mano e di fatto sono già finiti quando esce il film, invece la proiezione nel tempo del glamour "de noantri" si rivela strabiliante. Giunge fino ai nostri giorni. Oltre mezzo secolo dopo e alle soglie del ventennale della scomparsa di Fellini che ricorrerà nel 2013, l'onnivora pubblicità, il marketing territoriale e l'immaginario collettivo ne sono ancora pregni. (…) Un'Italia che sta già piegando il sacro al profano, ovvero la fede popolare alla spettacolarizzazione della tv, come Fellini mostra nella magnifica sequenza dei bambini che vedono la Madonna in "La Dolce Vita"». Da qui è possibile osservare come una certa svolta edonista, individualista, legata al culto del consumo è stata raccontata con preveggenza da Fellini, disegnando un savoir vivre pieno di regole conformiste, dall'abbigliamento alle vacanze intelligenti al presenzialismo culturale senza alcuna sensibilità per l'arte o la letteratura.
L'opera del maestro di Rimini incarna anche il segnale di una secolarizzazione imminente, i cui segni restano incisi nell'anima profonda italiana: «Nella trama di Fellini, l'intellettuale Steiner - scrive l'autore - incalza soavemente Marcello affinché si dedichi alla scrittura a discapito delle collaborazioni con i giornaletti "mezzo fascisti" per cui lavora come cronista di rosa. Altro che l'Espresso! Il giornalista de "la dolce vita" è un free lance, senza alcun dovere di orario redazionale o di turni d'impaginazione, al pari dei suoi amici fotografi d'assalto, i quali spesso lo implorano di portarli con lui. Fra loro spicca quel Paparazzo (Walter Santesso) che entra con forza nel dizionario: un neologismo sinonimo di reporter scandalistico». Ogni siparietto del film allora sembra una indovinata anticipazione del nostro presente sbracato, nel quale gli inquilini del Palazzo sono stati costretti a sloggiare per farsi rifare i conti da un manipolo di "baroni" universitari, ai quali l'insipienza di maggioranza e opposizione ha consegnato le chiavi del governo.
La pellicola divise e divide ancora i critici: Montanelli elogiò Marcello Mastroianni per l'interpretazione del giornalista Marcello Rubino - «se (…) avesse saputo raccontare con la penna, per il giornale di cui io fossi direttore, le stesse cose che ha raccontato con la macchina da presa di Fellini, e con la stessa evidenza, gli avrei triplicato lo stipendio» - mentre Alberto Arbasino recentemente ne ha offerto una rilettura più amara, legata alla fine della "dolce vita" soffocata dall'arrivo del turismo sguaiato che ne cancellò il fascino elitario. Sullo sfondo, in conclusione, resta un ritratto amaro, la rappresentazione «dell'Italia che verrà, il futuro a portata di mano eppure già agonico, con l'occhio sbarrato sul Grande Nulla».
Michele De Feudis
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