Scoperto da Leo Longanesi nel “Borghese”, il polemista campano Nino Longobardi [1925-1996], romano d'adozione, espressione di un'arcana e imprevedibile “destra immaginaria”, si consacrò nel “Messaggero” negli anni in cui stare nel “Messaggero” era come stare al governo: e lui ci rimase per vent'anni, curando per lo più la rubrica “Cronache italiane”. Viveva nel suo ufficio con una taccola di nome Geronimo (o Gerolamo), fregandosene della fama di stravagante che poteva venirgliene. Grande giocatore, per il suo primo biografo Roberto Alfatti Appetiti era una figura singolare: un destro ecologista ante litteram, narcisista e scostante; figlio di un podestà, nipote di un antifascista, era un outsider, un irregolare che non amava i dogmi e le verità assolute e i monoteismi, in genere (incluso il comunismo). Indispettito dagli antifascisti d'accatto, era capace di tenaci polemiche con i convertiti all'altra sponda, per lo più clamorosamente amnesici, come Giulio Argan. Antieuropeista, rivendicava con orgoglio la sua genuinità e non aveva paura di sbattere contro i poteri forti. Esteticamente, apparve a Marcello Veneziani “un incrocio tra uno sceriffo e un guappo, una specie di Fred Buscaglione del giornalismo”. Del suo cognome nordico non aveva invece né i colori né la freddezza.
Nella sua seconda vita professionale, Nino
Longobardi fu il mattatore di un programma televisivo di discreta fortuna
metropolitana (capitolina), su “TeleVita”, chiamato “I pugni sul tavolo”:
stando ad Alfatti, per quell'esperienza Longobardi va considerato una figura
catodica proto-sgarbiana, e addirittura proto-pentastellata (nella loro ultima
campagna elettorale per le europee, i figli di Grillo e Casaleggio hanno
pubblicato un videospot che Alfatti considera “caricaturale riproposizione”
dell'estetica longobardiana, con i figuranti a battere i pugni sul tavolo). Cadde
decisamente in disgrazia quando mezza Italia lesse, direi inaspettatamente, il
suo nome nei sulfurei elenchi della P2; più ancora, quando qualche anno dopo
addirittura difese Craxi, mostrando piena solidarietà per le oscure e sinistre
vicende di Tangentopoli; nel tempo, la sua memoria è andata stingendosi, fino a
questo inatteso libro-tributo.
“Nino Longobardi. Il Re del giornalismo che
prese a pugni i potenti” [Historica, 2016; 200 p., euro 16; “fuori collana”] è
un libro che ho atteso con viva curiosità per due ragioni: la prima è che
quando Roberto Alfatti Appetiti mi ha parlato dell'argomento ho subito ammesso
di essere tabula rasa, e anzi ho detto “figurati se un Franchi è amico di un
Longobardi”, per giustificare il buio pesto che circondava quel nome; la
seconda è che la precedente biografia di Alfatti, “Tutti dicono che sono un
bastardo. Vita di Charles Bukowski” [Bietti, 2014] è stata un'esperienza
estetica spiazzante, coinvolgente e complessa, e non sapevo bene cosa
aspettarmi da una nuova biografia alfattiana. Allora, per onestà, dividerei a
questo punto l'analisi in due parti; una prima dedicata solo al libro e al suo
protagonista assoluto, la seconda dedicata all'autore, e a una primitiva
lettura della sua estetica.
Il Nino Longobardi restituito dal notevole
lavoro di documentazione di Alfatti è una figura che politicamente trovo spesso
molto respingente: uno che spedisce nel giugno del 1992 un telegramma di
solidarietà a Craxi, a nome suo e della redazione della sua rivista dell'epoca,
è per me l'incarnazione cristallina dell'antagonista politico, e anzi se ci
penso sbianco e mi si dilatano le narici; glisso sulla questione della P2,
perché per quanto abbacinante quella è una vicenda in cui non si può escludere
che qualcuno sia finito in mezzo per ingenuità o per avventurismo, forse
soprattutto tra i giornalisti e tra i pesci piccoli, in genere; diversamente mi
riconosco molto nel fastidio di Longobardi nei confronti della cultura egemone,
nella sua diffidenza per i troppi “partigiani in differita”, per gli eccessi
fanatici e morbosi di certo antifascismo rancido, per i trasformismi da insetto
di certe figure della politica e della cultura italiana. Non riesco però a
intravedere le caratteristiche politiche che fanno di un uomo un modello in chi,
come Longobardi, ha assunto o s'è trovato in certe posizioni, fosse anche per
il brutale gusto della provocazione; invece, ci leggo una bella letterarietà,
un'attitudine magnetica alla contraddizione, magari un briciolo di pazzia, un
clamoroso cinismo che poteva figliare qualche caustico corsivo e magari qualche
sketch o qualche battuta memorabile. Ci vedo quell'arroganza classica degli
indignati di tutte le epoche, forse nel suo caso più masaniella e popolana che
rugantina (a Torre del Greco si parla un altro dialetto...), ci vedo
un'attitudine alla sconfitta e al “gioco a perdere” che probabilmente è
l'espressione di un genetico antagonismo (assoluto: politico, estetico,
funzionale). So che adesso, se per bancarelle mi dovesse capitare di incontrare
uno dei suoi pochi libri, da “Il figlio del podestà” (Rusconi, 1976) a “Diario
di un ex fumatore”, almeno mi fermerei a sfogliarlo, per fiutare se ha il passo
da scrittore oppure se era semplicemente un giornalista di costume pieno di
stoffa e di mestiere. Questo è merito di quel che Alfatti mi ha restituito:
escludo infatti di aver mai sentito fare il nome di Longobardi negli ultimi
vent'anni, nel mio vecchio circuito universitario come più tardi in quello
editoriale, oppure semplicemente in quello dei lettori forti. Probabilmente s'è
trattato di una delle solite forme italiane repubblicane un po' stronze di
damnatiomemoriae, più però per imprendibilità del personaggio che per
appartenenze politiche (che si intravedono fragilissime, quando esistenti, e
comunque mai partitiche). Che Longobardi non fosse marxista mi pare pacifico e
ovviamente mi pare qualcosa di cui rallegrarsi: cosa in compenso fosse, però,
non sono riuscito a comprenderlo. Uno a cui non gliene fregava niente? Uno che
non voleva appartenere a niente? Uno che voleva solo fare il giornalista?
“Mezzo e mezzo”.
Nel contesto della poetica di Roberto Alfatti
Appetiti, invece, questo libro assume ragioni di fascino e di interesse perché
ha buona parte del dna condiviso con la biografia bukowskiana; Alfatti va a
raccontare una figura irrisolta, contraddittoria, a dir poco eretica; spende la
parola “bastardo” per entrambi, probabilmente con qualche ragione; va
arruolando entrambi in quella microgalassia anarchica di figure “irregolari” e
“destre” che tanto chiaramente si stagliano nel Novecento in tutto quello che
oggi consideriamo Occidente, espressioni di intelligenze e personalità poco
allineate, mai convenzionali, raramente conformi: in parole povere, di anime
coraggiose e franche.
Alfatti stavolta non doveva studiare una
bibliografia particolarmente sterminata, come nel caso di Bukowski; stavolta
aveva la missione di restituire luce a una figura caduta, chiaramente e devo
dire abbastanza inspiegabilmente, nel dimenticatoio. È riuscito nel gioco,
anche se devo ammettere che mentre nel caso della sua prima biografia ero
uscito dalla lettura con la sensazione chiara che si fosse trattato di un
lavoro esaustivo ed esauriente, stavolta invece ho avuto la sensazione che
molte cose non fossero dette o analizzate nell'interezza (e nella complessità,
e forse nella pericolosità: da vari punti di vista) che potevano assumere. È un
bel morso alla mela, questo libro, ma qualcuno deve finire di mangiarla.
Ammesso che abbia coraggio e soprattutto che riesca a trovare le fonti. Ripeto
– è solo una sensazione. Detto ciò, aspetto il prossimo saggio di Alfatti in
pila in tutte le librerie nazionali: è decisamente ora di uscire dalla piccola
o dalla microeditoria, la personalità autoriale è chiara, forte e
riconoscibile, e il fiuto non manca; nemmeno il cuore.
Gianfranco Franchi. Monteverde, 21 ottobre 2016.
Titolo: Nino Longobardi. Il re del giornalismo che prese a pugni i potenti
Autore: Roberto Alfatti Appetiti
Casa editrice: Historica Anno: 2016
ISBN: 9788899241865
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