Dal Secolo d'Italia del 9 settembre 2012
E anche ’sto Festival di Venezia – parafrasando
la celebre battuta di Riccardo Garrone – se lo semo levato dalle palle. Una
festa obbligata, la kermesse veneziana, proprio come il Natale salutato con
efficace sintesi dal brillante caratterista nella pellicola vanziniana del
1983. Una risata seppellirà l’autoreferenzialità di una manifestazione sempre
più stanca e la supponenza di chi, scambiando il red carpet per una cattedra,
non ha lesinato sentenze. Nel mirino c’è finito Clint Eastwood, reo di essere
repubblicano. «Quando sento Eastwood parlare di politica – ha detto Ken “il
rosso” Loach – sono contento che non abbiamo potere, sennò saremmo tutti come
Charlton Heston, con la pistola nella cintura». Parole accolte con soddisfazione
dalla plaudente corte veneziana. «La sinistra considera gli artisti di valore
roba di sua proprietà – ha mirabilmente spiegato Francesco Piccolo – e se scopre che qualcuno è diverso vuol dire
che non è più bravo e che non lo è mai stato». L’antipolitica, poi, va di gran
moda in laguna tra quelli che Maria Luisa Agnese ha definito «i milionari in
look debosciato». La critica non verte sul merito, troppa fatica. «Non
disprezzo i politici, piuttosto li considero casi clinici». Così parlò Marco
Bellocchio. Non una parola, come invece sarebbe stato lecito aspettarsi, sulla
salute, altrettanto precaria, del cinema di casa nostra. Per quanto sin troppo
“assistito”, tenuto in vita con un rilevante accanimento terapeutico di fondi
pubblici, il cinema made in Italy pare un bello addormentato, prendendo a
prestito il titolo del film furbetto che Bellocchio ha cucito sul caso Englaro
preoccuandosi di non scontentare nessuno. Dettare l’agenda politico-culturale del
paese sembrerà più nobile che fare i conti col botteghino, ma prima ancora che
sull’eutanasia sarebbe stato forse più utile interrogarsi sul perché le nostre
pellicole vengono accolte tiepidamente dal pubblico.
La lezione dei maestri della commedia
all’italiana degli anni Ottanta, al riguardo, era semplice: facendo ridere si
potevano toccare con maggiore efficacia i temi più scottanti, raccontare la
storia sociale degli italiani con leggerezza e irriverenza senza provocare
sbadigli a catena. Problema di linguaggio o mancanza di idee? Prendere un
romanzo di successo e farne un film può rappresentare una comoda scorciatoia,
anche se il rischio di sommare a un brutto libro un film brutto è dietro
l’angolo. Vuoi raccontare deturpazione ambientale e urbana, condizione della classe
operaia, vita nella fabbrica e precariato delle giovani generazioni? Perché
pensare una storia quando la sceneggiatura è bella e pronta prendendo spunto
dal sopravvalutato romanzo di Silvia Avallone? Qualcuno s’è anche affrettato a
spiegare che il tema del romanzo (non si intitola forse proprio “acciaio”?) è
reso ancor più attuale dalla crisi dell’Ilva di Taranto. Il gioco è fatto: tu
chiamalo se vuoi neorealismo.
Una cosa è certa: il fascino della Mostra, ormai,
è pari a quello di Sanremo, ovvero inesistente. Ci vuole tanta pazienza per
resistere a certe proiezioni e alle dosi mortali di violenza gratuita di film
come quello di Kim Ki-duk (e c’è chi dice che gli applausi che ne hanno accolto
la fine fossero in larga parte di liberazione). Saltati a pie’ pari i dibattiti,
non è che fuori dalle sale il clima risultasse granchè vitale. La noia era
talmente densa da preferire l’agiografico documentario su Pietro Ingrao. Ridere
si sa, è sintomo di grettezza e l’intenditore di cinema ostenta fieramente aria
pensosa. Ma prima o poi sbotta. Persino gli addetti ai lavori, del resto, non
hanno fatto molto per mascherare la delusione. «Sembra il festival di Locarno»,
ha detto Pietro Valsecchi e l’accostamento non aveva l’aria di un complimento. Nessuno,
però, che abbia avuto il coraggio fantozziano di dirlo chiaramente: il festival
di Venezia è la nostra corazzata Potëmkin. E i sacerdoti della funzione
pedagogica dell’arte, per contrappasso, dovrebbero essere costretti – proprio
come toccò al cinefilo Guidobaldo Maria Riccardelli della pellicola fantozziana
– a visionare ininterrottamente Giovannona
Coscialunga, L’esorciccio e La polizia s’incazza. E, aggiungiamo noi,
anche film come Indagine su un cittadino
al di sopra di ogni sospetto che si chiude, non a caso, con una precisa
citazione kafkiana: «Qualunque impressione faccia su di noi, egli è un servo
della legge, quindi appartiene alla legge e sfugge al giudizio umano». Più
attuale dei pistolotti alla Diaz di
Vicari, per intenderci.
Roberto Alfatti Appetiti
1 commento:
I festival del cinema sono come le sagre della castagna, ce ne sono troppi e sono pertanto destinati a divenire una notizia da cronaca locale. Il pubblico meno appassionato fatica persino a ricordare chi ha vinto l'ultimo Oscar per il miglior film; immaginiamo l'attenzione che offre ai medagliati di Cannes o Venezia. Sarebbe forse meglio trovare altre forme per gratificare gli sforzi di chi è destinato a non trovare sufficienti motivi di compiacimento negli esiti del botteghino.
Posta un commento