Veronica Raimo, Il dolore secondo Matteo, Minimum Fax 2007, pagg. 164, euro 11
Articolo di Claudio Ughetto
Ho deciso di leggere questo romanzo, esordio di Veronica Raimo, perché incuriosito dalla recensione di Massimiliano Parente su “Libero” del 19 settembre 2007. Intendiamoci, potendo trovare i begli articoli di Parente sul web senza dover cestinare il 99% del quotidiano, “Libero” non l'ho né acquistato né letto. Gli editoriali di Feltri mi annoiano quando non mi fanno incazzare, e credo che Renato Farina sulla Fallaci abbia poco da aggiungere. Da parte mia, aggiungo che la recensione di Parente non diceva molto sul romanzo in sé, preferendo dilungarsi allegramente sulle pastoie familiari nella Minimum Fax e inquietandoci con un dubbio: è Veronica Raimo un buon editor o una brava scrittrice, e che ci fa nei titoli di coda Nicola Lagioia, suo editor ufficiale e autore di Occidente per principianti, se magari è lei stessa a scrivere per lui?
Massimiliano Parente è uno che sa scrivere, o perlomeno uno che sa osare, ed è un discepolo di Antonio Moresco, uno degli scrittori italiani più importanti, originali e coraggiosi di questi anni. Non a caso Moresco è detestato da Antonio D'Orrico. Per cui, se Parente si propone come il “D'Orrico di Veronica Raimo”, e Moresco fa schifo a D'Orrico, allora Il dolore secondo Matteo è da leggere assolutamente, fosse solo per dispetto a D'Orrico. Se non altro, mi sono detto, non leggerò di signore che sbirciano dalle tendine sul lago di Como o di improbabili fuoriserie in discesa su una vaporosa Montecarlo. Roba di cui non m'importa nulla, e tantomeno m'importa se adesso D'Orrico mi darà del buzzurro insensibile. Se Veronica non sarà la più grande scrittrice italiana, pazienza, mi accontenterò. D'altronde, dice il saggio, è bello ciò che piace.
Massimiliano Parente è uno che sa scrivere, o perlomeno uno che sa osare, ed è un discepolo di Antonio Moresco, uno degli scrittori italiani più importanti, originali e coraggiosi di questi anni. Non a caso Moresco è detestato da Antonio D'Orrico. Per cui, se Parente si propone come il “D'Orrico di Veronica Raimo”, e Moresco fa schifo a D'Orrico, allora Il dolore secondo Matteo è da leggere assolutamente, fosse solo per dispetto a D'Orrico. Se non altro, mi sono detto, non leggerò di signore che sbirciano dalle tendine sul lago di Como o di improbabili fuoriserie in discesa su una vaporosa Montecarlo. Roba di cui non m'importa nulla, e tantomeno m'importa se adesso D'Orrico mi darà del buzzurro insensibile. Se Veronica non sarà la più grande scrittrice italiana, pazienza, mi accontenterò. D'altronde, dice il saggio, è bello ciò che piace.
In libreria ho trovato Il dolore secondo Matteo nella sezione “narrativa gay”. Durante la lettura mi sono chiesto perché fosse lì, visto che l'omosessualità non è che una delle componenti di un complesso mènage à trois nel quale si dispiegano svariate forme di eros. Volendo privilegiare gli isterismi di Claudia, morbosamente innamorata del protagonista, il romanzo avrebbe potuto stare altrettanto bene nella sezione “sadomaso”. Solo che in quella libreria nessuno ha pensato di crearla: c'erano la narrativa “rosa” (associata, chissà perché, al femminile) e quella gay, e poi tutto il resto (narrativa straniera, italiana, noir, fantascienza, viaggio ecc). La scelta di collocare il libro in un genere, anziché nella narrativa italiana, merita una riflessione. Come molti giovani scrittori, da Tondelli in poi, la Raimo descrive e rappresenta una realtà che non esiste se non per generi, categorie, classificazioni. È il cosiddetto mondo “reificato”, quello che abitiamo e di cui siamo parte. Inevitabile quindi che l'arte, la narrativa, trovi minore difficoltà a rappresentarlo che a travalicarlo per portarne alla luce degli aspetti nuovi e di per sé inquietanti. Per la narrativa contemporanea la complessità attuale non è rappresentabile realisticamente, ma neppure è possibile ricorrere alle categorie simboliche romantico/decadenti: l'intento rimbaudiano d'indagare il mistero delle cose è vanificato. Le cose non s'indagano in un mondo che non permette fughe, e che parafrasando Kundera si è trasformato in una “trappola”. Nell'epoca della massima libertà, lo scrittore è più limitato d'un tempo: non può scegliere di andare oltre, improvvisarsi veggente1; semmai deve districare la sua scelta tra i simboli che le cose rappresentano, discernere o mescolare le icone di quello che usiamo chiamare “immaginario collettivo”.
Veronica Raimo, nel suo bell'esordio, sembra esserne consapevole. Non vuole farsi scegliere dagli oggetti, e quindi narrare di fuoriserie in discesa verso Montecarlo. Superficialmente sta al gioco della rappresentazione, descrive una realtà fatta di generi, classificazioni, gadget e sigle, comportamenti che assurgono a status. Matteo abita la reificazione come tutti noi, sebbene consapevole di non provare dolore (non è capace di empatia), e in quanto narratore in prima persona ne riconosce ogni topos, esplicitandolo. “Sui citofoni le parole: avvocato, dottore, ingegnere, risuonano come i titoli nobiliari di una nuova aristocrazia”, dice di un quartiere residenziale, concludendo che “la deriva finale è un'identità residuale volontariamente priva di qualsiasi fascino; anche quello discreto della borghesia sembra inopportuno”. Delle “biondine” dice che sono “ragazze con i capelli corti e chiari (...) educate, che portano solo pantaloni o gonne leggere al ginocchio, sono convinte di possedere il dono dell'ironia, e di solito ne fanno uso intercalando la loro dizione irreprensibile con forme gergali di esplicita virilità”. Esilarante la diatriba tra Filippo, il compagno di Matteo, e un suo ex convivente riguardo alla liceità, per un vegan convinto, d'ingoiare sperma umano durante una fellatio. In questo mondo di titoli e categorie ecco subentrare la città simbolo dell'immaginario kitschicheggiante: Berlino, qui definita come “la discarica della Storia” in cui “Filippo si trovava ad essere un sodomita giudaico, un collaborazionista dedito a leccare merda dagli stivali del suo superiore, un delatore preso a cinghiate dai suoi camerati isterici, un traditore seviziato da un boia feroce, un prigioniero francese trasformato nella puttanella di corte, un comunista legato a un finto rogo e costretto a rinnegare la propria fede”. In questo magistrale elenco di stereotipi c'è tutta la “moda nefasta del nazi porno-kitsch”, esecrata da Jonathan Littell in una recente intervista2.
Veronica Raimo si muove in tutto questo magistralmente, meglio di molti suoi coetanei e anche di alcuni scrittori post-tondelliani. Forse perché non le basta. Presa dalla necessità di raccontare oltre gli oggetti e gli inevitabili detriti della reificazione, cosciente che non sarà la poesia a permetterglielo, né il ricorso esclusivo a una “narrativa dei sentimenti”, s'immedesima in un narratore spesso digressivo, eppure sintetico nelle sue opinioni e nel linguaggio, e che soprattutto sembra essere immune da quelle ostentazioni di cui gli altri due partecipanti del triangolo cercano di farlo partecipe. D'altronde, all'interno della reificazione anche le passioni più estreme finiscono per non essere autentiche, ma solo un pretesto per darsi una ragione ad esistere. Filippo è ossessionato dalla ritualità, al punto di praticare una fellatio su Matteo ogni mattina nel bagno dell'agenzia di pompe funebri in cui lavorano. Claudia si è data un'identità masochista e riesce ad eccitarsi soltanto mettendo in scena un teatrino da Histoire d'O con il promesso sposo Alberto e poi con Matteo. Quest'ultimo, tuttavia, di lei riesce a cogliere l'aspetto istrionico: “Non sono mai stato intollerante a situazioni erotiche che sanno spudoratamente di falso, in fondo faccio uso costante di pornografia, ma c'era qualcosa di respingente in quel corpo legato sul divano...”. Probabilmente tutto sarebbe più facile se Claudia si presentasse come un oggetto del desiderio, invece continua ad approcciarsi a lui dicendogli “dobbiamo parlare”. L'intesa non arriva perché è Matteo il vero oggetto del desiderio e lei pretende che lui corrisponda all'immagine che se n'è costruita. Per tutta la narrazione Matteo è l'oggetto del desiderio per eccellenza, ma proprio per questo ognuno degli altri personaggi lo riveste delle proprie aspettative.
In questo scenario la morte è onnipresente attraverso l'agenzia di pompe funebri in cui Matteo lavora. Tutti gli altri hanno ambizioni maggiori: Filippo, il figlio dei padroni dell'agenzia, fa il truccatore di cadaveri ma s'immagina un'altra vita insieme a Matteo; Graziana, madre di Filippo, ha rinunziato a fare la cantante per seguire il marito. Claudia si aggrappa al suo lutto per il padre con la stessa teatralità con cui si fa legare agli attrezzi di tortura. La morte riduce gli uomini in cose, ed è inquietante che persino i cadaveri vengano truccati per compiacere le aspettative altrui. “Ogni persona nel momento in cui muore è una persona completa”, secondo Matteo. Eppure tra la vita e la morte, nei funerali, c'è “una tensione erotica concreta, una volontà di corteggiamento che fa parte del rito stesso. (...) le persone sono studiatamente eleganti, ma a differenza di un matrimonio, dove l'ansia di barocchismo trasforma le figure in maschere di carnevale, qui si tratta di un'eleganza che in un servizio di moda verrebbe definita: composta, austera, essenziale”. Siamo sempre nel territorio delle categorie, per avvicinarsi a un'essenzialità e un'autenticità che Claudia e Filippo sembrano non conoscere.
Tornando al condivisibile entusiasmo di Massimiliano Parente per quest'esordio, non conoscendo di persona Veronica Raimo e Nicola Lagioia del rapporto autrice ed editor mi sono fatto anch'io un'idea. Leggendo l'ottima prosa della Raimo, unita ad una straordinaria maturità di pensiero, mi è tornato in mente ciò che un tempo si diceva di certe band musicali che, col proposito di rimanere dure e pure, senza chissà quali compromessi, finiscono per autoprodursi e partorire dei paciocchi; se invece accettano di affidarsi a un buon produttore, premesso il talento, ecco uscire degli album ottimi. Un buon editor, in letteratura, non dovrebbe essere troppo diverso da un buon produttore. E in questo caso i risultati si notano.
Veronica Raimo, nel suo bell'esordio, sembra esserne consapevole. Non vuole farsi scegliere dagli oggetti, e quindi narrare di fuoriserie in discesa verso Montecarlo. Superficialmente sta al gioco della rappresentazione, descrive una realtà fatta di generi, classificazioni, gadget e sigle, comportamenti che assurgono a status. Matteo abita la reificazione come tutti noi, sebbene consapevole di non provare dolore (non è capace di empatia), e in quanto narratore in prima persona ne riconosce ogni topos, esplicitandolo. “Sui citofoni le parole: avvocato, dottore, ingegnere, risuonano come i titoli nobiliari di una nuova aristocrazia”, dice di un quartiere residenziale, concludendo che “la deriva finale è un'identità residuale volontariamente priva di qualsiasi fascino; anche quello discreto della borghesia sembra inopportuno”. Delle “biondine” dice che sono “ragazze con i capelli corti e chiari (...) educate, che portano solo pantaloni o gonne leggere al ginocchio, sono convinte di possedere il dono dell'ironia, e di solito ne fanno uso intercalando la loro dizione irreprensibile con forme gergali di esplicita virilità”. Esilarante la diatriba tra Filippo, il compagno di Matteo, e un suo ex convivente riguardo alla liceità, per un vegan convinto, d'ingoiare sperma umano durante una fellatio. In questo mondo di titoli e categorie ecco subentrare la città simbolo dell'immaginario kitschicheggiante: Berlino, qui definita come “la discarica della Storia” in cui “Filippo si trovava ad essere un sodomita giudaico, un collaborazionista dedito a leccare merda dagli stivali del suo superiore, un delatore preso a cinghiate dai suoi camerati isterici, un traditore seviziato da un boia feroce, un prigioniero francese trasformato nella puttanella di corte, un comunista legato a un finto rogo e costretto a rinnegare la propria fede”. In questo magistrale elenco di stereotipi c'è tutta la “moda nefasta del nazi porno-kitsch”, esecrata da Jonathan Littell in una recente intervista2.
Veronica Raimo si muove in tutto questo magistralmente, meglio di molti suoi coetanei e anche di alcuni scrittori post-tondelliani. Forse perché non le basta. Presa dalla necessità di raccontare oltre gli oggetti e gli inevitabili detriti della reificazione, cosciente che non sarà la poesia a permetterglielo, né il ricorso esclusivo a una “narrativa dei sentimenti”, s'immedesima in un narratore spesso digressivo, eppure sintetico nelle sue opinioni e nel linguaggio, e che soprattutto sembra essere immune da quelle ostentazioni di cui gli altri due partecipanti del triangolo cercano di farlo partecipe. D'altronde, all'interno della reificazione anche le passioni più estreme finiscono per non essere autentiche, ma solo un pretesto per darsi una ragione ad esistere. Filippo è ossessionato dalla ritualità, al punto di praticare una fellatio su Matteo ogni mattina nel bagno dell'agenzia di pompe funebri in cui lavorano. Claudia si è data un'identità masochista e riesce ad eccitarsi soltanto mettendo in scena un teatrino da Histoire d'O con il promesso sposo Alberto e poi con Matteo. Quest'ultimo, tuttavia, di lei riesce a cogliere l'aspetto istrionico: “Non sono mai stato intollerante a situazioni erotiche che sanno spudoratamente di falso, in fondo faccio uso costante di pornografia, ma c'era qualcosa di respingente in quel corpo legato sul divano...”. Probabilmente tutto sarebbe più facile se Claudia si presentasse come un oggetto del desiderio, invece continua ad approcciarsi a lui dicendogli “dobbiamo parlare”. L'intesa non arriva perché è Matteo il vero oggetto del desiderio e lei pretende che lui corrisponda all'immagine che se n'è costruita. Per tutta la narrazione Matteo è l'oggetto del desiderio per eccellenza, ma proprio per questo ognuno degli altri personaggi lo riveste delle proprie aspettative.
In questo scenario la morte è onnipresente attraverso l'agenzia di pompe funebri in cui Matteo lavora. Tutti gli altri hanno ambizioni maggiori: Filippo, il figlio dei padroni dell'agenzia, fa il truccatore di cadaveri ma s'immagina un'altra vita insieme a Matteo; Graziana, madre di Filippo, ha rinunziato a fare la cantante per seguire il marito. Claudia si aggrappa al suo lutto per il padre con la stessa teatralità con cui si fa legare agli attrezzi di tortura. La morte riduce gli uomini in cose, ed è inquietante che persino i cadaveri vengano truccati per compiacere le aspettative altrui. “Ogni persona nel momento in cui muore è una persona completa”, secondo Matteo. Eppure tra la vita e la morte, nei funerali, c'è “una tensione erotica concreta, una volontà di corteggiamento che fa parte del rito stesso. (...) le persone sono studiatamente eleganti, ma a differenza di un matrimonio, dove l'ansia di barocchismo trasforma le figure in maschere di carnevale, qui si tratta di un'eleganza che in un servizio di moda verrebbe definita: composta, austera, essenziale”. Siamo sempre nel territorio delle categorie, per avvicinarsi a un'essenzialità e un'autenticità che Claudia e Filippo sembrano non conoscere.
Tornando al condivisibile entusiasmo di Massimiliano Parente per quest'esordio, non conoscendo di persona Veronica Raimo e Nicola Lagioia del rapporto autrice ed editor mi sono fatto anch'io un'idea. Leggendo l'ottima prosa della Raimo, unita ad una straordinaria maturità di pensiero, mi è tornato in mente ciò che un tempo si diceva di certe band musicali che, col proposito di rimanere dure e pure, senza chissà quali compromessi, finiscono per autoprodursi e partorire dei paciocchi; se invece accettano di affidarsi a un buon produttore, premesso il talento, ecco uscire degli album ottimi. Un buon editor, in letteratura, non dovrebbe essere troppo diverso da un buon produttore. E in questo caso i risultati si notano.
1. Associo liberamente da Augusto Simonini, Storia dei movimenti estetici nella cultura italiana, Sansoni 1985.
2. Da Il venerdì di Repubblica, 5 ottobre 2007
2. Da Il venerdì di Repubblica, 5 ottobre 2007
Claudio Ughetto è nato a Giaveno (TO) nel 1965, dove risiede. Di mestiere fa l'educatore in un Consorzio pubblico. I suoi interessi sono molteplici: letteratura e filosofia, arti figurative e tutto ciò che riguarda l'immaginario. Da anni si sente vicino alla cultura non conformista, nella convinzione che la dicotomia destra/sinistra sia ormai inefficace per leggere e affrontare le questioni contemporanee. Scrive per Diorama Letterario, Arianna e Opifice. Un suo racconto è stato pubblicato nell'antologia Tutti esplosi. Le trame di Opifice (prefazione di Massimo Carlotto, Giulio Perrone editore, euro 12). Di recente ha pubblicato il suo primo romanzo Una falciola di terra (Il Filo, 2007, euro 18).
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