lunedì 19 novembre 2007

La canzone d'autore si innamorò del rock (di Federico Zamboni)

Articolo di Federico Zamboni
Dal Secolo d'Italia, edizione domenicale 11 novembre 2007

Nulla di inedito, per carità. Lo stesso materiale, le stesse diciassette, splendide canzoni di questo imperdibile live di Fabrizio De André e della PFM erano già state pubblicate sia su long playing, quando ancora c’era soltanto il vinile, sia su cd. Unica differenza, il fatto che in un primo tempo si preferì scindere il tutto in due album distinti: il primo, del 1979, con le cose migliori; il secondo, l’anno seguente, con quello che era rimasto fuori.
La sola novità, oggi, è che le registrazioni originali sono state completamente remixate. Cosa che magari non aggiunge un granché, sul piano squisitamente artistico, ma che migliora ulteriormente la qualità dei suoni; e che, soprattutto, ci regala la chance di raccontare come andarono le cose. Di come avvenne che un cantautore rigoroso e fin troppo schivo, com’era il De André di quegli anni, accettasse di andare in tournée con una band prorompente, e inequivocabilmente rock, come la PFM. Di come fu possibile riunire due realtà, due esperienze, due concezioni così lontane, e fonderle in un amalgama straordinario. Raffinatissimo quanto immediato. Costellato di innovazioni quanto rispettoso degli originali. Talmente azzeccato da indurre De André, negli anni e nei tour successivi, a mantenere quegli stessi arrangiamenti. Evidentemente, avevano smesso di essere solo dei vestiti da indossare, per poi cambiarli alla prima occasione, ed erano diventati tutt’uno con la personalità di ciascun brano. I “ragazzi” della PFM avevano fatto il massimo che possa fare un musicista che lavora su qualcosa che non ha composto egli stesso: erano penetrati nell’intimo di ogni pezzo ed erano arrivati al cuore delle sue potenzialità espressive, portando a compimento quello che in precedenza era restato nell’ombra.
Accidenti, se ne valse la pena. Non solo perché le canzoni migliorarono, e perché De André scoprì che esibirsi in pubblico non era poi così terribile, ma anche perché la grandiosa riuscita dell’iniziativa servì da esempio. Agli altri artisti della scena italiana, che non erano abituati a questo genere di interazioni e che si resero conto di quanto potessero essere proficue. E al pubblico: a quella (ampia, amplissima) parte di pubblico che era chiusa nella sua gabbia di aspettative rigide e che credeva, scioccamente, che certe operazioni fossero improponibili. Che sempre, in ogni caso, per principio, la contaminazione equivalesse a una corruzione.
Ed ecco come andò, partendo proprio dall’inizio.
Nel 1978 la PFM si recò a suonare in Sardegna, a Tempio Pausania, e invitò De André al concerto. Naturale: avevano lavorato insieme ai tempi de “La buona novella” e lui aveva la sua casa, la sua fattoria, da quelle parti. Si comincia sempre da una coincidenza. Da una combinazione favorevole di minuscole circostanze che hanno in serbo ben altro. Che contengono al proprio interno un’immensa possibilità di crescita. Una manciata di semi; un’intera foresta.
De André trovò il tempo e la voglia di recarsi al concerto, che gli piacque molto. L’indomani la PFM era libera. De André li invitò a pranzo. Loro ci andarono. A un certo punto Franz Di Cioccio – batterista del gruppo e, come dice lui stesso, “uomo-spogliatoio” – la buttò lì: «Pensa che bello se facessimo un disco insieme. Pensa cosa potrebbe essere “Il pescatore” se la facessimo insieme». De André prese tempo. Ma non certo come un affarista che la tira in lungo per capire se gli conviene davvero e se, mostrandosi restio, può strappare condizioni più vantaggiose. Figurati. De André rimase perplesso perché di colpo, senza aspettarselo, si era trovato di fronte a una possibile svolta del suo percorso artistico. Un bivio intrigante, ma pericoloso. Da una parte la rilettura rock del suo repertorio: l’incontro/scontro col pubblico; la speranza – e il bisogno – di essere nuovamente sorpreso da ciò che aveva già scritto; il desiderio di aprirsi, tornando a cantare dal vivo, e la paura di non farcela, imprigionato senza scampo nel vecchio, estenuante groviglio di maledetta timidezza e di sacrosanto pudore. Dall’altra la tentazione di lasciare tutto com’era: con le canzoni da aspettare senza fretta, da acchiappare quando arrivano, da rifinire a poco a poco; e infine da cantare nella tranquillità, se non proprio nella solitudine, dello studio di incisione. Di qua, per così dire, la solita, solatia California: certezza di bel tempo e promessa di buoni raccolti, anno dopo anno, per tutto il tempo che si vorrà. Di là il Klondike: avventura, scoperta, sfida; territori da esplorare, giacimenti da inseguire, tesori da vincere, o da perdere, in una sola mano di poker; l’ebbrezza della rinuncia a ogni tipo di garanzia.
Franz, il capellone, il girovago, quello che parlava anche a nome degli altri, la faceva facile. Raccontava la parte migliore. Magnificava la bellezza del viaggio, la soddisfazione di lavorare spalla a spalla, il piacere dei fuochi da accendere insieme. Bene, pensò De André. Ma mettiamolo alla prova. Vediamo se fa davvero sul serio. Vediamo di cosa sono capaci, lui e i suoi amici rockettari.
La storia – che viene ampiamente e gustosamente ricostruita dallo stesso Di Cioccio nell’ottimo “Belin, sei sicuro? Storia e canzoni di Fabrizio De André”, curato da Riccardo Bertoncelli – dice che ci furono da affrontare difficoltà di ogni genere, anche se più sul piano amministrativo che su quello artistico. Perchè è così che va, nel mondo dello spettacolo: in scena prevale l’arte; dietro le quinte no. Ma alla fine i pezzi andarono a posto. La macchina si mise in moto. La scommessa venne vinta.Già: la canzone d’autore e il rock non erano affatto in antitesi. Suonare insieme aveva fatto bene a entrambi, sia a De André che alla PFM, e anche al pubblico che era andato a sentirli. Anche a quelli che si erano fatti sfuggire l’occasione e avevano dovuto aspettare di ritrovarli su disco. Lo vedi? Era solo un pregiudizio. Nureyev non sa mica ballare solo sulle punte. Nureyev sa fare meraviglie, e spassarsela, anche a un ballo campestre.
Federico Zamboni, nato a Milano nel 1958 ma cresciuto a Roma, è giornalista e conduttore radiofonico. Tra il 1979 e il 1981, con lo pseudonimo di Claudio Fossati, ha tenuto una rubrica (quasi) fissa sul quindicinale “Linea”, dedicata a quella che allora si chiamava la “musica giovanile”. Dopo aver smesso di scrivere articoli per circa 15 anni, dedicandosi a tutt’altre cose, ha ripreso a pubblicare regolarmente nel 2000. Prima su “Ideazione.com”, poi sui quotidiani “Linea”, di cui è stato caporedattore fino al maggio scorso, e “Il Secolo d’Italia”. Attualmente cura il mensile “L’Officina”, appena ristrutturato in chiave “magazine”.

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