Il mito di Bukowski e le lacrime sospette del grande seduttore
Un poeta affabulatore costretto a diventare icona. La biografia di Alfatti Appetiti a vent’anni dalla morte
Aveva lo stomaco prominente del bevitore incallito e
l'aspetto del sopravvissuto, insomma l'aria di chi è andato in giro per
l'inferno, di bolgia in bolgia, ed è tornato a casa sbruciacchiato ma vivo. Alto
più di un metro e ottanta, camminava curvo e sovrastava l'interlocutore che si
ritraeva un po' turbato. Magari anche spaventato visto che Charles Bukowski
(nato come Heinrich Karl Bukowski, pseudonimo Henry Chinaski, nomignolo Hank)
aveva una faccia di quelle che non ti conciliano il sonno, con impressi "i segni
di una devastante forma di acne, occhi verdi e denti macchiati di nicotina". Una
maschera "che poteva mordere o sciogliersi in un sorriso". Ecco, nella biografia
intellettuale intensamente complice che Roberto Alfatti Appetiti gli ha dedicato
a vent'anni dalla morte ("Tutti dicono che sono un bastardo. Vita di Charles
Bukowski", Bietti, pp.331, euro 19) si coglie l'immagine debordante del poeta
ubriacone e puttaniere che inalbera il suo "troppo" (tra l'altro, si vantava di
essere stato con 2500 donne). Salvo poi, svelare le fragilità, ad uno dei tanti
"confessori", soprattutto femminili, "ça va sans dire", con cui si metteva a
nudo. E, una volta tanto, erano le intimità dello spirito, non altre, ad esser
portate allo scoperto…
Ecco quel che leggiamo in una lettera ad Anne Bauman:
"Penserai che sono il tipico bastardo crudele, ma questo è soltanto il lato che
lascio vedere alla gente - un blocco di cemento con due buchi per gli occhi e
una bocca che parla da un lato -. In questo paese ci è stato insegnato a non
farci vedere mentre piangiamo in mezzo alla strada. Facciamo un lavoretto
preciso, piangiamo tutto in bell'ordine contro un cuscino, di notte, in una
stanza che pensiamo non si accorga di niente". Bene, c'è da fidarsi delle
lacrime di Hank? Come ci ricorda Alfatti Appetiti, siamo di fronte a un "grande
affabulatore", a "un fiume in piena, un fiume che gli argini della realtà non
potevano limitare". Ed allora che fai, ti metti a dire "sì, qui c'è Bukowski
così com'era, nudo e crudo", oppure "qui Bukowski è sincero", o ancora "qui non
c'è lui così com'è, ma c'è il personaggio"? Impossibile. È tutto reale e al
tempo stesso è tutto "iperrealista" e frutto di ebbrezza onirica. La "finzione"
di Hank è "funzione" letteraria, compiacimento del caricaturale e del grottesco,
rimbaldiano "battello ebbro" che ha rotto gli ormeggi (ma Rimbaud, Bukowski l'ha
letto attraverso Henry Miller: sono tre "santi osceni" e si assomigliano
parecchio), dunque una cifra inventiva e creativa "scatenata".
Ora, su questa immagine si ritaglia perfettamente il tipo fa
a cazzotti, si sbronza e scopa come un dannato, prorompe in risate alla
Mangiafuoco e, non visto, si asciuga una lacrima tardo-romantica. E, per
parafrasare Carducci, "scrive e scrive e (non) ha molte altre virtù". Leggiamo:
"Scrivere per me è una funzione fisiologica. Senza mi ammalerei e morirei. È una
parte di noi come il fegato o l'intestino, altrettanto affascinante". Scrittura
corporale? Anche "il corpo ha un suo spirito", diceva Nietzsche. Ovvero uno di
quegli autori della galassia antidemocratica che Hank predilige. Tipi
politicamente scorrettissimi come Balzac, Shakespeare, Schopenhauer,
Dostoevskij. Per non parlare di Céline, Pound, Hamsun. Ma il grande cultore
dello stile e della forma Bukowski non è anche tra le icone della cultura
"beat"? Eccome, ma la cultura beat non ha mica nulla a che fare con miti e riti
della democrazia, con il progresso e l'"american way of life". Guardate Kerouac,
"sulla strada" della provocazione "antimoderna" e spiritualista dall'inizio alla
fine. O Ginsberg che, per Hank, diventa uno "stronzo" nel momento in cui
tradisce lo scandalo libertario dell'"Urlo" per trasformarsi in intellettuale
caro agli intellettuali.
Bukowski lo dice e lo ripete che lui non è un radicalchic e
tutte le sue opere in prosa o in poesia - da "Storie di ordinaria follia" a
"Panino al prosciutto", da "L'amore è un cane che viene dall'inferno" a "Tutti
gli anni buttati via" - confermano questa decisa non-appartenenza. Di più:
questo forte antagonismo. Bukowski detesta il mondo "liberal" e lo (mal)tratta
allegramente o furiosamente, così come (mal)tratta, in nome degli stessi
avverbi, negri e gay, pacifisti e femministe, coccolati dall'"intellighentsia".
Insomma, ragazzi - esorta Alfatti Appetiti, perfetto investigatore tra
esuberanze e intemperanze di Hank - prendetelo per quel che è. O lo mandate al
diavolo o lo accettate nello svariare delle scintillanti contraddizioni e nei
punti fermi.
La "beat" di sinistra Fernanda Pivano ci rimase male quando
vennero fuori i trascorsi nazi - chiamiamoli così - di Heinrich Karl - poi
Charles - studente di origini germaniche in Usa, alla vigilia dell'intervento
americano contro il Reich crociuncinato. Ci rimase male perché il patriota
tedesco Hank, già da allora "controcorrente", stava dalla parte della swastika e
non da quella delle "stars and stripes". Ci rimase male, ma come faceva a
mandare all'inferno uno che, per dirla con Alfatti Appetiti, riusciva ad essere
"in perfetto equilibrio tra la metà intellettuale e quella clownesca,
confezionando ogni volta un avvincente patchwork di cultura alta e pop"?
Insomma, Hank doveva per forza diventare un'icona. Dappertutto, dunque anche da
noi, in mezzo a plaudenti schiere di "alternativi" e "arcobaleni". Ma lui,
brutto e dannato, li sentiva come discepoli? C'è da dubitarne.
"A volte credo di essere solo al mondo - scriveva - A volte
ne ho la certezza".
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