Dal Secolo d'Italia del 1 luglio 2012
Charlie Chaplin, il suo (grande) dittatore, lo fece nel 1940. Dichiarò guerra a Hitler prima che lo facesse il suo paese. Tutta la marzialità del Führer, all'istante, si rivelò per quello che era: tragicamente comica. Sconfitta, ben prima che dagli anglo-americani, dall'alleanza tra satira e cinema. Aladeen, dittatore anche lui ma di un immaginario Stato africano, Wadiya, è più comico che tragico e la pellicola di Larry Charles, annunciata da una maestosa campagna pubblicitaria e da pochi giorni nelle nostre sale, è godibilmente innocua. Con ambizioni decisamente più modeste. Si "accontenta" di sbancare al botteghino, primo film per incassi registrati nell'ultimo fine settimana. E per farlo si affida a un dittatore ferocemente antisemita, interpretato da Sacha Baron Cohen, attore londinese nato in una famiglia di ebrei ortodossi, che ha già al suo attivo personaggi di rottura: Ali G, l'aspirante gangsta-rapper inglese; Borat, giornalista televisivo kazako sessista, infantile ed antisemita - protagonista del discusso Borat, studio culturale sull'America a beneficio della gloriosa nazione del Kazakistan - e Brüno, giornalista austriaco di moda, rigorosamente gay.
Misogino, razzista o semplicemente furbo?
Diciamolo subito: il dittatore capriccioso e sessualmente incontinente di Charles è perfettamente inverosimile: una hit parade di autocrati, un mix tra Saddam Hussein (il film è ironicamente ispirato dal libro Zabibah and the King scritto proprio dall'ex leader iracheno), Gheddafi e Osama Bin Laden. L'immancabile barba. L'esercito di guardie del corpo al femminile che fanno pensare alle amazzoni libiche. Le armi chimiche. L'11 settembre. Tutto finisce nel frullatore e viene restituito sotto forma di gag. La critica, come già accaduto nelle precedenti performance di Cohen, si è divisa. C'è chi vede nel nuovo personaggio un demolitore dei valori americani, un feroce nemico della democrazia da esportazione e chi, con tanto di sopracciglio alzato, ne sottolinea la ripetitività, la fatuità della comicità demenziale. Schietto, per alcuni. Volgare, per altri. Non solo: misogino, razzista e omofobo. Film di denuncia o black comedy? Pellicola politicamente scorretta o, più semplicemente, furba, abile a solleticare intolleranze e pregiudizi? Una domanda da molti milioni di dollari, quelli che la produzione (sempre Sacha) si propone di raccogliere. La questione centrale - armi di distruzione o di distrazione di massa? - non è neanche sfiorata. La trama, se vogliamo chiamarla così, viaggia in superfice. Aladeen, sollecitato dall'Onu, si limita a rifiutare ogni ispezione internazionale. A differenza dei dittatori veri - eliminati senza tanti complimenti prima di essere ascoltati - Aladeen riceve un cortese invito negli Usa. Missione impossibile: convincere l'Onu della bontà delle proprie tesi. È tollerabile o meno la sua dittatura? Opprime il suo paese, questo è incontestabile, ma lo fa per amore, per salvarlo dalla democrazia. Non ha paura di votare, lui. All'occorrenza, bara. Trucca. Ed eccolo nuovamente eletto, in barba all'opposizione e al parentame che sperava di far nascere la democrazia: ovvero rimpiazzarlo per trattare con l'Occidente (economicamente più che politicamente).
Una cosa è certa: l'originalità non è la qualità principale di un film che in alcune scene - l'approccio di odio/amore dello sprovveduto dittatore (in incognito) con l'american way of life - sembra richiamare Il principe cerca moglie, fortunata commedia del 1988 diretta da John Landis, con l'impareggiabile Eddie Murphy nei panni di un principe in cerca di moglie americana. Sopravvissuto a una congiura di palazzo e sostituito da un sosia, se possibile, più scemo di lui - scemo più scemo, per citare Jim Carrey, il più "scemo" di tutti - Aladeen vagherà per Manhattan, scoprendo che, scartato il torsolo, la Mela non è poi da buttare. Malintesi a ripetizione, sicari, pallottole, colpi di Stato e di scena: un continuo ammiccare al pubblico che, da parte sua, se la ride di gusto nel vedere il dittatore partecipare (e ovviamente vincere) alle sue olimpiadi, infilarsi in situazioni surreali quanto esilaranti. Il tutto è condito da ruffiane spruzzate di pop e, non a caso, il nostro coltiva allo stesso modo la "passione" per le pene capitali e per la Wii. Non mancano, non potevano mancare, le scene d'amore ed ecco la liaison con la pasionaria Zoe, che non sa di essersi imbattuta nel detestato dittatore. Né lui sa che lei è ebrea. Quando lo scopre, ne ordina l'uccisione. Finale aperto, in attesa dell'unico "voto" che conti, quello del pubblico. Contano i numeri, o meglio i biglietti staccati.
Roberto Alfatti Appetiti
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