Dal Secolo d'Italia di domenica 30 settembre 2007
Rubrica settimanale "Italian Beauty"
E l’Italia si scoprì candida, nitida, linda. Per più di una volta al dì, di festa e non. La traccia di una tappa fondamentale della modernizzazione italica è copiosamente indagata da un saggio recentissimo di Enrica Aquer, La ricoluzione candida. Storia sociale della lavatrice in Italia (1945-1970), Carocci, Roma, collana “Le sfere”, 2007, pagg. 202, € 15,30.
Guardando il mondo da un oblò, canterebbe negli Ottanta, il neotrovatore Gianni Togni, tutto frullò e centrifugò perbenino scortando la rivoluzione domestica e sociale. Inizi, naturalmente, stentati, dato che solo tre famiglie su 100 ne erano in possesso e, poi, il magnetismo di radio, televisori e frigoriferi macinava consensi in famiglia, ma ben presto il ritmo dell’adozione tecnologica cambiò. Esoticamente e tecnicamente, Candy e Zoppas certificarono la garanzia che “lavorare stancasse meno”, anche se poco, meno, grazie ad un elettrodomestico dal lavoro degno d’arbeiter maschile, in realtà appendice del lavoro femminile. Mamme pazienti dovettero sopportare che la lavatrice, rata dopo rata, si trasformasse in tellurica piattaforma, dove far crollare intere teorie di soldatini airfix, oppure, si tramutasse in razzo interstellare e astronave da ingenui e arditi pionieri del cosmo.
Un tempo l’estetica del maggiordomo, possibilmente inglese, dal nome di Anatole dipingeva l’aiuto e la gestione dei ceti elevatissimi, ad uso di mondo, assieme, al corrispettivo popolare delle lavandaie. Dai Cinquanta in avanti, il lavare panni e saponare indumenti sarebbe stato compito macchinico e meccanico, con la conseguenza immediat di cambiare i connotati alle stesse case che avrebbero ospitato il “gingillo” tecnologico.
Un po’ di storia. Il primo modello della Candy venne presentata alla Fiera di Milano nel 1946 e, per eterogenesi dei fini, talmente nuova da essere confusa con un macchinario per la panna montata. Solo che dal coperchione lattato scaturiva sapone di Marsiglia a go go, disegnando bolle bianche, ben prima di quelle “blu” che furono inno iniziale del boom, cantate da Mina.
Da darle del Lei, seduta stante, piena d’attenzioni, tonda e capace, la “Signora Candy”, tra angolo cucina e sala da pranzo, insediava un lungo reame domestico, giunto sino ai nostri tempi domotici. Le lavabiancheria emozionavano il futuro bambino, dove meno fame e più allegria animavano ore e giornate, come testimoniato dalla crescita dell’editoria femminile e dai Caroselli televisivi.
Una data, a suo modo, “storica” segnò l’ingresso trionfalmente modernista nelle case e i calendari furono rivoluzionati: dal giorno preposto per il bucato ad ogni momento di festa. Certo, di lì a poco scomparvero lucciole e lavatoi, ma è altro discorso, rispetto al cambio di mentalità della borghesia dinamica e prima adottante, ben felice di non recarsi ad un naviglio, per avere di che nettare pedalini e camicie.
Non fu, però, plebiscito, dal momento che il saggio c’informa che le femministe dell’Unione delle Donne Italiane, di così tanto e profuso futurismo domestico non ne accettavano l’utilità e il significato. Immancabile seguì il dibattito, tra l’assembleare e l’aristocratico, “Sì o No”, anticipazione di ben altre scelte politiche della società affluente. Il pericolo, manifesto o latente, si rivelava nella distrazione e nell’affievolimento dalle cure del focolare che, effettivamente, un pulsante e uno sportello esoneravano. E, poi, pareva un rito privato, singolare, tutt’altro che politico e pubblico. Questione di feeling sull’invenzione poco, poco rivoluzionaria, anzi, per nulla, mentre, il maschietto se ne stava finendo “in ammollo”, con la bella faccia jazz di Franco Cerri e la promessa che: “No, non esiste lo sporco impossibile”. Guarda un po’ idea nata nel 1968.
La lavatrice annunciava che le nostre esistenza sarebbero state costellate di oggetti e che, mediante la loro superficie, consistenza tecnica e la propria gamma di servizi, sarebbero stati “in” e “di” famiglia. Dandoli per scontati non percepiamo che la dimensione del giorno dopo giorno è attraversata dalla sfera oggettuale. Ben venga un libro a ricordarci la trasmutazione di spazi e confini che durano e si usurano, ma anche vengono ricollocati in mostre e musei, mutando aspetto e missione. Primo e secondo tempo della vita e della memoria nazionale, nonché il canto profondo dell’oggetto come ardore e brama di tecnologia e conoscenza; di più, la liturgia ufficiale del tempo e della maniera di vivere in tempo reale.
Quella certa idea di originalità ed eccellenza, tale da assorbire ogni energia sottile. Nata precoce nel situazionismo di Guy Debord che volle ribattezzarla “Società dello Spettacolo”, dove “si preferisce l’immagine alla cosa, la copia all’originale, la rappresentazione alla realtà, l’apparenza all’essere. Ciò che è sacro, non è che l’illusione, ma ciò che è profano è la verità.” Una suggestione che ci appare remota, considerando la facile smania chi si accoda, vive a rimorchio dell’intelligenza creativa. Mai scomponendosi nemmeno per un nanosecondo nella ripetitività burocratica delle checklist e del showoff.
L’economia del simbolico nel patto fra il produttore e il consumatore per non vedere più il mondo delle cose a testa in giù. Per di più, a strettissimo contatto con la cultura della conoscenza che comporta la sempre più rarefatta simbiosi fra oggetto e codice assoluto, come insegnò Jean Baudrillard ed il conseguente potere del significato dimitologie tascabili, archetipi domestici. Si tratta di profezie estremamente leggere e dispositiviti liquidi che consentono un’ordine precario, ma pur sempre economico. La lavatrice, come nuova sintesi che sappia mettere in condizione competenze e sensibilità e buona conoscenza del tratto distintivo di ogni creazione, sia essa artistica ed artigianale, ben calata in una dimensione sociale, culturale ed economica.
Una cartolina dal futuro, ingenua e istantanea e un bel souvenir dell’artefatto, quale epifania di una determinata fase storica ed esperienza estetica di massa, al pari di un luogo di osservazione e divulgazione dei temi salienti dell’immaginario.
Nel gingillo pregiato, infatti, si compie il divertentissimo esercizio di stile parallelo fra tecnica e cultura, ben presto tramutato in “canto di sirena” di qualcuno o qualcosa, nonché, una lunga storia, di invenzioni, trucchi e curiosità, mescolanza di segni che da frutti del passato sono semi del futuro. Oggi che la lavatrice è utile, dobbiamo tenere a mente quanto, ieri, significò meraviglia pura: fantasmagoria e genialità industriosa, più che industriale. Roba da gettare nello sgomento quegli sciocchini che, ancora, reputano inutile ogni nuova tecnologia, sogghignando e generalmente deridendo, come già capitato, fax, telefonino e portatile. Domandandoti “ma a che ti serve?”. A tutto o nulla. L’importante è essere avanti, simile al cielo bianco e candido della tecnologia che danza a passo del walzer di Strauss, come profetizzò, ancora nel 1968, Stanley Kubrick in 2001: Odissea nello spazio.
Ivo Germano (1966) Borghese di provincia all'Amicimiei, sociologo e giornalista, scientificamente si occupa di produzione culturale e strutture simboliche dell'immaginario contemporaneo. Incline a scrivere e interessarsi di cose inutili, curiosamente e felicemente borghesi.
Guardando il mondo da un oblò, canterebbe negli Ottanta, il neotrovatore Gianni Togni, tutto frullò e centrifugò perbenino scortando la rivoluzione domestica e sociale. Inizi, naturalmente, stentati, dato che solo tre famiglie su 100 ne erano in possesso e, poi, il magnetismo di radio, televisori e frigoriferi macinava consensi in famiglia, ma ben presto il ritmo dell’adozione tecnologica cambiò. Esoticamente e tecnicamente, Candy e Zoppas certificarono la garanzia che “lavorare stancasse meno”, anche se poco, meno, grazie ad un elettrodomestico dal lavoro degno d’arbeiter maschile, in realtà appendice del lavoro femminile. Mamme pazienti dovettero sopportare che la lavatrice, rata dopo rata, si trasformasse in tellurica piattaforma, dove far crollare intere teorie di soldatini airfix, oppure, si tramutasse in razzo interstellare e astronave da ingenui e arditi pionieri del cosmo.
Un tempo l’estetica del maggiordomo, possibilmente inglese, dal nome di Anatole dipingeva l’aiuto e la gestione dei ceti elevatissimi, ad uso di mondo, assieme, al corrispettivo popolare delle lavandaie. Dai Cinquanta in avanti, il lavare panni e saponare indumenti sarebbe stato compito macchinico e meccanico, con la conseguenza immediat di cambiare i connotati alle stesse case che avrebbero ospitato il “gingillo” tecnologico.
Un po’ di storia. Il primo modello della Candy venne presentata alla Fiera di Milano nel 1946 e, per eterogenesi dei fini, talmente nuova da essere confusa con un macchinario per la panna montata. Solo che dal coperchione lattato scaturiva sapone di Marsiglia a go go, disegnando bolle bianche, ben prima di quelle “blu” che furono inno iniziale del boom, cantate da Mina.
Da darle del Lei, seduta stante, piena d’attenzioni, tonda e capace, la “Signora Candy”, tra angolo cucina e sala da pranzo, insediava un lungo reame domestico, giunto sino ai nostri tempi domotici. Le lavabiancheria emozionavano il futuro bambino, dove meno fame e più allegria animavano ore e giornate, come testimoniato dalla crescita dell’editoria femminile e dai Caroselli televisivi.
Una data, a suo modo, “storica” segnò l’ingresso trionfalmente modernista nelle case e i calendari furono rivoluzionati: dal giorno preposto per il bucato ad ogni momento di festa. Certo, di lì a poco scomparvero lucciole e lavatoi, ma è altro discorso, rispetto al cambio di mentalità della borghesia dinamica e prima adottante, ben felice di non recarsi ad un naviglio, per avere di che nettare pedalini e camicie.
Non fu, però, plebiscito, dal momento che il saggio c’informa che le femministe dell’Unione delle Donne Italiane, di così tanto e profuso futurismo domestico non ne accettavano l’utilità e il significato. Immancabile seguì il dibattito, tra l’assembleare e l’aristocratico, “Sì o No”, anticipazione di ben altre scelte politiche della società affluente. Il pericolo, manifesto o latente, si rivelava nella distrazione e nell’affievolimento dalle cure del focolare che, effettivamente, un pulsante e uno sportello esoneravano. E, poi, pareva un rito privato, singolare, tutt’altro che politico e pubblico. Questione di feeling sull’invenzione poco, poco rivoluzionaria, anzi, per nulla, mentre, il maschietto se ne stava finendo “in ammollo”, con la bella faccia jazz di Franco Cerri e la promessa che: “No, non esiste lo sporco impossibile”. Guarda un po’ idea nata nel 1968.
La lavatrice annunciava che le nostre esistenza sarebbero state costellate di oggetti e che, mediante la loro superficie, consistenza tecnica e la propria gamma di servizi, sarebbero stati “in” e “di” famiglia. Dandoli per scontati non percepiamo che la dimensione del giorno dopo giorno è attraversata dalla sfera oggettuale. Ben venga un libro a ricordarci la trasmutazione di spazi e confini che durano e si usurano, ma anche vengono ricollocati in mostre e musei, mutando aspetto e missione. Primo e secondo tempo della vita e della memoria nazionale, nonché il canto profondo dell’oggetto come ardore e brama di tecnologia e conoscenza; di più, la liturgia ufficiale del tempo e della maniera di vivere in tempo reale.
Quella certa idea di originalità ed eccellenza, tale da assorbire ogni energia sottile. Nata precoce nel situazionismo di Guy Debord che volle ribattezzarla “Società dello Spettacolo”, dove “si preferisce l’immagine alla cosa, la copia all’originale, la rappresentazione alla realtà, l’apparenza all’essere. Ciò che è sacro, non è che l’illusione, ma ciò che è profano è la verità.” Una suggestione che ci appare remota, considerando la facile smania chi si accoda, vive a rimorchio dell’intelligenza creativa. Mai scomponendosi nemmeno per un nanosecondo nella ripetitività burocratica delle checklist e del showoff.
L’economia del simbolico nel patto fra il produttore e il consumatore per non vedere più il mondo delle cose a testa in giù. Per di più, a strettissimo contatto con la cultura della conoscenza che comporta la sempre più rarefatta simbiosi fra oggetto e codice assoluto, come insegnò Jean Baudrillard ed il conseguente potere del significato dimitologie tascabili, archetipi domestici. Si tratta di profezie estremamente leggere e dispositiviti liquidi che consentono un’ordine precario, ma pur sempre economico. La lavatrice, come nuova sintesi che sappia mettere in condizione competenze e sensibilità e buona conoscenza del tratto distintivo di ogni creazione, sia essa artistica ed artigianale, ben calata in una dimensione sociale, culturale ed economica.
Una cartolina dal futuro, ingenua e istantanea e un bel souvenir dell’artefatto, quale epifania di una determinata fase storica ed esperienza estetica di massa, al pari di un luogo di osservazione e divulgazione dei temi salienti dell’immaginario.
Nel gingillo pregiato, infatti, si compie il divertentissimo esercizio di stile parallelo fra tecnica e cultura, ben presto tramutato in “canto di sirena” di qualcuno o qualcosa, nonché, una lunga storia, di invenzioni, trucchi e curiosità, mescolanza di segni che da frutti del passato sono semi del futuro. Oggi che la lavatrice è utile, dobbiamo tenere a mente quanto, ieri, significò meraviglia pura: fantasmagoria e genialità industriosa, più che industriale. Roba da gettare nello sgomento quegli sciocchini che, ancora, reputano inutile ogni nuova tecnologia, sogghignando e generalmente deridendo, come già capitato, fax, telefonino e portatile. Domandandoti “ma a che ti serve?”. A tutto o nulla. L’importante è essere avanti, simile al cielo bianco e candido della tecnologia che danza a passo del walzer di Strauss, come profetizzò, ancora nel 1968, Stanley Kubrick in 2001: Odissea nello spazio.
Ivo Germano (1966) Borghese di provincia all'Amicimiei, sociologo e giornalista, scientificamente si occupa di produzione culturale e strutture simboliche dell'immaginario contemporaneo. Incline a scrivere e interessarsi di cose inutili, curiosamente e felicemente borghesi.
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