Articolo di Giuseppe Mammetti
Dal Secolo d'Italia del 15 gennaio 2012
L'America dei nostri avi era la patria delle possibilità. Un paradiso da conquistare con sudore e sacrifici. Quando gli immigrati italiani sbarcavano nell'immenso porto di New York, il copione era sempre lo stesso. Scendevano da transatlantici oceanici, si precipitavano verso gli hangar dell'immigrazione e attendevano tutti una verità definitiva: dentro o fuori. Ammessi nell'universo fantastico delle occasioni oppure rifiutati. Rigettati da quella che per molti era l'unica via di salvezza dalla fame.
In un secolo è cambiato tutto. L'America è diventata il paese dell'epica e dell'epopea. La nazione delle nazioni, fondata su storie e racconti di popoli distinti. Che oramai, in assenza di un progresso trainante, sono uniti da un comune denominatore civile e da una cultura che ha invaso il mondo, divenendo il simbolo dell'Occidente.
Entrambe le Americhe sono raccontate dal caso letterario Usa più importante degli ultimi anni. La Fine, opera prima dell'italo-americano Salvatore Scibona, classe 1975, di Cleveland, pubblicata in Italia dalla casa editrice romana "66tha2nd". Ovvero "Sixtysixthandsecond", l'indirizzo dell'incrocio tra la Sessantaseiesima strada e la Seconda avenue di Manhattan. Un posto di passaggio. Di quelli che solitamente si identificano come "non luoghi" e invece producono frammenti di vita inaspettati, riflessi di realtà impropriamente chiamati sfumature. Posti che fanno pensare. Un po' come fa pensare questo romanzone di 392 pagine, denso come un racconto e spontaneo come una confessione. Storia di un'immigrazione che non ha nulla a che vedere con la ricostruzione canonica e inflazionata che va per la maggiore, ma piuttosto segna una rottura. Traccia il percorso verso un nuovo modo di scrivere e di raccontare. Dimostrandosi incalzante, già a partire dall'incipit-presentazione del protagonista: «Era alto un metro e cinquantaquattro con le scarpe da passeggio. Sembrava un orso con quella faccia rotonda dalla mascella prominente, petto e spalle di proporzioni esorbitanti, vita quasi altrettanto massiccia, ma scavato alle anche e privo di un didietro adeguato su cui sedersi (anche se non era certo noto per stare spesso seduto) e debole di caviglia, con due piedi minuscoli da ragazza, un uomo a forma di lampadina».
Questo è Rocco La Grassa, il panettiere di Elephant Park, immaginaria Little Italy nel cuore di Cleveland, in Ohio. Padre irreprensibile di tre figli. Due dei quali cresciuti con la madre, nel New Jersey. Ed uno, l'ultimo, rimasto con lui, tirato su tra un'infinità di sacrifici. Rocco è un uomo dalla scorza dura, descritto dall'autore come «fedele fino allo stremo alle fatiche quotidiane», che in tutta la vita ha chiuso il suo negozio per un giorno soltanto. Il 15 agosto 1953, durante la sagra italiana di Elephant Park, dopo aver appreso che il figlio prediletto, la sua unica ragione di vita, è morto nella guerra di Corea. Lo stesso giorno la sua esistenza s'incrocia con quella di una vedova che procura aborti in una cantina, di un vecchio gioielliere appassionato di storia e di alcuni simpatizzanti del Ku Klux Klan, che durante le processioni reggono la statua della Madonna. Personaggi che cambiano la sua visione delle cose, ma soprattutto sintetizzano nel racconto di una giornata cinquant'anni d'integrazione italo-americana. Di sogni spezzati, vecchie abitudini, sentimenti incrociati e passioni sopite, che nulla c'entrano col cumulo di stereotipi legati alla nostra immigrazione. Stereotipi che Scibona si è divertito ad abbattere, tanto nel romanzo quanto nelle interviste rilasciate dopo il successo del libro. Dove ha inveito, spesso, contro l'idea di una mafia egemone: «Non ho mai incontrato un mafioso in vita mia e, infatti, nel mio libro non ce n'è neppure uno. Perché preferisco la gente vera». Contro il "presunto" legame inscindibile con la terra d'origine: «Per molti italo-americani - ha confidato ad Alessandra Farkas del Corriere - il Bel Paese è un luogo mitico che esiste solo nella fantasia. La mia famiglia ha talmente rimosso la parabola migratoria che in casa storpiavamo persino il cognome, che pronunciavamo Schibona, all'americana». Contro la descrizione degli italiani d'America, fatta dallo schowbiz nazionale: «Il genere ha una sua dignità artistica solo come fiction pura. I "Sopranos" sono una serie geniale, ma di pura fantasia».
Nonostante la sarabanda di elogi, a molti osservatori è sfuggito come il successo internazionale de La fine in parte dipenda dal suo carattere iconoclasta. Dall'aver tributato il giusto riconoscimento a una cultura, quella degli italiani d'America, sfruttata quasi esclusivamente per ragioni commerciali. Malgrado si possa definire "italiana" una fetta considerevole dell'immaginario Usa. Rivoluzionato da scrittori come John Fante, Don DeLillo, Mario Puzo e Richard Russo. Da giganti di Hollywood come Robert De Niro, Al Pacino, Martin Scorsese, Frank Sinatra, Vincente e Liza Minnelli. E da un'infinità di gente comune che nell'America, come patria di libertà e progresso, ha creduto per davvero. Spesso non tornando più a casa. Come la famiglia Scibona.
Tuttavia, ad ispirare lo scrittore in quello che è ritenuto uno dei grandi romanzi del secolo, che gli ha fruttato una citazione del "New Yorker" tra i venti migliori scrittori under 40 d'America ed una notorietà mondiale, è stato un viaggio in Sicilia. Il viaggio del ritorno a casa, a Mirabella Imbaccari, nel Catanese, dove ha conosciuto i parenti e ripreso i contatti col paese d'origine. Quello dei racconti dell'infanzia. Che riscopriva quando andava a trovare la sua bisnonna, Domenica Spriglione, in un'immensa fattoria dell'Ohio: «Era lei la matriarca del clan e la mia grande musa, un'analfabeta intelligentissima e spirituale, che indossò il lutto dalla morte del marito, nel '52, fino alla propria, nel 1994».
In Italia, alla fine, c'è rimasto nove mesi, grazie ad una borsa di studio. Ha imparato la nostra lingua e iniziato a scrivere il suo romanzo. Costato 10 anni di lavoro. Un romanzo che per rubare una metafora a Raymond Carver, possiamo definite non scritto, "ma scolpito", sudato riga per riga. Che non ha nulla da spartire col cliché strappalacrime dell'italiano nostalgico, ma si diverte a ridicolizzarlo. A nasconderlo, narrando la vita della gente comune, mescolata ad una trama acrobatica. Fondata su punti di vista diversi. Addirittura divergenti.
Se proprio dobbiamo trovargli un modello, scegliamo il suo idolo letterario, Don DeLillo. Che in Underworld descrive quarant'anni di vicende americane, semplicemente inseguendo il percorso di una palla da baseball. Scagliata fuori campo da Bobby Thompson, mitico battitore dei Giants nella finale per il titolo del 3 ottobre 1951, e finita nelle mani di un rampante imprenditore della nettezza, negli anni '90, quando il libro si chiude. In mezzo c'è un bel pezzo di storia Usa, dalla guerra fredda alle conquiste informatiche. Fino alla consacrazione a "faro" della civiltà.
In La fine accade la stessa cosa. Ma i protagonisti sono i nostri nonni. In un paese che non era il loro. Al centro di un impero culturale che hanno contribuito a costruire.
Giuseppe Mammetti
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