Bukowski ha pubblicato moltissimo. Puoi delineare una bibliografia minima e indispensabile per chi volesse tentare un approccio?
Moltissimo, è vero. Troppo, per alcuni. Nel libro ce n’è una completa, di opere di e su Bukowski. Per iniziare consiglierei Panino al prosciutto,
il romanzo più intimo e sofferto, quello in cui racconta la sua
infanzia dolente, le violenze subite dal padre, l’emarginazione vissuta a
scuola, le prime letture, le poche amicizie, se possiamo chiamarle
così, e soprattutto le inimicizie, che saranno assai più numerose e
agguerrite. Lo ha scritto solo nel 1982, quando, ottenuto finalmente un
certo riconoscimento letterario e raggiunta una a lungo auspicata
agiatezza economica, può permettersi di mettere da parte il “personaggio
Bukowski” e rivelarsi compiutamente per quello che era: un uomo colto e
coraggioso, sensibile e vulnerabile, che aveva sofferto, che aveva
attraversato l’inferno e ne era uscito ammaccato, ma vivo. Poi ci sono
le Storie di ordinaria follia, un vero cult, ma anche Post Office,
il primo romanzo, scritto di getto nel 1970, in cui racconta i suoi
anni da postino, prima come portalettere gaudente e poi quale impiegato
addetto allo smistamento. Un lavoro noioso che lui trasforma in una
“festa mobile”. Questo romanzo in particolare è stato presentato come un
libro di denuncia della difficile condizione dei lavoratori, ma
Bukowski non è uno scrittore sociale, non è il portavoce di nessuno. È
uno scrittore di sentimenti, non di idee. Che gli altri lavorino e che
lavorino possibilmente anche al posto suo, non gli crea alcun disagio.
Intendiamoci, non voglio dire che il mondo gli piacesse così com’era,
più semplicemente era convinto che non sarebbe cambiato, non in meglio, e
che non valesse la pena sposare alcuna causa che non fosse la sua. In
altre pagine, però, è addirittura profetico nel rappresentare un’umanità
schiava del consumismo, al costante inseguimento di bisogni indotti .
“Non perdonerò mai il genere umano per quello che è diventato”, scrive.
Detto questo, Bukowski va letto tutto, c’è un Bukowski per tutti, basta
cercarlo. E lui si fa trovare.
Dal tuo libro traspare, per me in modo evidente, la passione che hai per Bukowski, da dove nasce e perchè?
R. Nasce per caso, da un’edizione senza copertina di Storie di ordinaria follia.
Il libro era di mia cugina, di un anno più piccola di me. Avevamo
quindici o sedici anni, non ricordo. In ogni caso eravamo due
adolescenti quando Bukowski ci conquistò. C’era il sesso a incuriosirci,
nascondercelo sarebbe disonesto, ma non c’era solo quello. Per me fu
una rivelazione. Cambiò il mio punto di vista sulla letteratura, non
solo americana. Cancellò tutte le letture obbligatorie scolastiche mal
digerite fino a quel momento. La letteratura poteva avere un suono più
potente di qualsiasi tromba e io sino a quel giorno avevo sentito solo
flebili lamenti di scrittori “di professione”, come li chiama Bukowski
con una punta di disprezzo. La letteratura era viva, non erano solo
pagine morte di autori morti. Dopo Bukowski forse non c’è stato il
diluvio ma, semmai, una pioggia di manierismo, una tempesta piatta di
pagine inutili, stucchevoli, finte, noiose. Con rare eccezioni,
naturalmente, ma non è un caso che Bukowski sia ancora oggi lo scrittore
americano più popolare in Europa e che continui a “sedurre” anche i
lettori più giovani.
D. La tua biografia mi sembra di una sobrietà e
di un equilibrio che sono difficili da mantenere di fronte ad un autore
tanto eccessivo. Come sei riuscito a non farti prendere la mano nello
scriverlo?
R. Forse perché ho lasciato passare tanti anni senza
rileggerlo e rispetto ad allora sono inevitabilmente più disincantato.
Il personaggio Bukowski non mi affascina più, non in quanto tale. È lo
scrittore che ammiro, quello che si mette controvento, che irride le
maggioranze, che demolisce i luoghi comuni e il politicamente corretto,
che si fa beffa dei verbosi e dei professori, che non fa gruppo, neanche
con la potente lobby dei Beat, che si ostina a rimanere solo, in piedi
sulle sue zampe di elefante, come definisce le sue gambe, di cui è
fiero. Uno scrittore che rifiuta le convenzioni sociali in nome di una
personale concezione dello stile. Chi vuole diventare scrittore,
dovrebbe prima leggere Bukowski per vaccinarsi, affinché la scrittura
non diventi mai menzogna. Bukowski è onesto e quando, negli ultimi anni,
si ritira in una casa con giardino in collina con la sua seconda e
ultima moglie, non prende in giro i suoi lettori. Non gli dà più in
pasto puttane, sbronze e risse ma offre se stesso: un Bukowski “maturo”,
riflessivo e per certi versi malinconico. Arriva persino a misurarsi
con un noir, un genere molto distante dalle sue opere precedenti. Molti
grideranno al tradimento, ma Bukowski rivendica il diritto di cambiare.
Avrebbe potuto continuare a “vendere” il personaggio e condire di sesso i
suoi racconti, come aveva sempre fatto, ma sceglie ancora una volta di
dire la verità, la sua verità, anche a costo di perdere qualche lettore
per strada. Cosa che, a ben vedere, non è successa, anzi…
Che cosa nel personaggio e nello scrittore veramente non sopporti ammesso che ci sia qualcosa che non sopporti?
Non c’è niente che io non sopporti. Credo che Bukowski
vada preso così com’è, senza tare. Più di qualcuno ha provato a passare
al setaccio le sue opere, a distinguere il Bukowski buono da quello
cattivo armandosi di evidenziatori e bianchetto, ma Bukowski è
indivisibile. Prendere o lasciare.
Che cosa pensi sia veramente caratterizzante nella sua scrittura?
L’autenticità, l’andare dritto al punto e ricominciare
subito, senza pause, spesso senza la maiuscola. Bukowski punta alla
verità, anche quando mischia le carte, persino quando sembra danzare
sornione sul ring della scrittura. Arriva presto il momento in cui
sferra il suo attacco ed è un piacere vederlo assestare i suoi colpi. È
arrabbiato col mondo. Non si allea con nessuno. Non scende a patti.
Combatte. Ne dà e ne prende, non si risparmia, rischia di soccombere,
rinasce dalle sue ceneri come la fenice. E il lettore se ne accorge, si
schiera dalla sua parte.
Nel
tuo libro viene raccontata la fortuna che ebbe l’autore prima in Europa e
solo poi negli USA. Perché ebbe tanta fortuna in Europa, anche se tu lo
definisci un autore profondamente americano?
I critici letterari si sono interrogati a lungo sulla
questione, c’è stato persino chi ha parlato di un autore dalla
sensibilità europea e Bukowski, da parte sua, strizzava l’occhio, stava
al gioco. Negli Stati Uniti era ancora un autore semiclandestino, noto
soprattutto negli ambienti dell’underground californiano, mentre in
Europa i suoi libri già venivano comprati e letti. È l’Europa che gli
aveva dato la ricchezza e la fama e non poteva non tenerne conto, ma non
è nella mera riconoscenza che si esaurisce il suo rapporto con il
vecchio continente. Non rinnegava le sue origini tedesche e negli anni
del college, per reagire allo spirito antitedesco dei suoi professori,
quasi tutti rigorosamente di sinistra, si divertiva ad assumere pose
naziste. E non dimentichiamoci che la seconda guerra mondiale si
apprestava a entrare nel “vivo”, figuriamoci con quale entusiasmo
venivano accolte le sue esternazioni pro-hitleriane. A muoverlo era il
suo furore provocatorio, il voler essere controcorrente,
indipendentemente da quel che poteva piacere o meno alla massa. Ma
Bukowski è americano a tutto tondo e a pieno titolo, lo è più di quanto
non lo siano l’America di cartapesta letteraria che è stata importata in
Italia dagli americanisti e quella cinematografica confezionata a
Hollywood ed esportata in tutto il mondo. Bukowski è l’America reale,
quella in cui il sogno americano non ha mai attecchito, quella senza
effetti speciali, quella dei derelitti, degli ultimi, dei dimenticati.
Il resto è fuffa da telefilm. L’America di Bukowski non è roba da format
televisivi. C’è più America nei racconti di Bukowski che in tutti i
film americani dal dopoguerra a oggi.
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la mia idea che tutti gli eccessi dell’autore siano accessori al suo
vero spirito che fu quello di rappresentare, seppur con un taglio
anomalo, verità e purezza.
Mi sembra la sintesi migliore. Verità e purezza, con un taglio anomalo. Sottoscrivo.
Anche se Bukowski li aveva in odio, pensi che ci sia qualcuno che ne possa raccogliere il testimone?
Bukowski non ha eredi e non può averne perché la matrice
era egli stesso. Chi lo imita, non può che esserne la fotocopia
sbiadita, la caricatura. Bukowski detestava i suoi emuli, i
sessantottini, i protestatari, i pacifisti e tutti coloro che lo hanno
usato come icona. A distanza di vent’anni la bandiera Bukowski può
essere ripiegata e messa definitivamente nel cassetto e si può parlare
dell’autore dai gusti letterari raffinati e sorprendenti, che amava
“colleghi” politicamente impresentabili come Céline, Pound, Knut Hamsun e
John Fante. Una bella banda di irregolari, proprio come lui.
Per ultimo pensi che noi, suoi lettori, siamo veramente tutti degli stronzi?
Un po’ stronzi? Sì. Forse sì. Ma Bukowski, al di là
delle battute, rispettava i suoi lettori, rispettava gli individui
almeno quanto disprezzava le masse. È quando siamo in tanti, che diamo
il peggio di noi stessi.
a cura di Mario Grossi
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