Articolo di Federico Zamboni
dal Secolo d'Italia di mercoledì 18 luglio 2007
rubrica settimanale "Appropriazioni (in)debite"
Fate conto che sia un processo. Fate conto che voi siate membri della giuria (o della Corte, se vi sembra una veste più autorevole) e che alla fine, sulla base di ciò che avrete ascoltato, dobbiate emettere un verdetto. Come dovreste già sapere – ma è meglio ribadirlo – il vostro ruolo esige che sulle questioni che verranno affrontate non vi siate ancora formati un giudizio definitivo. O, almeno, che siate disposti ad accantonarlo.
In questo processo, l’uomo che siete chiamati ad ascoltare è un signore ormai anziano, che è nato il 7 dicembre 1928 a Filadelfia e che, grazie ai suoi studi accademici, si è imposto come uno dei massimi studiosi di linguistica. Eppure, la sua fama internazionale dipende solo in parte dai risultati ottenuti in questo campo, a cominciare dalla celebre e rivoluzionaria teoria della “grammatica generativa”. Ciò che lo rende così conosciuto è la sua attività nell’ambito della controinformazione, sono le osservazioni e le analisi che va svolgendo, fin dagli Anni Sessanta, nei confronti del sistema politico statunitense. Dove tanti altri si accontentano di lanciare invettive, esponendosi fatalmente all’accusa di fanatismo, Noam Chomsky procede all’insegna del raziocinio e della documentazione. Si sceglie un problema e lo esamina a fondo. Traccia un’ipotesi e ne verifica la fondatezza. Acquisisce dati, li confronta, li scandaglia ripetutamente nel tentativo di scoprire che cosa possono, e che cosa non possono, dimostrare.
Come in un processo, come in un’arringa conclusiva, Noam Chomsky anticipa ciò che intende dimostrare e ci accompagna passo passo lungo il percorso che, nelle sue intenzioni, conduce alla verità. Non ha fretta. O non mostra di averla. Dà l’idea di sapere perfettamente che una partita così complessa – come quella contro le oligarchie che a suo giudizio dominano gli Usa e che, attraverso gli Usa, tentano di dominare il mondo – non si può vincere in quattro e quattr’otto. Ci vuole molto tempo, molta pazienza. Bisogna essere consapevoli che la stragrande maggioranza delle persone ha subito, e subisce tuttora, l’incessante bombardamento dei media. E che, quindi, essa ha finito col perdere (con lo smarrire) gran parte delle proprie capacità di giudizio. Ivi inclusa la semplice, limpida, decisiva consapevolezza che un condizionamento c’è stato realmente, quando più quando meno.
Chomsky prova a invertire il processo. «Bene», sembra dire in via preliminare ogni volta che prende la parola nelle sue conferenze o nei suoi libri, «che cosa vi hanno raccontato su questo argomento? Vi hanno detto questo? E questo? E quest’altro? Bene. Adesso vedremo insieme che cosa c’è di vero. E che cosa c’è di falso». Da lì in poi è meglio spalancare le orecchie. E prestare attenzione sul serio. Quella che ci si trova ad affrontare, infatti, è un’autentica sfida alle nostre (presunte) certezze. A tutto quello che sappiamo. O che crediamo di sapere.
Solo per restare alla politica estera degli Stati Uniti, si va dall’America Latina al Vietnam, dalla Guerra Fredda all’Indonesia, dal sostegno indiscriminato concesso da Washington a Israele (a proposito: Chomsky è un ebreo di origine russa) all’intervento armato nella ex Jugoslavia e all’invasione dell’Iraq. Ogni volta, avvalendosi anche della progressiva “declassificazione” dei documenti originariamente coperti dal segreto di Stato, si scava nelle posizioni ufficiali e se ne verifica il grado di correttezza e di attendibilità. Si evidenziano le contraddizioni, le menzogne deliberate, le manipolazioni di piccolo e di grande cabotaggio. Si riflette sul perché vicende in qualche modo analoghe – vedi l’uccisione, il 19 ottobre 1984, del prete cattolico Jerzy Popieluszko nella Polonia ancora filosovietica di Jaruzelski, e quella, il 24 marzo 1980, dell’arcivescovo Oscar Romero nell’El Salvador governato da una “giunta rivoluzionaria” filoamericana – siano state affrontate, e presentate alla pubblica opinione, in maniera del tutto diversa. Il filo conduttore è preciso: ci hanno mentito, ci hanno fuorviato, hanno tentato in tutti i modi di farci credere che le loro azioni fossero ispirate da convinzioni e finalità di carattere etico, laddove erano mosse soltanto, o prevalentemente, dal più bieco interesse. Ancora peggio: hanno cercato, e cercano tuttora, di farci credere che quelle occidentali, e in primis quella statunitense, siano società autenticamente democratiche, in cui la libertà di parola assicura un effettivo esercizio della sovranità popolare.
Cominciamo dai media, allora. La versione corrente è che i media, intesi come insieme degli organi di informazione, sono al servizio del pubblico. E quindi del popolo. Attraverso le notizie, e i relativi commenti, i cittadini hanno la possibilità di apprendere ciò che accade e di formarsi un proprio giudizio. Ergo, i media costituiscono l’architrave della democrazia. Facendo conoscere ciò che fanno i governi, e i partiti, e gli altri soggetti pubblici e privati che influiscono sull’organizzazione socio-economica, i media permettono a ciascun elettore di orientare le proprie scelte in modo consapevole. A conforto della teoria, ecco le dimostrazioni concrete: per citarne una sola, e per restare negli Usa, il celeberrimo “Watergate”, l’inchiesta condotta da due giornalisti della “Washington Post” che mise sotto accusa l’allora Presidente Richard Nixon e che, l’otto agosto 1974, quando ormai incombeva l’impeachment, portò addirittura alle sue dimissioni.
Falso, replica Chomsky. Che sulla questione è tornato innumerevoli volte. Dedicandole, tra l’altro, il lungo saggio “La fabbrica del consenso”. Al contrario di ciò che si sostiene di solito, i media non sono affatto al servizio del pubblico. I media sono al servizio del potere. Il fatto stesso che siano imprese a fine di lucro, e che comunque non siano in grado di sostenersi con i soli incassi delle vendite, li costringe a sottostare ai condizionamenti, espliciti e impliciti, dell’establishment. La parola d’ordine è stare al gioco, limitando le eventuali critiche ad aspetti specifici. Mai e poi mai, invece, si devono andare ad attaccare i fondamenti del sistema, a partire dall’idea che lo scopo ultimo dell’esistenza sia guadagnare – e spendere – più denaro possibile. Per chi sta al gioco, ecco pronti gli enormi introiti della pubblicità. Per chi non ci sta, e pretende di aprire gli occhi alla gente, il rubinetto si chiude. Niente più inserzioni. Niente più ossigeno finanziario. E vediamo quanto resisti, con i tuoi soli mezzi.
Proseguiamo, e concludiamo, con l’idea (con l’assioma) che popolazione e Stato siano un tutt’uno, così che gli interessi dell’una coincidano con quelli dell’altro. Il corollario è nitido: i governi, specie nelle iniziative di politica estera, vanno sostenuti in maniera pressoché indiscriminata, nel presupposto che i loro valori di riferimento siano i medesimi del popolo – e dunque della nazione, in senso antropologico prima ancora che statuale – e che le loro azioni abbiano come unico scopo il rafforzamento della collettività. Vale a dire il (celebratissimo/abusatissimo) “pubblico bene”.
Retorica allo stato puro, controbatte Chomsky. Sul piano materiale, la distribuzione della ricchezza continua a essere caratterizzata dalla più palese iniquità. Su quello morale, la distanza tra la teoria e la pratica è abissale: mentre le dichiarazioni di principio sono invariabilmente nobilissime, così che le guerre non si fanno per ragioni economiche e/o geopolitiche ma per “esportare la democrazia”, i comportamenti reali sono nel segno del più assoluto cinismo. E talvolta, oltretutto, sfociano nella miopia o tout court nella stupidità: era così difficile, ad esempio, prevedere che armando e finanziando la guerriglia afgana in funzione antisovietica si sarebbero rafforzate a dismisura le fazioni dell’integralismo islamico?
Riassumiamo. Primo: i media non sono al servizio del popolo, ma dei potentati che controllano l’economia e, attraverso l’economia, la politica. Secondo: il governo statunitense non agisce affatto a favore del popolo americano nel suo complesso, ma solo a vantaggio di quella ristretta porzione che detiene i grandi e grandissimi capitali. Quello che si spaccia per democrazia, dunque, sarebbe solo un sistema oligarchico, ferocemente attaccato ai suoi privilegi e disposto a qualsiasi scorciatoia pur di riuscire nell’intento.
Posizioni durissime, come si vede. Talmente eterodosse, nel loro brutale rifiuto delle “verità” ufficiali, da prestarsi facilmente a ogni genere di contestazione. E persino di anatema. Ma, per tornare all’inizio, in un processo degno di tal nome la giustizia sommaria non è prevista: i capi di accusa non si possono ricusare in blocco, ma vanno smantellati singolarmente; le prove altrui si devono vagliare ad una ad una, entrando nel merito di ciascuna di esse e, sempre che se ne sia capaci, dimostrandone l’infondatezza. Che Chomsky non lo si condivida, in tutto o in parte, è perfettamente legittimo. Ma tacciarlo di antiamericanismo non basta. Chi ritenga di poterne confutare le tesi deve accettare di giocare sul suo stesso terreno: a forza di ragionamenti e a colpi di documentazione. Liquidarlo a priori può servire solo a regalarsi il tranquillante, o il narcotico, dell’indifferenza. Illudendosi che quel disprezzo faccia sì che nessun altro lo ascolti e gli dia credito, né ora né in futuro.
Chi se la sente, dunque, accetti la sfida. Considerando Chomsky, se non altro, alla stregua dell’avvocato del diavolo nei processi di beatificazione. Prima di santificare l’Occidente, e in particolare gli Stati Uniti, e ancora più in particolare i suoi vertici politici ed economici, ci si misuri con tutte le eccezioni, macroscopiche e minuziose a un tempo, che vengono sollevate da quest’uomo intelligente e metodico. Quale che sia la decisione finale, non si potrà più fingere di non sapere quanto siano forti i dubbi ai quali rispondere. E quanto, dietro le luci abbaglianti del consumismo, siano vaste e insidiose le zone d’ombra nelle quali la Morale cede il passo al Potere.
In questo processo, l’uomo che siete chiamati ad ascoltare è un signore ormai anziano, che è nato il 7 dicembre 1928 a Filadelfia e che, grazie ai suoi studi accademici, si è imposto come uno dei massimi studiosi di linguistica. Eppure, la sua fama internazionale dipende solo in parte dai risultati ottenuti in questo campo, a cominciare dalla celebre e rivoluzionaria teoria della “grammatica generativa”. Ciò che lo rende così conosciuto è la sua attività nell’ambito della controinformazione, sono le osservazioni e le analisi che va svolgendo, fin dagli Anni Sessanta, nei confronti del sistema politico statunitense. Dove tanti altri si accontentano di lanciare invettive, esponendosi fatalmente all’accusa di fanatismo, Noam Chomsky procede all’insegna del raziocinio e della documentazione. Si sceglie un problema e lo esamina a fondo. Traccia un’ipotesi e ne verifica la fondatezza. Acquisisce dati, li confronta, li scandaglia ripetutamente nel tentativo di scoprire che cosa possono, e che cosa non possono, dimostrare.
Come in un processo, come in un’arringa conclusiva, Noam Chomsky anticipa ciò che intende dimostrare e ci accompagna passo passo lungo il percorso che, nelle sue intenzioni, conduce alla verità. Non ha fretta. O non mostra di averla. Dà l’idea di sapere perfettamente che una partita così complessa – come quella contro le oligarchie che a suo giudizio dominano gli Usa e che, attraverso gli Usa, tentano di dominare il mondo – non si può vincere in quattro e quattr’otto. Ci vuole molto tempo, molta pazienza. Bisogna essere consapevoli che la stragrande maggioranza delle persone ha subito, e subisce tuttora, l’incessante bombardamento dei media. E che, quindi, essa ha finito col perdere (con lo smarrire) gran parte delle proprie capacità di giudizio. Ivi inclusa la semplice, limpida, decisiva consapevolezza che un condizionamento c’è stato realmente, quando più quando meno.
Chomsky prova a invertire il processo. «Bene», sembra dire in via preliminare ogni volta che prende la parola nelle sue conferenze o nei suoi libri, «che cosa vi hanno raccontato su questo argomento? Vi hanno detto questo? E questo? E quest’altro? Bene. Adesso vedremo insieme che cosa c’è di vero. E che cosa c’è di falso». Da lì in poi è meglio spalancare le orecchie. E prestare attenzione sul serio. Quella che ci si trova ad affrontare, infatti, è un’autentica sfida alle nostre (presunte) certezze. A tutto quello che sappiamo. O che crediamo di sapere.
Solo per restare alla politica estera degli Stati Uniti, si va dall’America Latina al Vietnam, dalla Guerra Fredda all’Indonesia, dal sostegno indiscriminato concesso da Washington a Israele (a proposito: Chomsky è un ebreo di origine russa) all’intervento armato nella ex Jugoslavia e all’invasione dell’Iraq. Ogni volta, avvalendosi anche della progressiva “declassificazione” dei documenti originariamente coperti dal segreto di Stato, si scava nelle posizioni ufficiali e se ne verifica il grado di correttezza e di attendibilità. Si evidenziano le contraddizioni, le menzogne deliberate, le manipolazioni di piccolo e di grande cabotaggio. Si riflette sul perché vicende in qualche modo analoghe – vedi l’uccisione, il 19 ottobre 1984, del prete cattolico Jerzy Popieluszko nella Polonia ancora filosovietica di Jaruzelski, e quella, il 24 marzo 1980, dell’arcivescovo Oscar Romero nell’El Salvador governato da una “giunta rivoluzionaria” filoamericana – siano state affrontate, e presentate alla pubblica opinione, in maniera del tutto diversa. Il filo conduttore è preciso: ci hanno mentito, ci hanno fuorviato, hanno tentato in tutti i modi di farci credere che le loro azioni fossero ispirate da convinzioni e finalità di carattere etico, laddove erano mosse soltanto, o prevalentemente, dal più bieco interesse. Ancora peggio: hanno cercato, e cercano tuttora, di farci credere che quelle occidentali, e in primis quella statunitense, siano società autenticamente democratiche, in cui la libertà di parola assicura un effettivo esercizio della sovranità popolare.
Cominciamo dai media, allora. La versione corrente è che i media, intesi come insieme degli organi di informazione, sono al servizio del pubblico. E quindi del popolo. Attraverso le notizie, e i relativi commenti, i cittadini hanno la possibilità di apprendere ciò che accade e di formarsi un proprio giudizio. Ergo, i media costituiscono l’architrave della democrazia. Facendo conoscere ciò che fanno i governi, e i partiti, e gli altri soggetti pubblici e privati che influiscono sull’organizzazione socio-economica, i media permettono a ciascun elettore di orientare le proprie scelte in modo consapevole. A conforto della teoria, ecco le dimostrazioni concrete: per citarne una sola, e per restare negli Usa, il celeberrimo “Watergate”, l’inchiesta condotta da due giornalisti della “Washington Post” che mise sotto accusa l’allora Presidente Richard Nixon e che, l’otto agosto 1974, quando ormai incombeva l’impeachment, portò addirittura alle sue dimissioni.
Falso, replica Chomsky. Che sulla questione è tornato innumerevoli volte. Dedicandole, tra l’altro, il lungo saggio “La fabbrica del consenso”. Al contrario di ciò che si sostiene di solito, i media non sono affatto al servizio del pubblico. I media sono al servizio del potere. Il fatto stesso che siano imprese a fine di lucro, e che comunque non siano in grado di sostenersi con i soli incassi delle vendite, li costringe a sottostare ai condizionamenti, espliciti e impliciti, dell’establishment. La parola d’ordine è stare al gioco, limitando le eventuali critiche ad aspetti specifici. Mai e poi mai, invece, si devono andare ad attaccare i fondamenti del sistema, a partire dall’idea che lo scopo ultimo dell’esistenza sia guadagnare – e spendere – più denaro possibile. Per chi sta al gioco, ecco pronti gli enormi introiti della pubblicità. Per chi non ci sta, e pretende di aprire gli occhi alla gente, il rubinetto si chiude. Niente più inserzioni. Niente più ossigeno finanziario. E vediamo quanto resisti, con i tuoi soli mezzi.
Proseguiamo, e concludiamo, con l’idea (con l’assioma) che popolazione e Stato siano un tutt’uno, così che gli interessi dell’una coincidano con quelli dell’altro. Il corollario è nitido: i governi, specie nelle iniziative di politica estera, vanno sostenuti in maniera pressoché indiscriminata, nel presupposto che i loro valori di riferimento siano i medesimi del popolo – e dunque della nazione, in senso antropologico prima ancora che statuale – e che le loro azioni abbiano come unico scopo il rafforzamento della collettività. Vale a dire il (celebratissimo/abusatissimo) “pubblico bene”.
Retorica allo stato puro, controbatte Chomsky. Sul piano materiale, la distribuzione della ricchezza continua a essere caratterizzata dalla più palese iniquità. Su quello morale, la distanza tra la teoria e la pratica è abissale: mentre le dichiarazioni di principio sono invariabilmente nobilissime, così che le guerre non si fanno per ragioni economiche e/o geopolitiche ma per “esportare la democrazia”, i comportamenti reali sono nel segno del più assoluto cinismo. E talvolta, oltretutto, sfociano nella miopia o tout court nella stupidità: era così difficile, ad esempio, prevedere che armando e finanziando la guerriglia afgana in funzione antisovietica si sarebbero rafforzate a dismisura le fazioni dell’integralismo islamico?
Riassumiamo. Primo: i media non sono al servizio del popolo, ma dei potentati che controllano l’economia e, attraverso l’economia, la politica. Secondo: il governo statunitense non agisce affatto a favore del popolo americano nel suo complesso, ma solo a vantaggio di quella ristretta porzione che detiene i grandi e grandissimi capitali. Quello che si spaccia per democrazia, dunque, sarebbe solo un sistema oligarchico, ferocemente attaccato ai suoi privilegi e disposto a qualsiasi scorciatoia pur di riuscire nell’intento.
Posizioni durissime, come si vede. Talmente eterodosse, nel loro brutale rifiuto delle “verità” ufficiali, da prestarsi facilmente a ogni genere di contestazione. E persino di anatema. Ma, per tornare all’inizio, in un processo degno di tal nome la giustizia sommaria non è prevista: i capi di accusa non si possono ricusare in blocco, ma vanno smantellati singolarmente; le prove altrui si devono vagliare ad una ad una, entrando nel merito di ciascuna di esse e, sempre che se ne sia capaci, dimostrandone l’infondatezza. Che Chomsky non lo si condivida, in tutto o in parte, è perfettamente legittimo. Ma tacciarlo di antiamericanismo non basta. Chi ritenga di poterne confutare le tesi deve accettare di giocare sul suo stesso terreno: a forza di ragionamenti e a colpi di documentazione. Liquidarlo a priori può servire solo a regalarsi il tranquillante, o il narcotico, dell’indifferenza. Illudendosi che quel disprezzo faccia sì che nessun altro lo ascolti e gli dia credito, né ora né in futuro.
Chi se la sente, dunque, accetti la sfida. Considerando Chomsky, se non altro, alla stregua dell’avvocato del diavolo nei processi di beatificazione. Prima di santificare l’Occidente, e in particolare gli Stati Uniti, e ancora più in particolare i suoi vertici politici ed economici, ci si misuri con tutte le eccezioni, macroscopiche e minuziose a un tempo, che vengono sollevate da quest’uomo intelligente e metodico. Quale che sia la decisione finale, non si potrà più fingere di non sapere quanto siano forti i dubbi ai quali rispondere. E quanto, dietro le luci abbaglianti del consumismo, siano vaste e insidiose le zone d’ombra nelle quali la Morale cede il passo al Potere.
1 commento:
Che l'America da anni cerchi dominare il mondo non è una novità, con la caduta del Muro di Berlino prima e con l'undici settembre dopo l'America ha ribadito semplicemente il suo ruolo di potenza egemone. Inoltre Chomski non è il primo giornalista e scrittore che tira fuori questo tipo di inchieste, vorrei ricordare l'inchiesta sul Watergate condotta da due giornalisti americani che portò alle dimissioni di Nixon.
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