Grazie al fiuto di segugio letterario di Gian Paolo Serino, che cita ancora una volta Tutti dicono che sono un bastardo. Vita di Charles Bukowski (Bietti) come la "migliore e più completa biografia scritta sinora".
Charles Bukowski inedito. Il sogno infranto del posto fisso
Fonte: SATISFICTION
A vent’anni
dalla morte – il 9 Marzo 1994- Charles Bukowski è stato celebrato
ovunque: su tutti i giornali, ma anche da scrittori e editori. Da
segnalare, tra tutti, Il Sole bacia i belli (raccolta di interviste
edita da Feltrinelli), Una torrida giornata d’agosto (poesie edite da
Guanda) e la biografia di Roberto Alfatti Apetitti Tutti dicono che sono
un bastardo (Bietti editore). Noi ricordiamo lo scrittore americano –
capace come pochi altri di cambiare l’immaginario collettivo dei lettori
degli anni ’70 e ’80 e oggi diventato un’icona grazie alla modernità
della sua scrittura- con un inedito. Si tratta una lettera (nella
traduzione di Michele Crescenzo) che Bukowski scrisse al suo primo
editore: lo stesso che lo portò al successo con la pubblicazione di Post
Office nel 1971, la storia di un postino ubriacone tra i bassifondi di
Los Angeles ed il primo in cui apparve Henry Chinaski detto “Hank”. Il
libro fu un vero caso editoriale: elogiato dalla critica soprattutto per
la capacità di Bukowski nel ritrarre i suoi personaggi come “frammenti
di persone che si trascinano avanti. Non individui completi, con delle
aspirazioni, realizzati o in viaggio verso l’integrità” e Los Angeles
come “La più grande città dell’universo, il posto più pieno di
sopravvissuti al gioco della vita, un posto dove uno può sfuggire agli
altri abbastanza a lungo per restare sano”. E in questa lettera del
1986, quando era al culmine del successo, Bukowski scrive proprio un
inno contro la vita insensata a cui ci riduce, molto spesso, il lavoro,
ma soprattutto l’ “etica” del posto fisso, la paura dell’avvenire da
disoccupati. Una lettera, purtroppo, di una modernità sconcertante:
sembra scritta oggi , ma risale, invece, agli anni dell’edonismo
reaganiano quando anche in America sembrava che tutto splendesse. Solo
adesso abbiamo capito che era solo luce riflessa.
Gian Paolo Serino
#
8 Dicembre 1986
Non penso
che faccia male, delle volte, ricordare da dove si è partiti. Tu conosci
i luoghi da dove provengo. Non come quelli che cercano di scriverci
sopra o di farci un film. Raccontano il mondo del lavoro come vogliono
loro: si dimenticano che non c’è più nessuna pausa pranzo gratuita,
tanto che molti dipendenti, pur di mantenere il proprio lavoro, saltano
anche il pasto. Gli straordinari non ormai quasi più registrati
correttamente e, se ti lamenti, c’è sempre un altro babbeo pronto a
prendere il tuo posto.
Quel che
fa più male è la costante diminuzione di umanità in coloro che
combattono per tenersi il lavoro perché temono un’alternativa ancora
peggiore. Sono corpi con teste ubbidienti e piene di paura. La luce
finisce per abbandonare i loro occhi. La voce s’imbruttisce. E il corpo.
I capelli. Le unghie. Le scarpe. Tutto va in quella direzione.
Quando ero
giovane non riuscivo a credere che le persone potessero desiderare di
rinunciare alla propria vita per ridursi a vivere in queste condizioni. E
da vecchio, non riesco ancora a crederci. Perché lo fanno? Per il
Sesso? La TV? Per un’automobile acquistata a rate? O per i figli? Per
bambini che faranno le stesse cose che fanno loro?
All’inizio,
quando ero molto giovane e passavo da un lavoro all’altro, ero
abbastanza stupido per redarguire i miei compagni di lavoro: “Ehi, il
capo può venire qui da un momento all’altro e sbatterci tutti fuori, ti
rendi conto?”
Loro avrebbero potuto almeno guardarmi. Ma stavo dicendo qualcosa che non volevano che entrasse nella loro testa.
Ora nel
settore dell’industria ci sono tanti licenziamenti e ogni giorno vengono
buttate fuori centinaia di migliaia di persone che rimangono intontite:
“Ci lavoravo da 35 anni …”. “Non è giusto …”. “Io non so cosa fare …”.
Gli
schiavi non sono mai pagati abbastanza da poter essere liberi: solo
quanto basta per sopravvivere e tornare al lavoro. Io ho visto e capito
tutto questo. Perché gli altri no? Mi sono reso conto che la panchina
del parco poteva essere un posto altrettanto buono, o anche diventare un
alcolizzato. Perché non arrivare lì da solo, prima che mi ci mettano
gli altri? Perché aspettare?
Ho sempre
scritto con disgusto contro tutto questo, ed è stato un sollievo
riuscire a mantenere la merda fuori dal mio sistema. E ora che sono
arrivato a essere un cosiddetto scrittore professionista, dopo aver
sprecato i primi 50 anni di vita dietro tanti lavori, ho scoperto che ci
sono anche altre cose disgustose nel sistema.
Ricordo
che una volta, lavorando come imballatore per un’azienda che produceva
lampade per illuminazione, uno dei miei colleghi improvvisamente ha
detto: “Non sarò mai libero!”.
Uno dei
capi stava camminando da quelle parti e si lasciò sfuggire una dolce
risata, godendo del fatto che questo tizio fosse stato intrappolato per
tutta la vita.
Ho avuto
fortuna a tirarmi fuori da quei luoghi, non importa quanto tempo ci è
voluto, quando è successo è stato come una specie di gioia, il jolly del
miracolo. Ora scrivo da una vecchia mente e un vecchio corpo, ben oltre
il momento in cui la maggior parte degli uomini avrebbero mai pensato
di iniziare un’impresa del genere, ma ora mi sento in dovere con me
stesso di continuare, e quando le parole incominceranno a venir meno e
avrò bisogno di essere aiutato a salire le scale e non sarò più in grado
di distinguere un merlo da una graffetta, una parte di me ricorderà
sempre (non importa quanto sarò andato lontano) come sarò arrivato qui.
Non aver sprecato del tutto la propria vita mi sembra una degna realizzazione, almeno per me.
Il Tuo vecchio Hank
(traduzione di Michele Crescenzo)
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