martedì 23 gennaio 2007

«Salviamo Tex dal buonismo imperante»











«Salviamo Tex dal buonismo imperante»
Sergio Bonelli difende i suoi eroi, ancora oggi vittime del politicamente corretto.

Dal Secolo d'Italia del 23 gennaio 2007

Sergio Bonelli è un irriducibile amante dell’avventura classica, alimentata con talento e passione da quel fortino assediato (e minacciato) dal neorealismo e dal politicamente corretto che è la Sergio Bonelli Editore. Ha ripagato la fortuna di fare un lavoro che gli piace, «l’unico che saprei fare», con l’entusiasmo inesauribile e contagioso che rende le “nuvole parlanti” italiane ancora ben presenti nel mercato editoriale internazionale come nell’immaginario collettivo di giovani e meno giovani. Altri narratori di storie che con lui hanno caratterizzato gli anni d’oro del fumetto italiano, non ci sono più. Nel ’95 sono scomparsi Bonvi e «l’amico fraterno» Hugo Pratt, autori di personaggi indimenticabili come le Sturmtruppen e il marinaio Corto Maltese. Benito Jacovitti - il creatore del cowboy Cocco Bill, le strisce che sui mitici Diario Vitt hanno fatto compagnia a più generazioni di studenti - è morto nel ’97.
Sergio Bonelli, invece, è vivo e in ottima salute e "lotta insieme a noi", fumettari impenitenti cresciuti con Tex, Zagor e Mister No (il primo, prossimo ai sessant’anni di età, rimane il fumetto più venduto in Europa, il secondo resiste gagliardamente e il terzo – per il momento - è stato pensionato). Un debito, il nostro, che è aumentato a dismisura, di contro alle nuove serie che Bonelli ci ha regalato in questi anni, trasportati da un filo d’immaginazione che attraversa e mescola sapientemente generi diversi: dal detective dell’impossibile Martin Mystere all’indagatore dell’incubo Dylan Dog, fenomeno rivelazione degli anni Novanta, da Magico Vento, riuscito western moderno, alla criminologa Julia, che con l’albo di gennaio festeggia i primi cento numeri.
Io,, personalmente, ogni mese vado in edicola e prendo Zagor, lo infilo nel Secolo d’Italia e me ne torno a casa. Inizia con una confessione, la mia, una lunga intervista al padre (con lo pseudonimo di Guido Nolitta) dello Spirito con la Scure e Jerry Drake. Lo incalzo.
Acclarato che Tex è di destra, non mi dica che Zagor è di sinistra, non lo sopporterei, non dopo tutti questi anni.
L’ha detto lei. (L’editore ride, divertito, ndr). Noi ci sforziamo di non trasmettere idee politiche, è una responsabilità che non credo sia giusto prendersi, sono altri gli strumenti per decidere da che parte stare. In una stessa storia possono coesistere suggestioni di destra e di sinistra, ma da parte nostra non c’è mai stata alcuna volontà di metterci in cattedra.
Però la Bonelli è considerata una casa editrice politicamente scorretta. Tex ancora alle soglie del 2000 è tornato nel mirino dei moralisti perché istigherebbe a bere e fumare, insomma: uno sconsiderato dai modi brutali e dalla vita dissoluta. Come ha detto Massimo Fini, non è certo un eroe da oratorio.
Questo sì. Ricordo che trent’anni fa bastava molto poco ad essere considerati scorretti o non allineati. In Italia e solo in Italia era sufficiente scrivere la parola “negro” per essere accusati di razzismo. Da allora le cose sono cambiate, ma quando in una storia c’è da indicare il cattivo tutto diventa complicatissimo. Prima potevano essere i messicani, poi i cinesi, oggi chiunque è pronto ad offendersi, lettere di protesta ne arrivano sempre… “Ma come ti sei permesso?” mi chiedono.
Recentemente è stato lanciato un accorato appello da Rino Camilleri affinché Diabolik venga salvato dal buonismo. Non mi sembra che gli ipervitaminici personaggi Bonelli corrano questo rischio, quando c’è da darle e prenderle non si tirano indietro e all’occorrenza non esistano a mettere mano alla pistola.
La nostra è una scelta precisa, condivisa da chi lavora con me e, credo di poter dire, dai lettori, con i quali abbiamo una consolidata e tacita intesa. Mio padre (sceneggiatore negli anni '30 con Carlo Cosso di molte storie del "fascistissimo" Dick Fulmine, poi creatore di Tex, ma soprattutto dell’italianissima striscia, dell’albo giornale e di quello attuale a costa e ovviamente fondatore della casa editrice, ndr) provava una sconfinata ammirazione per la forza fisica e non a caso uno dei primi personaggi che realizzò per la sua Audace fu il pugile Furio Almirante. Niente a che vedere con il Signor Bonaventura e il Corriere dei piccoli, per intenderci. I nostri sono eroi tradizionali e anche quando si misurano con la modernità lo fanno senza perdere mai di vista i loro valori e la propria identità, anche quando è contraddittoria. Persino Nathan Never, che è un personaggio proiettato nel futuro, in un’epoca immaginaria dove non ci sono più libri cartacei, quando rientra a casa legge o ascolta un disco, meglio se in vinile, non usa il cellulare e non guarda mai la televisione. E lo stesso vale per Dylan Dog e persino per me, che non ho un telefonino.
Com’è stato negli anni il rapporto con la cultura dominante, con i depositari dell'egemonia accademica?
Pessimo, almeno fino alla fine degli anni Settanta. Poi dagli anni Ottanta qualcosa ha cominciato a cambiare. Fino ad allora i fumetti venivano considerati alla stregua di materiale pornografico, i genitori pensavano che i figli morissero dalla voglia di leggere Manzoni (ride, ndr) ed erano preoccupati che i fumetti potessero traviarli, distrarli da letture più importanti, incoraggiandoli alla pigrizia. Da parte nostra non abbiamo mai cercato di compiacere critici, intellettuali e politici, ma solo di rivolgerci al nostro pubblico e ai suoi sogni.
Del resto Togliatti costrinse Vittorini a chiudere il Politecnico perché divulgava fumetti, Nilde Iotti su Rinascita nel ’51 scrisse che «la gioventù che si nutre di fumetti è una gioventù che non legge e questa assenza di lettura non è l’ultima tra le cause di irrequietezza, di scarsa riflessività, di deficiente contatto col mondo circostante e quindi di tendenza alla violenza, alla brutalità, all’avventura fuori dalla legge».
Appunto, ma i nostri peggiori nemici sono stati gli educatori scolastici, erano infastiditi dal fatto che le nostre storie trattassero tematiche più affascinanti sia delle ideologie che dei libri di testo. Molto dopo hanno capito che il fumetto poteva diventare uno strumento utile anche a fini didattici. Ma io non mi sono mai piegato a quest’uso improprio del fumetto. Tante volte, ad esempio, mi hanno proposto di disegnare una storia dei romani. La scuola può diventare un business per un editore, ma rimango convinto che siano due cose diverse. No, il mio lettore deve poter dimenticare la scuola: il vero fumetto è avventura pura, evasione, immaginario. Il che non significa che un prodotto fatto bene non possa sollecitare il lettore ad approfondire certi temi ed agire come stimolo per letture più profonde, ma questo non c’entra niente con la scuola…
Eppure qualcuno sostiene ancora che il fumetto è anticulturale, quali sono i vostri riferimenti letterari e cinematografici?
C’è ancora chi tratta con sufficienza la cultura di massa e il fumetto altro non è che letteratura popolare. Ma lo fa sbagliando, spesso in malafede. Nelle nostre storie invece si sente l’influenza di classici dell’avventura come Jack London, Joseph Conrad, Robert Stevenson, Emilio Salgari e soprattutto del romanzo western di Zane Grey e Louis L’Amour, ma anche dei racconti popolari a puntate, i cosiddetti feuilleton. Con un occhio sempre rivolto al grande cinema hollywoodiano, alla fisicità straordinaria di attori come John Wayne e Gary Cooper. Naturalmente oggi cerchiamo di intercettare i gusti dei più giovani, affrontando generi, come il noir e le detective-stories, la fantascienza, la fantasy e persino l’horror, lontani dalla nostra produzione iniziale.
Chi, tra i suoi colleghi le manca di più?
Sicuramente Hugo Pratt, insieme realizzammo tre dei trenta libri della nostra serie “Un uomo, un’avventura”, una collana raffinata alla quale collaborarono gli autori migliori dell’epoca, da Milo Manara a Dino Battaglia e tanti altri. Ma non potevamo lavorare insieme, eravamo troppo amici, preferivamo andare al cinema e chiacchierare. Il suo approccio al disegno era rivoluzionario e lui era un tipo imprevedibile, un gran lavoratore, eppure per diventare famoso dovette andare in Francia. Lì, come in Spagna, il fumetto è considerato un’opera d’arte, si investe di più, si pubblicano volumi di grande qualità, in carta patinata a colori, distribuiti nelle librerie, c’è un mercato più vivace.
Com’è cambiato il “fare fumetti” negli ultimi anni?
Il nostro lavoro è diventato più difficile, il pubblico è preparato, informato, ha sviluppato un maggiore senso critico. La scuola del cinema e quella della televisione lo hanno reso giustamente più esigente, ora non si nutre solo di fumetti, ha mille occasioni di evasione. Certe cose fanciullesche oggi non verrebbero accettare, la scelta delle storie diventa un’operazione complessa e catturare l’attenzione dei lettori meno facile, abituati come sono a cambiare gusti e interessi.
Il vostro Legionario, omaggio a quella tendenza dei comics che viene definita con espressione anglosassone “graphic nouvel”, ha riscosso molto successo, così come le miniserie di Brad Barron e Demian. Che programmi avete per il futuro?
Sì, sono stato contento di realizzarlo, si è trattato di un ritorno alle origini. Ho sempre avuto un debole per il mito della legione ed ho voluto cogliere l’opportunità di rinverdire una tematica da parecchie stagioni lontana dalle edicole. Le faccio due anticipazioni. Entro l’estate del 2008 partiranno due nuove serie, una a dire il vero è un po’ ardita, ottocentesca, ed ha come sfondo la guerra d’Africa, un tema mai toccato dai fumetti, l’altra è vagamente fantascientifica, ma sul genere di Jules Verne, più vicino alla nostra sensibilità.
E noi aspettiamo, mister Bonelli. L’edicola non sarà più - come ha detto lo scrittore Valerio Angelisti - la «vera fonte di alfabetizzazione degli italiani», ma rimane per molti un’insostituibile fonte di sogni.






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