venerdì 7 settembre 2007

Aquile, zanzare e altri animali di destra (di Conan)

Nella vignetta la prova inconfutabile che Bart è antifascista!
Aquile, zanzare e altri animali di destra
di Conan
dal Secolo d'Italia di venerdì 7 settembre 2007

Ammettiamolo: stiamo leggendo tutti (noi "Conan", intendo) il pamphlet di Alessandro Giuli Il passo delle oche. Le telefonate frullano, i telefonini trillano. Ne stiamo assaporando, come in un pulp, la carica contro il mondo della destra culturale (ma sarebbe meglio dire che prova a fare cultura). Ci sarà il dibattito, eccome se ci sarà, ci sarà sicuramente chi gli risponderà presto con serietà argomentativa, con compostezza caratteriale, profondità intellettuale e introspezione psicologica. "Con stile", direbbe Giuli, da perfetti "uomini di destra". No, non è questo il luogo adatto per un discorso di tale altezza, che, forse, solo le aquile potrebbero ascoltare (e capire). Questo è il luogo per fare qualche domandina semplice semplice, terra terra, là dove volano le zanzare, all'amico Giuli. Se la destra culturale non può parlare di Vasco Rossi, se non può azzardarsi di dire che "Bella Ciao" fa parte dell'immaginario collettivo italiano, se non può dialogare con Federico Moccia, se non può appassionarsi per le canzoni di Franco Battiato, se non può dire che, sì, quell'autore ci piace per questo e quello. Se la destra italiana non può entrare nel dibattito contemporaneo, in ciò che si muove (non in quello che sta fermo, per l'eternità), se non può nemmeno giocare un po' e prendere con leggerezza, senza paranoie, angosce, afflizioni, una società che, in fin dei conti, non è che ci fa così tanto schifo da farci decidere di battere in ritirata in qualche caverna ad eremitare tra pochi intimi. Se non può parlare di cinema, fumetti, internet, moda e modi, di libri, romanzi e musica. Di musica, per fortuna, anche quella decadente e "negroide". Se non può fare tutto questo, cosa dovrebbe fare questa destra? Dovrebbe, forse, come sembra proporre il nostro, mettersi lì ad osservare le rovine circostanti, "l'impazzimento del termitaio umano abbacinato dal progresso"? Grazie del consiglio, caro Giuli. Ma, c'è da sperarlo con tutta la leggerezza di cui siamo capaci, nessuno sarà così serio e compito da seguirlo fino in fondo. Anzi, fino in cima.

PS. Conan non sono io, né so di quale collega sia lo pseudonimo. Sta di fatto che i suoi corsivi sono sempre interessanti e intelligentemente "provocatori". Li pubblico (e raccolgo) qui con l'intento di sottrarli alla breve vita dei quotidiani e confidando di alimentare - se vi va - un confronto sui contenuti.

13 commenti:

Anonimo ha detto...

Provocare,provocare,
qualche molecola si attiverà.

Mi fido della lettura fatta dal buon Conan, e ovviamente dissento dalla conclusione;
le aquile della D o D.R. ,o almeno quei volatili (almeno fossero per diabetici o ipertesi..)che si referenziano a tale altitudine
bramano alle rovine.
Già che si referenzino (in auto),spiega molto, vuoi per patologiche vertigini pavidamente mascherate da virtù;
vuoi per la tangibilità delle rovine,visto il futuro di questi volatili

Anonimo ha detto...

Il libro - che ho letto con curiosità - è un atto d'accusa, intransigente quanto sprezzante, nei confronti della destra liquidata tout court come "finiana" e di ogni tentativo di movimentismo culturale lontano dalla polverosa (per via dei calcinacci) retorica evoliana dell'uomo tradizionale in piedi tra le rovine della modernità. Suggestioni evidentemente ancora care all'autore, che riesce a citare il filosofo ben quindici volte.
Intendiamoci, a demolire (tanto più se trattasi di rovine) ci vuole poco e Giuli lo fa con un accanimento spropositato e unilaterale, salvando solo - dal triste mondo dei neoconformisti prezzolati, confusi o depressi (Veneziani) che hanno fatto o fanno da "corona" a Fini - Buttafuoco e De Turris (peraltro due intellettuali di spessore, ma non più di altri che invece vengono fatti a pezzi o sbertucciati con giovanile insolenza). La domanda sorge spontanea: perchè? Per comprensibili motivi di riconoscenza personale? Del resto, Giuli è, come egli stesso si definisce, un "salariato" del Foglio e De Turris lo ha chiamato a collaborare all'Argonauta. Pertanto si diventa geni o servi sciocchi a seconda del grado di considerazione (o di non considerazione) che si ha di Giuli che, a giudicare dal tono virile del libro, ha una visione giulicentrica del mondo.
Quel che rimane inespressa è l'alternativa al disprezzato mondo finiano e rispettivo codazzo di fedelissimi, esposti al pubblico ludibrio, che Giuli si guarda bene dall'indicare . A meno che non consideri Giuliano Ferrara - intellettuale intelligente e arguto - il nuovo Evola. De gustibus. Sta di fatto che Giuli - in questo instant book sufficientemente "pittoresco" da attirare la curiosità morbosa delle redazioni giornalistiche affette da "mielismo" (definizione giuliana) - manca soprattutto di quello "stile" la cui importanza pure si azzarda a richiamare nel vivere quotidiano. Un libro di pettegolezzo e cattiverie, organico (consapevolmente?)ad una campagna antifiniana che poco ha a che fare con la destra, vecchia e nuova.

Anonimo ha detto...

Ma "Lui" e "loro" dimenticarono, forse, il "proprio" tanto criticato Pier Paolo Pasolini della Valle Giulia del 1968 o l'altret-tanto Paolo Spriano??
Rimembrate... rimembrate....

Anonimo ha detto...

Scusate,
ho dimenticato di lasciare la firma al mio intervento:

Cordialmente
Susanna Dolci

Anonimo ha detto...

Il compianto Pasolini non solo difese i poliziotti che all'epoca erano i figli del proletariato ma ebbe anche contatti con il poeta ebreo/americano di simpatie fasciste Ezra Pound il quale nonostante le ingiustizie subite alla fine della guerra non si unì alla schiera degli antifascisti della domenica del dopo 25 luglio o del 25 aprile come fecero Dario Fo e Giorgio Bocca.

Roberto Alfatti Appetiti ha detto...

L'ho appena acquistato, vi saprò dire.

Anonimo ha detto...

Non ho letto il libro. Però, da lettore (sebbene tardivo, dal 1991) de Le Vace della Fogna, Diorama e Elementi, da persona proveniente da sinistra che però su queste cose si è informata attraverso quei testi, facendosi coinvolgere nel (ideale) processo di superamento della dicotomia destra/sinistra, trovo questo dibattito vecchio.
La destra finiana non ha certo molto da offrire culturalmente, ma dubito ne abbia anche la sinistra D'Alemiana o Bertinottiana. In ogni caso, su cosa servisse Evola già s'interrogava Solinas al principio degli anni '80, così come su certo tradizionalismo, in una lettera a Marco Tarchi (cito a memoria, ma il quesito era più o meno: "fantastico interrogarsi sul numero di braccia della dea Kali, però io dopo un po' mi rompo le palle..."), ed è chiaro che l'allora Nuova Destra (ora fuori da qualsiasi destra, come da questo contesto, ma il mio riferimento è storico) già s'interrogava su un nuovo immaginario metapolitico e culturale.
Domanda vecchia, argomento obsolescente e incapacitante. Se la destra attuale, sdoganata, continua a porsi questi interrogativi, vedendo in Vasco Rossi un argomento di dibattito, temo che siamo mal messi. Indietro almeno di 20 anni.
Roberto, continua con la tua ammirevole opera culturale. Hai tutto il mio appoggio.

Roberto Alfatti Appetiti ha detto...

Grazie Claude, la stima è reciproca.
Posto, in attesa di leggere il libro, una recensione che ho trovato sul corriere.it (del 5 settembre, 2007.

RITRATTI La destra italiana da Almirante a Fini: un saggio caustico di Alessandro Giuli

Post-fascisti per caso, da Salò a Sarkozy
La marcia degli eredi del Msi dalle catacombe al potere

A chi il potere? A noi!, rispondono insieme i seguaci di Gianfranco Fini, ex e post camerati, oppure mai stati camerati, nostalgici o futuristi, modernisti neo-sarkoziani o sulfurei cripto-evoliani, sociali o movimentisti, giovani nazionali affiancati da atletiche bellezze mussoliniane. A noi!, dunque, nel senso che una volta smarrito lungo la strada tutto il resto, dai valori sansepolcristi all' ideologia corporativa, e dal momento che anche la nostalgia non è più quella di una volta, tanto vale darsi da fare ad afferrare, se non il vero potere, almeno una bella fetta di successo. Così descrive la variopinta tribù di Alleanza nazionale Alessandro Giuli; decisamente al riparo data l' età - trentadue anni - da qualsiasi sospetto di vendetta personale tardo-fascista, firma del Foglio ma sufficientemente introdotto nella cultura di destra da poter raccontare quel che si prova, oggi, militando laggiù. Il passo delle oche, oltre che un titolo ironico, è una rappresentazione icastica del modo di procedere della tribù «aennina»: un' andatura senza altro obiettivo che la «legittima aspirazione di conquistare il potere». Legittima? Certo, se si ripensa al tempo delle catacombe, gli anni ' 50, ' 60, ' 70, quando dichiararsi missini significava non solo rischiare le botte, ma anche l' esclusione vita natural durante da qualsiasi posto in consigli d' amministrazione, vertici di Stato, redazioni, case editrici non di nicchia, insomma da qualsiasi luogo decentemente lottizzabile dai partiti dell' arco costituzionale. Poi, come si sa, le cose cambiarono dopo Tangentopoli: visto che tutti gli altri o quasi si rivelavano corrotti, persino i «fascisti» si potevano rivalutare, se non altro perché si supponeva che, costretti nel loro ghetto, non avessero trovato il modo di contaminarsi. Così, ricorda Giuli, ecco i «neri» uscire dalle catacombe e farsi avanti con molte pretese di moralità, ecco i giovani di destra unirsi ai loro coetanei pre-girotondini e gettare le monetine addosso a Craxi, fuori dall' hotel Raphael, autoproclamandosi portatori di uno stile, di un' austerità morale degna degli azionisti, o dei berlingueriani d' un tempo. Se non che - constata Giuli - una volta messi alla prova i nostri eroi hanno «sbracato». Si è visto cioè che, sotto il doppiopetto che aveva sostituito a suo tempo la camicia nera, non c' era niente. O meglio, niente di più o di meno di quello che avrebbe potuto animare un bravo giovane berlusconiano, modellato sui valori e le aspettative di carriera di Publitalia. Per dirla in maniera ideologica - e sempre con Giuli - si è visto che l' abiura del fascismo, sanzionata nel famoso congresso di Fiuggi, era più che altro un gesto formale, dal momento che in realtà il gruppo dirigente «aennino» non era mai stato realmente fascista. E, per dire la verità, non lo era stato più nemmeno quello modellato in maniera abilmente compromissoria da Giorgio Almirante. E dunque: l' altro ieri neofascisti per caso, ieri missini per necessità, oggi post-fascisti per convinzione liberatoria e domani antifascisti per logica di causa ed effetto, i nostri eroi procederebbero «dal quasi nulla al nulla». Una bella parabola, non c' è che dire, culminata nella famosa ripulsa di Gianfranco Fini, nel sacrario ebraico di Yad Vashem, con la kippah in testa e la famosa frase sul fascismo come «male assoluto» (giudizio in realtà attribuito più limitatamente alle leggi razziali del 1938). Non sarebbe giusto, naturalmente, liquidare tutto ciò in una serie di sketch o caricature, e tuttavia questo procedere dei «post-fascisti per caso» verso l' agognato approdo finale del Partito popolare europeo sembra fatto apposta per far sbizzarrire i professionisti della satira. L' occasione di vedere un ex ragazzo di Salò in grisaglia sarkoziana o post-democristiana, bisogna ammetterlo, è ghiotta. Di per sé assicura una miniera inesauribile di personaggi su cui acuminare le penne. Si comincia dal mitico Giorgio Almirante degli anni di ferro, descritto da Giuli come un «abilissimo impasto politico di realismo deideologizzato», capace, «nella sua ambiguità», di raffigurare «con cinquant' anni di anticipo il decorso mentale e materiale dei camerati di Salò». Si continua naturalmente con il suo delfino pienamente realizzato, quel Gianfranco Fini tutto dedito a un «avventurismo nomade finalizzato alla ricerca del successo», ma in fin dei conti capace soltanto di tenere fermo il suo «piccolo timone lì dove l' aveva posizionato Berlusconi». Poi, ci sono i comprimari. Ecco l' ex segretario del Fronte della Gioventù, ed ex ministro, Gianni Alemanno, cresciuto all' ombra del suocero Pino Rauti, che «nasce culturalmente incendiario e matura tessitore», ricalcando nei confronti di Fini lo stesso schema adottato da quest' ultimo verso Berlusconi: un po' di contestazione, una moderata fronda e l' immancabile allineamento finale. Liquidato Ignazio La Russa (come «pittoresco scacciapensieri»), ecco Francesco Storace, che «esemplifica il rapporto intimo e contorto fra la presunta diversità dei post-fascisti rispetto alla tradizionale nomenklatura italiana e la loro trionfale caduta nel regno della banalità partitocratica che livella verso il basso». E che dire della sua avversaria, Alessandra Mussolini, nota come soubrette fino al 1992, in seguito capace di imporsi «prima come una persona che di cognome fa Mussolini e poi come donna capace di prendersi a calci in televisione con la ministra comunista Katia Belillo?». Di fronte a lei, persino il «marchio pubblicitario Daniela Santanchè», nonostante il glamour che le conferiscono le frequentazioni con Flavio Briatore, è soltanto «un fenomeno patinato godibilissimo». Quanto all' altra donna in evidenza, Renata Polverini, «non c' entra niente con An ma per volontà di Fini ne guida il sindacato di riferimento, l' Ugl». Sul piano culturale, spiccano «l' esasperazione giudaico-evangelica statunitense» (di Alfredo Mantovano) e «il neodestrismo abramitico e islamizzante» (di Franco Cardini), oltre naturalmente agli irregolari «stazzonati come Marcello Veneziani che ripiegano nell' intimismo vittimista». Senza dimenticarsi di Pietrangelo Buttafuoco, teorico di una «televisione di destra» da trapiantare nel corpaccione della Rai. E poi c' è il Secolo d' Italia in blocco, voce un tempo maledetta del partito, che oggi insegue il vezzo giornalistico di tutte le possibili e immaginabili, pittoresche attribuzioni alla destra, da Gobetti a Lola Falana, passando per Moana Pozzi e il bestsellerista Federico Moccia, sempre all' insegna dello slogan «strano ma nero». Ma l' icona della tribù resta pur sempre quella del leader, Gianfranco Fini, l' ex ragazzo «contro» che aveva il coraggio di ammirare i Berretti Verdi di John Wayne nelle sale cinematografiche della rossa Bologna, in seguito abbandonatosi alla malinconia, anzi alla depressione, nel Transatlantico di Montecitorio, durante «l' estate lunghissima del 2006», «con gli occhi deprivati di luce». Un fumatore dedito sempre più di frequente alle «pause sigaretta», però con il coraggio di confessare: «In fondo è bello stare all' opposizione perché non si fa praticamente nulla», e poi, in un soprassalto d' orgoglio ferito: «Ma insomma, questo Cavaliere non si capisce se davvero vuole investire su di me oppure mi prende in giro». Il libro di Alessandro Giuli, «Il passo delle oche», editore Einaudi, pagine 176, 14,50

Fertilio Dario

Anonimo ha detto...

Concordo con Claudio Ughetto.
Rimando un'altro ragionamento a dopo la lettura del libro

Anonimo ha detto...

Caro Roberto,
ritengo che il corsivo sia oltremodo interessante anche perché pone un problema di non trascurabile importanza. Credo che la "cultura" non sia né di destra, né di sinistra (un po' come Giorgio Gaber che si chiedeva "cos'è la destra, cos'è la sinistra..."). In fondo tutti vogliono appropriarsi della cultura dandole un connotato ed un attributo così come tutti vogliono discettar d'arte e di cosa sia, ma l'arte, in quanto ricerca di una definizione rigetta una definizione di sé stessa.
Il problema sta nel fatto che per anni si è detto che la destra è incolta ed ignorante facendo riferimento ad alcuni suoi leader passati o presenti. Il problema sta nel fatto che mentre a sinistra vantano Asor Rosa, Argan (quello delle teste di Modigliani per capirci), Petronio and so on, per trovare qualcuno da citare a destra occorre ricorrere a Croce (che era poi liberale) o De Sanctis (che era dell'epoca tardo risorgimentale o del primo regno d'Italia). Mario Sansone o Praz sono meno noti perché a sinistra accettano solo Gramsci e poco più (presto neanche lui perché a sinistra il revisionismo è sempre di moda). Eco non va bene, anche se non è certo di destra, perché ciò che conta nel mondo della cultura italiana (anche quella puramente letteraria) contano solo gli scrittori impegnati e cioè quelli che parlano di sociale, immigrati, immigrazione e se possibile di extracomunitari. Quindi Asimov o Philip K. Dick in Italia non sarebbero mai stati possibili ed Eco secondo alcuni degli "impegnati" non va letto: e che dobbiamo leggere Melissa P. o la Santacroce?
Forse, per tornare a noi, è ora di capire che le braccia alzate a pugno chiuso o a mano aperta hanno fatto il loro tempo e che solo una seria elaborazione del proprio sapere può diventare col tempo cultura indipendentemente dal fatto se, come disse il mio maestro che era di sinistra, "Giano guardi a destra o a sinistra": quel che conta è chiedersi dove, come, chi, quando e perché e trovare le risposte e darne a chi chiede o a chi si interroga. La cultura esiste dappertutto, pure in Cina e lì esistono comunisti di destra e di sinistra: singolare no?
Spero di non aver divagato troppo, a proposito l'orso russo è di sinistra? Perchè uno a Ortona dei Marsi ha detto che "...quel fascista d'orso me s'è magnato le mele!" Ma forse quello era un orso marsicano... E Silone con chi stava davvero?
Con un particolare saluto e a presto:
gmdp

Roberto Alfatti Appetiti ha detto...

Libro letto. Non vale neanche la pena parlarne, una lunga invettiva dai toni insultanti e liquidatori nei confronti di tutto un ambiente (salvo gli amici dell'autore), con il dichiarato intento di ridicolizzare politici e giornalisti che operano in quella area (ingeneroso il trattamento riservato al Secolo d'Italia).
Evidentemente al Foglio c'è un ambiente più virile e marziale (oltre che più "ammanicato").
Buon per lui.
E buon per noi che ci sia ancora chi affronta in "un corpo a corpo con spada corta" (ah, lo sprezzo del ridicolo...)la decadenza dell'epoca moderna.

Roberto Alfatti Appetiti ha detto...

Il passo delle oche (recensione)
di Stenio Solinas - 19/09/2007 Fonte: Linea
Il passo delle oche di
Alessandro Giuli
è un bellissimo
pamphlet fin dal
titolo. In quel plurale
pennuto c’è lo scarto
caricaturale che differenzia la presenza al singolare di una cadenza militare rigidamente
consapevole, dal tronfio e ridondante movimento di volatili da cortile e senza fissa
dimora, appesantiti da un fisico infelice, condannati a scatti improvvisi un po’ qua e un po’ là. “L’identità irrisolta dei neofascisti”, come recita il sottotitolo, è infatti proprio
questa, un’andatura senza meta, ovvero una meta che si qualifica e si nutre della sua andatura: ora avanti, ora indietro, ora a
destra, ora a sinistra, ora di fianco, ma sempre restando in fondo nello stesso posto, lì
dove si celebra il trionfo di tutte le tattiche e il vuoto di ogni strategia. Giuli ha poco più di trent’anni, uno stile scabro, nessuna indulgenza per il giornalese, un periodare secco eppure aulico, nel senso nobile del termine, una vena ironico-amara con tratti di pietas. Per analizzare il percorso politico di Alleanza Nazionale, il suo libro
parte da un dato di fatto così sintetizzabile: “L’altro ieri neofascisti per caso, ieri missini
per necessità, oggi postfascisti per convinzione liberatoria e domani antifascisti per logica di causa-effetto”. Messo così, Il passo delle oche sfugge alla solita e ormai stanca diatriba su abiure e tradimenti e si concentra
sul problema di un’identità di destra sfuggente, quanto conclamata. Nato nel 1975, a Giuli è stata risparmiata una giovinezza missina, e questo gli consente un
approccio etologico singolare. “Dentro AN abita un complesso tremendo. Il complesso di
chi abbia sofferto il buio delle catacombe missine svilluppando un profilo rettilare per autodifesa
e nessuna altra passione che non sia quella bassa e duratura del risentimento. L’ego rettilare si manifesta nell’organismo dell’animale che per paura di un attacco esterno concentra il sangue negli organi vitali
riducendo il calore sanguigno periferico”.
Il retaggio catacombale da un lato, la necessità di trasferire un’attitudine passiva, da autodifesa, appunto, nell’agone di una lotta politica attiva e carnale, è in sé elemento di schizofrenia. Lo testimonia l’eccesso di presenzialismo
da un lato, il voler sempre e
comunque far sentire la propria voce nel terrore che d’improvviso essa possa essere di nuovo silenziata, l’incapacità di trovare il tono giusto per esporla. Da ministri, da deputati,
da presidenti di regione, da sindaci si troverà nelle loro dichiarazioni il battutismo spesso
becero e fine a sé stesso, l’ovvietà ammantata di retorica, la disinvoltura di chi abbraccia un
pensiero per tranquillamente contraddirlo nella dichiarazione successiva. È quello che Giuli, parlando di Gianfranco Fini, definisce il “pensare breve”, ovvero l’idea che per l’analisi
ci sia tempo: quel che conta è esserci, sempre e comunque.
Il retaggio e/o incubo catacombale è anche foriero - secondo Giuli - di una “sindrome da sottosuolo” che il venire alla luce del sole ha
capovolto con effetti grotteschi. Lì dove un tempo c’era una
mania persecutoria, alimentata tuttavia da dati di fatto, oggi c’è il suo opposto, ossia una
sorta di abbaglio da impunità, il poter fare tutto, il non doversi negare niente. Al di là di

ogni valutazione giuridica, il retroterra delle

vicende umane legate a Vallettopoli

o al cosiddetto Sanità-Gate sta proprio

in questa non metabolizzata euforizzazione

da vita all’aria aperta.

Nel pamphlet l’autore dà ampio

spazio a Gianfranco Fini, e non

potrebbe essere altrimenti. Senza di

lui, Alleanza Nazionale non esisterebbe,

e in quest’ottica il pensiero, se

così lo vogliamo chiamare, dello

stesso Fini si è evoluto nel solco di

una convinzione che vede ormai quel

partito più un onere che un onore, più

un impaccio che un valore aggiunto.

Consapevole che c’è “un’enorme

sproporzione tra il micropotere detenuto

all’interno, una piccola satrapia

inespugnabile, e la scarsa credibilità

delle sue chance di capitanare una

rivoluzione politica nella Destra

nazionale ed europea”, Fini ha in

fondo deciso di risolverla usandolo

come “carburante personale” per

l’approdo in un contenitore più

ampio in cui l’etichetta di destra non

avrà più alcuna ragione di esistere.

Per una strana eterogenesi dei fini

(con la minuscola) si dovrà a lui,

insomma, l’eliminazione di quella

identità nel cui nome si era cancellata

la precedente denominazione

neofascista. Al nulla, come si vede,

non c’è mai fine (al singolare e

sempre con la minuscola).

E gli altri? In un partito cesaristico,

l’elemento correntizio è un

paravento, ovvero un gioco delle

parti che nasconde la mancanza di reali e credibili

alternative. Nel caso in questione, l’assenza

di competitors è aggravata dall’appartenere

più o meno tutti allo stesso ambito.

Gasparri, Storace, La Russa, l’imprinting è

quello almirantiano-finiano... Restano fuori

gli Urso e gli Alemanno, ma al primo si deve

una deriva liberal-liberista poi approdata a un

neo-destrismo politeista che conferma la

sostanziale strumentalità di ogni scelta.

Quanto al secondo, l’essere stato ministro non

è bastato a dargli un pensiero e una caratura

da leader.

Fini, dunque, è il deus ex machina di AN,

nonché il suo motore immobile: se ne attende

ogni giorno l’apparizione, se ne riconosce

ogni giorno l’insostituibilità. Ma mentre nei

suoi sottoposti l’ebbrezza della gloria non

supera i confini di una realizzazione personale,

qui siamo di fronte, come nota Giuli, “a

una personalità non sempre all’altezza delle

ambizioni”. È un leader che “non sopporta il

tradimento delle urne”, ovvero un politico

dall’ego sovrabbondante cui però non corrisponde

la conoscenza della realtà che lo circonda

e che incolpa quest’ultima perché si

ostina “a negargli ciò che lo spirito del tempo

ha stabilito per lui”. È una variante del

“destino cinico e baro” di saragattiana

memoria, aggravata però dal fatto che il vecchio

leader socialdemocratico credeva in

qualcosa, laddove l’ormai cinquantenne

leader aennino non ha mai creduto in nulla,

se non in sé stesso. Che poi, politicamente, è

la stessa cosa.

Questo spiega anche la necessità di vestirsi di

panni altrui. Gli ultimi, in ordine di tempo,

sono quelli di Nicolas Sarkozy, e fa un po’ sorridere

un leader affetto e afflitto da una sindrome

mimetica che non trova mai però nell’imitato

una vera sponda cui fare riferimento.

Più Fini applaude, celebrandone sui muri le

vittorie con tanto di manifesti, e facendo da

prefatore italiano ai suoi libri francesi, più dall’altro

lato non giunge alcuna eco... Anche

qui, è l’ombra lunga di Berlusconi a fare la

differenza: Berlusconi che su Sarkozy può

lasciar cadere un “è stato un mio avvocato”,

Berlusconi che di Sarkozy può orgogliosamente

dire “ha vinto imitando me”.

Sulla mancanza di cultura, in un ambiente già

di per sé refrattario alla cultura, Giuli scrive

pagine condivisibili, ma non nuove. Interessante

- ma, ahimé, datata - è la sua visione

di un ancoraggio a destra all’insegna dello

stile, mutuata da una visione evoliana elitaria

e antimoderna, inservibile in una società di

massa e per un partito che la voglia in qualche

modo rappresentare. Lì dove Alleanza nazionale

si attovaglia nell’onnivora ingestioneindigestione

di qualsiasi cibo intellettuale,

Giuli le oppone una cucina tradizionale, ma

penitenziale. Di certo autoctona, perché la sua

idiosincrasia per i suggerimenti culinarioideologici

d’oltralpe, lo porta a citazioni orecchiate

e quindi inesatte, da correggere in una

prossima ristampa. Montherlant ha una “t” e

non una “d” alla fine del cognome, Edmond

Radiguet non ha una “e” alla fine del suo

nome... Ma queste, in un tessuto altrimenti

eccellente, sono sì puntualizzazioni ortografiche

evoliane, fuori dal tempo...

Roberto Alfatti Appetiti ha detto...

MA QUALI OCHE, QUESTI SONO CARCIOFINI SOTT’ODIO

Angelo Mellone
Era luglio. Conversando su “Il passo delle oche”, libro pensato per fare ammuina e colto retrobottega politico dalla casa editrice Einaudi, giunse un siluro inaspettato: «Se qualcuno lo legge tra quindici anni non capirà niente di quello che oggi sta succedendo nella destra italiana. È fatto bene, ma è un libro di regolamento dei conti». Balle. La solidità culturale di Alessandro Giuli è nota, da quando giovanissimo ex militante di Meridiano Zero cercava con cortesia lo spazio di una recensione per il suo periodico.
Oggi questo frequentatore di Heidegger e Gentile e della Fondazione Evola è in forza a un quotidiano che qualche suo precedente commensale al desco del tradizionalismo potrebbe definire un organo del mondialismo capitalista ebraico-massonico. Ma tant’è, il Dasein riserva strane sorprese dietro l’angolo dell’ortodossia.
E dunque “Il passo delle oche” va preso per ciò che è: il prevedibile moto di disgusto impolitico per la destra politica dell’ultimo quindicennio da parte di un colto giornalista di estrema destra, dell’estrema destra che schifa la cultura di massa e la lezione nazionalpopolare del fascismo, e attraversa col naso tappato il decumano del presente per non mischiare la sua essenza con l’afrore della lotta nel “castrum” politico, tutt’al più concedendo di contaminarsi il “pedigree” con l’idea di una trasmissione Rai purtroppo abortita.
Della storia di Alleanza nazionale e del “milieu” che ne ha accompagnato il percorso politico nulla si salva. Fa tutto schifo: a Gianfranco Fini nulla si perdona, ma nemmeno ai coprotagonisti, alle comparse, a un partito incapace di forgiare «una generazione di autentici politici di destra», al movimentismo giovanile, gettati in una storia ch’è polvere da buttare sotto il tappeto. Aver rimesso a posto gli assi dello scontro politico, tirando fuori dal congelatore qualche milione di voti e rischiandoli nella “roulette” infinita del governo di una nazione - certo, accogliendo la modernità berlusconiana e tralasciando il «fascismo pagano» e «l’eresia antroposofica», può succedere - questo non conta nulla.
E gli intellettuali di destra? Indecisi tra guelfismo e politeismo neodestro, tra il ribellismo e i riflessi sabaudi da destra d’ordine. Ancora peggio, si sono - ci siamo - permessi di ragionare sulla questione cruciale che una destra che non sa aprire canali di dialogo con l’industria culturale e non tenta di contaminare l’immaginario popolare può vincere la battaglia elettorale ma perde la guerra del consenso. Nemmeno questo piace. Epperò, quando fai di tutta l’erba un fascio sbocconcellato e non sei Malaparte, devi dare soluzioni, indicare percorsi alternativi restando raso sul terreno della politica e della cultura politica (e delle citazioni corrette, visto che Giuli sbaglia due titoli su due dei libri di Veneziani citati). Sennò le pallottole si spuntano e resta il moralismo di quelli che Leo Longanesi, un altro che Giuli sputazzerebbe con l’inchiostro della penna, chiamava i carciofini sott’odio.