dal Secolo d'Italia di mercoledì 4 luglio 2007
rubrica settimanale "Appropriazioni (in)debite"
Luigi Proietti nasce a Roma il 2 novembre 1940, in una traversa di Via Giulia che si trova a brevissima distanza dal luogo in cui, nel 1886, nacque nientepopodimenoché Ettore Petrolini. La famiglia è di origini umbre: immigrati di prima generazione, venuti nella Capitale a cercare lavoro e una vita meno angusta di quella che si può fare nel fondo della provincia di Terni. I soldi sono pochi, e ben presto, infatti, arriverà il trasferimento in borgata, al Tufello, ma il clima familiare è sereno. «Mio padre aveva con me e con mia sorella un rapporto piacevole: io ho sempre ringraziato il cielo che a casa mia si rideva». Una cordialità, peraltro, che poggiava su basi morali robuste. «Per fare Rocca ho pensato a mio padre. Rocca ha dei valori non ancora persi, non sgretolati, anche se si rende conto che la realtà che lo circonda cozza completamente contro questi valori. Ma faticosamente cerca di viverli, di metterli in pratica, di ricondursi a questi valori».
Luigi Proietti si fa i suoi buoni studi, con tutta la (severa, noiosa, proficua) durezza della scuola ante Sessantotto. Prima il liceo classico – con una predilezione per il latino, mai più sopita, che gli varrà un nove alla maturità – e poi parecchi esami di giurisprudenza. Il talento di attore inizia a scoprirlo solo all’università. Cantare canta già, e bene: una bella voce pastosa e duttile, limpida come un tenore, densa come un baritono, che gli permette di spaziare a piacimento da un genere all’altro. La canzone romana (ci mancherebbe!) ma anche tutto il resto. E infatti, quando poi si tratterà di fare il night, con quelle interminabili maratone che andavano avanti senza requie e ti costringevano a fare anche settanta pezzi a sera, se la caverà benissimo.
Varcata la soglia della recitazione, Luigi Proietti ci dà dentro. Un po’ per voglia, un po’ per necessità, non si risparmia nessuna occasione di mettersi alla prova. Si lavora per imparare, prima ancora che per guadagnare un compenso. Avanguardia nei localini off («Eravamo più noi sul palco che la gente in sala») e repertorio più o meno tradizionale. L’esordio ufficiale è del 1963, nel “Cancan degli italiani” del suo maestro Giancarlo Cobelli. Tredici anni dopo, nell’autunno del 1976, il curriculum è cospicuo. A teatro è stato il protagonista nel “Coriolano” di Shakespeare, nel “Dio Kurt” di Moravia, nell’ “Alleluja brava gente” di Garinei e Giovannini. Nel cinema, dove pure non arriverà mai a sfondare del tutto, ha inanellato tra l’altro “Brancaleone alle crociate” di Monicelli, “Tosca” di Luigi Magni, “Le farò da padre” di Lattuada e buon ultimo, in sala dall’agosto precedente, lo spassoso “Febbre da cavallo” di Steno. Eppure, in questo autunno del 1976, Luigi Proietti resta un attore preparatissimo ma non ancora un mattatore; un professionista molto stimato ma non ancora conosciuto, e amato, dal grandissimo pubblico.
Pazienza: oramai è lì lì per nascere il suo alter ego trionfale. Il Gigi Proietti che farà saltare il banco. E che nasce sempre a Roma, ma un bel po’ più a nord di Via Giulia. All’altezza del Ponte Duca d’Aosta. Sulla riva opposta a quella del Foro Italico. In quella Piazza Mancini dove, da qualche mese, Carlo Molfese sta tentando la sua nuova scommessa. Un teatro stabile, o giù di là, ma piazzato sotto un tendone da circo. Un “teatro tenda”, come lo chiamano, andando dritti al sodo, gli stessi organizzatori. Uno spazio ancora abbastanza insolito, per gli spettacoli teatrali. Ma in crescita.
Proietti ci capita quasi per caso. L’improvviso forfait di Irene Papas determina un buco di due settimane nella programmazione. La prima tocca, nientepopodimenoché, al “Faust – Marlowe burlesque” di Carmelo Bene; la seconda a lui. A questa sua novità che si intitola “A me gli occhi” (il “please” arriverà in seguito, ma quasi subito) e che finora è stata rappresentata, con buoni risultati, solo allo Stabile dell’Aquila. Come dicono gli inglesi, e gli ammericani, è un “recital”. Un artista da solo, o quasi, che regge tutto lo show. Bel coraggio. Bella presunzione. Bel titolo, intanto: “A me gli occhi”. Come dicono i prestigiatori per essere certi che li guarderemo, e che abboccheremo all’amo. “A me gli occhi”. Sottinteso: vale la pena di guardare anche se sappiamo tutt’e due che è tutto un trucco. “A me gli occhi”. Primo ammiccamento: il primo di innumerevoli altri, come si conviene a uno che tra i suoi maestri, tra i suoi modelli d’attore, c’ha quel bel tipo di Ettore Petrolini.
Quando lo spettacolo inizia, il palcoscenico è vuoto: vuoto nel senso più letterale del termine. Nemmeno un accenno di scenografia, nemmeno quattro oggetti da robivecchi e un fondale pitturato alla meno peggio, nulla di nulla a evocare uno straccio di ambientazione specifica, dalla quale partire per raccontare una storia. L’idea è un’altra. Completamente diversa. Qui il padrone, il sovrano, il dio dell’Olimpo, è solo ed esclusivamente l’attore. Qui si prende qualsiasi testo (qualsiasi: anche l’Amleto) e lo si piega al dominio della voce e del corpo, al trionfo della dizione e della gestualità. L’autore (chiunque: persino Shakespeare) viene espropriato di tutto il suo potere, di tutto il suo carisma. Le parole possono anche rimanere le stesse, ma vengono rimodellate a tal punto che smarriscono il proprio significato originario. Basta una pausa, un inarcare di sopracciglia, un balenio di perplessità nello sguardo, e in un istante il dramma si risolve in farsa. O magari resta in bilico, appollaiato sul filo dell’ambiguità come un acrobata che non ha ancora deciso se è meglio il brivido del trapezista o la risata del clown.
La schiavitù dell’interprete – la cui esistenza presuppone un’opera già scritta – si trasforma nell’apoteosi dell’attore che mette in scena, e in gioco, tutto se stesso. Senza precludersi nessuna maschera, dalla più seria alla più giocosa. «A forza di voler essere troppo colti, si finisce per essere ridicoli. Si casca in una specie di convenzione intellettualistica della cultura alla moda. Con Lerici (l’autore dei testi – ndr) ci siamo accorti di stare nel pieno di una proposta al teatro italiano, una proposta autentica, che è proposta d’attore ma potrebbe essere una proposta di linguaggio anche per altre cose, non necessariamente solo per un recital. C’era insomma la voglia di trovare un linguaggio tutto da palcoscenico, non letterario».
Come Petrolini, appunto. Come il Petrolini dei monologhi, delle facezie, dei turbinosi nonsense: il Petrolini che, se ti limiti a (ri)leggere i testi delle sue invenzioni più spregiudicate, te lo chiedi per forza come mai delle tiritere così piene di assurdità facessero tanta presa sul pubblico.
Ed eccola, la risposta. Ce l’hai quando Proietti appare sulla scena e inizia a rimescolare le carte. Parte serio, persino toccante, e di colpo si blocca. Cambia direzione. Ti spiazza. Dopo una manciata di minuti non sai più se lui stia maneggiando il testo con la massima cura o se, al contrario, lo stia maltrattando; se stia trattando te col dovuto rispetto o se, all’opposto, ti stia prendendo per i fondelli. Però non te ne importa. Ti va benissimo così. Perché quella che ricevi, che respiri, è una grande, leggerissima, rinfrancante, lezione di libertà. E a modo suo di saggezza. Prova a cambiare il tuo punto di osservazione. Scopri come, in moltissimi casi, la cosiddetta realtà è solo una fantasia nella quale sei rimasto intrappolato.
Alla fine, mentre esci dal tendone e ti avvii verso casa, senti che queste sensazioni le vorresti riprovare. Senti che hai voglia di parlarne agli amici. In modo che il tuo entusiasmo possa intrecciarsi al loro, usando i fili della stessa esperienza, degli stessi ricordi.
Di là in camerino, intanto, Luigi Proietti assapora l’esito della rappresentazione e ancora non lo sa, che questa settimanella di repliche sarà il prologo di un successo strabiliante, che farà di “A me gli occhi, please” un exploit straordinario, una consacrazione definitiva. Ancora non se ne rende conto, ma proprio questa sera è arrivato al suo punto di svolta. Importante. Decisivo Stasera, finalmente, l’apprezzamento del pubblico ha cominciato a trasformarsi in ammirazione. E l’ammirazione scenderà dal cervello e salirà al cuore. Diventerà attrazione, empatia, amore.
Lui ancora non lo sa, non lo può sapere, ma è venuto il momento di riporre nel baule di scena anche il suo nome di battesimo, Luigi, per accantonarlo come un accessorio che pareva indispensabile ma che ha fatto il suo tempo. Meglio Gigi, adesso: come tra ragazzini, come tra vecchi amici. Come tra noantri de Roma.
Luigi Proietti si fa i suoi buoni studi, con tutta la (severa, noiosa, proficua) durezza della scuola ante Sessantotto. Prima il liceo classico – con una predilezione per il latino, mai più sopita, che gli varrà un nove alla maturità – e poi parecchi esami di giurisprudenza. Il talento di attore inizia a scoprirlo solo all’università. Cantare canta già, e bene: una bella voce pastosa e duttile, limpida come un tenore, densa come un baritono, che gli permette di spaziare a piacimento da un genere all’altro. La canzone romana (ci mancherebbe!) ma anche tutto il resto. E infatti, quando poi si tratterà di fare il night, con quelle interminabili maratone che andavano avanti senza requie e ti costringevano a fare anche settanta pezzi a sera, se la caverà benissimo.
Varcata la soglia della recitazione, Luigi Proietti ci dà dentro. Un po’ per voglia, un po’ per necessità, non si risparmia nessuna occasione di mettersi alla prova. Si lavora per imparare, prima ancora che per guadagnare un compenso. Avanguardia nei localini off («Eravamo più noi sul palco che la gente in sala») e repertorio più o meno tradizionale. L’esordio ufficiale è del 1963, nel “Cancan degli italiani” del suo maestro Giancarlo Cobelli. Tredici anni dopo, nell’autunno del 1976, il curriculum è cospicuo. A teatro è stato il protagonista nel “Coriolano” di Shakespeare, nel “Dio Kurt” di Moravia, nell’ “Alleluja brava gente” di Garinei e Giovannini. Nel cinema, dove pure non arriverà mai a sfondare del tutto, ha inanellato tra l’altro “Brancaleone alle crociate” di Monicelli, “Tosca” di Luigi Magni, “Le farò da padre” di Lattuada e buon ultimo, in sala dall’agosto precedente, lo spassoso “Febbre da cavallo” di Steno. Eppure, in questo autunno del 1976, Luigi Proietti resta un attore preparatissimo ma non ancora un mattatore; un professionista molto stimato ma non ancora conosciuto, e amato, dal grandissimo pubblico.
Pazienza: oramai è lì lì per nascere il suo alter ego trionfale. Il Gigi Proietti che farà saltare il banco. E che nasce sempre a Roma, ma un bel po’ più a nord di Via Giulia. All’altezza del Ponte Duca d’Aosta. Sulla riva opposta a quella del Foro Italico. In quella Piazza Mancini dove, da qualche mese, Carlo Molfese sta tentando la sua nuova scommessa. Un teatro stabile, o giù di là, ma piazzato sotto un tendone da circo. Un “teatro tenda”, come lo chiamano, andando dritti al sodo, gli stessi organizzatori. Uno spazio ancora abbastanza insolito, per gli spettacoli teatrali. Ma in crescita.
Proietti ci capita quasi per caso. L’improvviso forfait di Irene Papas determina un buco di due settimane nella programmazione. La prima tocca, nientepopodimenoché, al “Faust – Marlowe burlesque” di Carmelo Bene; la seconda a lui. A questa sua novità che si intitola “A me gli occhi” (il “please” arriverà in seguito, ma quasi subito) e che finora è stata rappresentata, con buoni risultati, solo allo Stabile dell’Aquila. Come dicono gli inglesi, e gli ammericani, è un “recital”. Un artista da solo, o quasi, che regge tutto lo show. Bel coraggio. Bella presunzione. Bel titolo, intanto: “A me gli occhi”. Come dicono i prestigiatori per essere certi che li guarderemo, e che abboccheremo all’amo. “A me gli occhi”. Sottinteso: vale la pena di guardare anche se sappiamo tutt’e due che è tutto un trucco. “A me gli occhi”. Primo ammiccamento: il primo di innumerevoli altri, come si conviene a uno che tra i suoi maestri, tra i suoi modelli d’attore, c’ha quel bel tipo di Ettore Petrolini.
Quando lo spettacolo inizia, il palcoscenico è vuoto: vuoto nel senso più letterale del termine. Nemmeno un accenno di scenografia, nemmeno quattro oggetti da robivecchi e un fondale pitturato alla meno peggio, nulla di nulla a evocare uno straccio di ambientazione specifica, dalla quale partire per raccontare una storia. L’idea è un’altra. Completamente diversa. Qui il padrone, il sovrano, il dio dell’Olimpo, è solo ed esclusivamente l’attore. Qui si prende qualsiasi testo (qualsiasi: anche l’Amleto) e lo si piega al dominio della voce e del corpo, al trionfo della dizione e della gestualità. L’autore (chiunque: persino Shakespeare) viene espropriato di tutto il suo potere, di tutto il suo carisma. Le parole possono anche rimanere le stesse, ma vengono rimodellate a tal punto che smarriscono il proprio significato originario. Basta una pausa, un inarcare di sopracciglia, un balenio di perplessità nello sguardo, e in un istante il dramma si risolve in farsa. O magari resta in bilico, appollaiato sul filo dell’ambiguità come un acrobata che non ha ancora deciso se è meglio il brivido del trapezista o la risata del clown.
La schiavitù dell’interprete – la cui esistenza presuppone un’opera già scritta – si trasforma nell’apoteosi dell’attore che mette in scena, e in gioco, tutto se stesso. Senza precludersi nessuna maschera, dalla più seria alla più giocosa. «A forza di voler essere troppo colti, si finisce per essere ridicoli. Si casca in una specie di convenzione intellettualistica della cultura alla moda. Con Lerici (l’autore dei testi – ndr) ci siamo accorti di stare nel pieno di una proposta al teatro italiano, una proposta autentica, che è proposta d’attore ma potrebbe essere una proposta di linguaggio anche per altre cose, non necessariamente solo per un recital. C’era insomma la voglia di trovare un linguaggio tutto da palcoscenico, non letterario».
Come Petrolini, appunto. Come il Petrolini dei monologhi, delle facezie, dei turbinosi nonsense: il Petrolini che, se ti limiti a (ri)leggere i testi delle sue invenzioni più spregiudicate, te lo chiedi per forza come mai delle tiritere così piene di assurdità facessero tanta presa sul pubblico.
Ed eccola, la risposta. Ce l’hai quando Proietti appare sulla scena e inizia a rimescolare le carte. Parte serio, persino toccante, e di colpo si blocca. Cambia direzione. Ti spiazza. Dopo una manciata di minuti non sai più se lui stia maneggiando il testo con la massima cura o se, al contrario, lo stia maltrattando; se stia trattando te col dovuto rispetto o se, all’opposto, ti stia prendendo per i fondelli. Però non te ne importa. Ti va benissimo così. Perché quella che ricevi, che respiri, è una grande, leggerissima, rinfrancante, lezione di libertà. E a modo suo di saggezza. Prova a cambiare il tuo punto di osservazione. Scopri come, in moltissimi casi, la cosiddetta realtà è solo una fantasia nella quale sei rimasto intrappolato.
Alla fine, mentre esci dal tendone e ti avvii verso casa, senti che queste sensazioni le vorresti riprovare. Senti che hai voglia di parlarne agli amici. In modo che il tuo entusiasmo possa intrecciarsi al loro, usando i fili della stessa esperienza, degli stessi ricordi.
Di là in camerino, intanto, Luigi Proietti assapora l’esito della rappresentazione e ancora non lo sa, che questa settimanella di repliche sarà il prologo di un successo strabiliante, che farà di “A me gli occhi, please” un exploit straordinario, una consacrazione definitiva. Ancora non se ne rende conto, ma proprio questa sera è arrivato al suo punto di svolta. Importante. Decisivo Stasera, finalmente, l’apprezzamento del pubblico ha cominciato a trasformarsi in ammirazione. E l’ammirazione scenderà dal cervello e salirà al cuore. Diventerà attrazione, empatia, amore.
Lui ancora non lo sa, non lo può sapere, ma è venuto il momento di riporre nel baule di scena anche il suo nome di battesimo, Luigi, per accantonarlo come un accessorio che pareva indispensabile ma che ha fatto il suo tempo. Meglio Gigi, adesso: come tra ragazzini, come tra vecchi amici. Come tra noantri de Roma.
1 commento:
E pensare che questa estate qualcuno aveva pensato bene di estromettere uno dei pochi artisti rimasti che rappresenta la romanità dalla direzione del Brancaccio
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