Articolo di Miro Renzaglia
Dal Secolo d'Italia di giovedì 1 novembre 2007
Uno dei modi migliori per distruggere una poesia è cercare di spiegare con altre parole quello che il poeta avrebbe voluto dire se avesse usato la nostra lingua, anziché la sua. Eviterò...
Il modo migliore per scoraggiare la lettura di un libro di poesia è, invece, farne la recensione (recensire, censurare... dio! che etimo simile...), edificando intorno ai versi il casellario giudiziale del critico para-culo-vetero-crociano... Se, poi, i libri da recensire sono due, quello di Sandro Giovannini (Poesie complete, Heliopolis Edizioni, 2007) e quello di Lodovico Pace (Sinistri e Maldestri, Gruppo Ediv Italia, 2007), il rischio di fare male a entrambi è non solo doppio ma elevato a un’ennesima potenza.
Ma siccome a tanto mi appropinquo, conviene dire preliminarmente perché li ho abbinati. Cos’hanno in comune i Nostri? Praticamente, tutto: esclusi gli esordi letterari da adolescenti che li ha trovati logicamente in proprio separato a sudare sulle ludiche carte della poesia, il loro cammino muove maturo da uno stesso medesimo vertice di congiunzione. Ops! ma cosa ho scritto? vertice, forse? Maledizione: Vertex, volevo dire. Vertex, non vertice... Perché è proprio da qui che si parte veramente.
Non so se ricordate i favolosi anni Ottanta. Ora, a dire il vero, di favoloso quegli anni hanno avuto ben poco, a parte la caduta del Muro di Berlino (alla fine...) e la fondazione del Movimento Poesia Tradizione-Vertex (all’inizio...) che, per sovrapprezzo al movimento, alla poesia e alla tradizione, ebbe anche la sfrontatezza di dichiararsi spudoratamente “di destra”. Putacaso ma neanche troppo, il Vertex nasce per ispirazione di Sandro Giovannini e trova tra i co-fondatori della primissima ora, Lodovico Pace...
Cos’è un movimento di poesia? Mah! per un’attività (scrivere poesia) che si realizza prevalentemente in ascesa-discesa solitaria, parlare di gruppo è quasi un controsenso... Ciononostante, dai Fedeli d’Amore, al Futurismo, al Surrealismo, ai Novissimi, ogni tanto qualcuno ci prova a raccogliersi intorno a un manifesto, un progetto, una poetica condivisa.
Così fanno i Nostri. Insieme ad un manipolo di chiarator veggenti, tirano giù un manifesto e pubblicano un’antologia: Né cani sciolti né pecore matte, uscita nel 1982 per i tipi dell’allora Società Editrice il Falco. La medesima comprende i testi di Sandro Giovannini (sotto le mentite spoglie di Anonimus ‘80), Guglielmo Faro, Biagio Luparella, Vincenzo Magno, Mila, Nerio, Lodovico Pace, Vincenzo Pinelli, Enrico Squarcina... E rende pubblico, in appendice, il primo Manifesto (cosiddetto) Romano che, al punto 3, dei 4 in corpo, testualmente declama i suoi “strumenti operativi”: a) naturalismo critico b) mistilinguismo organico c) asintatticismo di rispondenza metafisica d) simbolicità tradizionale e) libertà della forma f) anti individualismo e/o socialismo relativistici g) tensione alla significazione realizzativa h) personalismo corale...
Di tutti i punti, quello che segnerà una linea d’identificazione netta del neonato Movimento è proprio l’ultimo: “personalismo corale” che, detto così, potrebbe apparire misterioso ma che, invece, trova la sua realizzazione leggibile nei due “poemetti corali”: “Trarsi d’impaccio” e “Inquietum cor nostrum”, compresi sempre nella stessa antologia, e in un terzo, ad oggi parzialmente inevaso editorialmente, dal titolo “Mussolini”. Ecco, è proprio il “poema corale” che invera molti degli altri punti progettuali, a partire dall’antindividualismo: è questo il crinale che, in poesia, dall’ “opera-io” conduce all’ “opera-noi”. Concetto che in altri termini vale: l’autore sparisce dietro il suo contributo all’opera corale. E’ la fuoriuscita dell'io soggettivo e particolare dell'artefice solitario di poesia per entrare in officina (o in cantiere, se preferite...), dove lo stile risiede nel progetto e non nel soggetto; dove al prodotto finale sarà posta la firma di una temperie e non di un autore. Il Vertex non fu solo questo. Insieme a questo, ci furono i Campi Hobbit, i readings, i campi di poesia, la rivista “Letteratura”, il bollettino “Xero”, il secondo (e compiuto) Manifesto: “Comunità vo cercando”, le Edizioni Heliopolis e Casa della Poesia... ma è l’introduzione del concetto di “coralità” nella poesia, a modesto parere di chi scrive, la vera novità che contraddistingue il gruppo. E la sua vera eredità.
Ora, pretendere che Giovannini&Pace rimanessero fedeli al progetto “corale” è atto di malafede. E’ chiaro che si sono traditi: come pretende, ed è giusto che sia, qualsiasi prassi che si vuole verificare oltre il già sperimentato. Troppo facile, troppo comodo concludere se stessi nell’immagine dello specchio che ci rimanda ogni giorno la medesima identica immagine. Ed, infatti, esaurita l’esperienza comunitaria del Vertex (primi anni Novanta...), ognuno è tornato a fare poesia per conto suo. Ma andate a leggere le loro rispettive ultime sezioni, fino qui inedite o parzialmente inedite, contenute nei libri in oggetto e ditemi se solo io vi trovo, vi scorgo, vi avverto i segni certi di una somiglianza in essere, non necessariamente in forma, che non può non aver risentito di una comune origine, di una comune destinazione...
Fatto questo lungo ma doveroso preambolo sulla comune matrice poetica di Giovannini e Pace, corre la necessità di aprire i loro libri... Mi rifiuto, preliminarmente, di considerare la loro poesia come opere di militanza politica. Intendiamoci: chi ha attraversato una certa temperie epocale (anni Settanta e dintorni...) vi troverà molto di che riconoscersi. Tanti e tali sono i riferimenti di un passaggio temporale che, malgrado ogni cosa, appartiene a tutta una generazione schierata dalla parte sbagliata... Ma limitare a questo la poesia che gli autori riescono a far scaturire dalla loro penna e dal loro attraversamento umano - e che, detto per inciso sottolineato e in grassetto, non è nemmeno il loro unico pre-testo argomentativo - sarebbe il peccato più grosso che il lettore potrebbe commettere. Quel loro pre-testo, vale quanto qualsiasi altro pre-testo la poesia abbia messo in opera dalle origini della letteratura ad oggi. E non perderei un minuto del mio tempo se fosse al pre-testo “militante” che appellassi l’unica stima letteraria possibile nei loro confronti. Gli è che, signori, giù il cappello: qui siamo alla presenza di poeti veri, non di omeridi domenicali che, in virtù dei loro intimi o pubblici sfaceli, fanno marchette in versi... Ed è anche inutile leggere le loro poesie se si va in cerca di risposte: la prassi letteraria che “a domanda risponde” è dei verbali da commissariato di polizia, non del testo prodotto in un’officina di parole...
Il problema vero che la poesia s’impone ed impone, infatti, è quello del linguaggio: e il linguaggio è sfinge a se stesso... Ed ancora invano lo si potrà com-prendere (prendere-con-sé...) se si va in cerca di messaggi: la poesia è una comunicazione im-mediata e informa solo di se stessa. Ma meglio di come potrei definire io la distinzione fra messaggio grammaticato e linguaggio poetico, lasciate che mi rifaccia al detto di chi di parole, di poesia e di “io” si intendeva assai più di me: "Il linguaggio appartiene, secondo la sua origine nel tempo, alla forma più rudimentale di psicologia: se prendiamo coscienza dei presupposti fondamentali della metafisica del linguaggio - in parole più chiare, della "ragione" - penetriamo in un rozzo feticismo. Esso vede ovunque autore e atto: crede nella volontà come causa in generale, crede nell'Io, nell'Io come essere, nell'Io come sostanza, e proietta su ogni cosa la fede nell'Io-sostanza - solo così crea il concetto di "cosa" [...] La "ragione" nel linguaggio: oh, vecchia infida baldracca! Temo che non ci libereremo di Dio perché crediamo ancora nella grammatica..." (Friedrich Nietzsche, Crepuscolo degli idoli).
Ecco, in Giovannini e Pace il rifiuto della metafisica di un linguaggio che dà all’io poetante la fede in se stesso, già affermato con l’approccio alla prassi poematico-corale del Vertex, può essere stato, in qualche misura, successivamente tradito - come dicevo sopra - ma NON MAI rinnegato. E chissà che l’a-temporale della loro ricerca non consenta l’espressione di ulteriori coralità... Già il fatto che le loro raccolte si concludano all’unisono (e ognuno all’insaputa della ragione dell’altro, lo giuro...) nello stesso medesimo anno, lascia intuire, al di là delle coincidenze, orizzonti pensabili...
Il modo migliore per scoraggiare la lettura di un libro di poesia è, invece, farne la recensione (recensire, censurare... dio! che etimo simile...), edificando intorno ai versi il casellario giudiziale del critico para-culo-vetero-crociano... Se, poi, i libri da recensire sono due, quello di Sandro Giovannini (Poesie complete, Heliopolis Edizioni, 2007) e quello di Lodovico Pace (Sinistri e Maldestri, Gruppo Ediv Italia, 2007), il rischio di fare male a entrambi è non solo doppio ma elevato a un’ennesima potenza.
Ma siccome a tanto mi appropinquo, conviene dire preliminarmente perché li ho abbinati. Cos’hanno in comune i Nostri? Praticamente, tutto: esclusi gli esordi letterari da adolescenti che li ha trovati logicamente in proprio separato a sudare sulle ludiche carte della poesia, il loro cammino muove maturo da uno stesso medesimo vertice di congiunzione. Ops! ma cosa ho scritto? vertice, forse? Maledizione: Vertex, volevo dire. Vertex, non vertice... Perché è proprio da qui che si parte veramente.
Non so se ricordate i favolosi anni Ottanta. Ora, a dire il vero, di favoloso quegli anni hanno avuto ben poco, a parte la caduta del Muro di Berlino (alla fine...) e la fondazione del Movimento Poesia Tradizione-Vertex (all’inizio...) che, per sovrapprezzo al movimento, alla poesia e alla tradizione, ebbe anche la sfrontatezza di dichiararsi spudoratamente “di destra”. Putacaso ma neanche troppo, il Vertex nasce per ispirazione di Sandro Giovannini e trova tra i co-fondatori della primissima ora, Lodovico Pace...
Cos’è un movimento di poesia? Mah! per un’attività (scrivere poesia) che si realizza prevalentemente in ascesa-discesa solitaria, parlare di gruppo è quasi un controsenso... Ciononostante, dai Fedeli d’Amore, al Futurismo, al Surrealismo, ai Novissimi, ogni tanto qualcuno ci prova a raccogliersi intorno a un manifesto, un progetto, una poetica condivisa.
Così fanno i Nostri. Insieme ad un manipolo di chiarator veggenti, tirano giù un manifesto e pubblicano un’antologia: Né cani sciolti né pecore matte, uscita nel 1982 per i tipi dell’allora Società Editrice il Falco. La medesima comprende i testi di Sandro Giovannini (sotto le mentite spoglie di Anonimus ‘80), Guglielmo Faro, Biagio Luparella, Vincenzo Magno, Mila, Nerio, Lodovico Pace, Vincenzo Pinelli, Enrico Squarcina... E rende pubblico, in appendice, il primo Manifesto (cosiddetto) Romano che, al punto 3, dei 4 in corpo, testualmente declama i suoi “strumenti operativi”: a) naturalismo critico b) mistilinguismo organico c) asintatticismo di rispondenza metafisica d) simbolicità tradizionale e) libertà della forma f) anti individualismo e/o socialismo relativistici g) tensione alla significazione realizzativa h) personalismo corale...
Di tutti i punti, quello che segnerà una linea d’identificazione netta del neonato Movimento è proprio l’ultimo: “personalismo corale” che, detto così, potrebbe apparire misterioso ma che, invece, trova la sua realizzazione leggibile nei due “poemetti corali”: “Trarsi d’impaccio” e “Inquietum cor nostrum”, compresi sempre nella stessa antologia, e in un terzo, ad oggi parzialmente inevaso editorialmente, dal titolo “Mussolini”. Ecco, è proprio il “poema corale” che invera molti degli altri punti progettuali, a partire dall’antindividualismo: è questo il crinale che, in poesia, dall’ “opera-io” conduce all’ “opera-noi”. Concetto che in altri termini vale: l’autore sparisce dietro il suo contributo all’opera corale. E’ la fuoriuscita dell'io soggettivo e particolare dell'artefice solitario di poesia per entrare in officina (o in cantiere, se preferite...), dove lo stile risiede nel progetto e non nel soggetto; dove al prodotto finale sarà posta la firma di una temperie e non di un autore. Il Vertex non fu solo questo. Insieme a questo, ci furono i Campi Hobbit, i readings, i campi di poesia, la rivista “Letteratura”, il bollettino “Xero”, il secondo (e compiuto) Manifesto: “Comunità vo cercando”, le Edizioni Heliopolis e Casa della Poesia... ma è l’introduzione del concetto di “coralità” nella poesia, a modesto parere di chi scrive, la vera novità che contraddistingue il gruppo. E la sua vera eredità.
Ora, pretendere che Giovannini&Pace rimanessero fedeli al progetto “corale” è atto di malafede. E’ chiaro che si sono traditi: come pretende, ed è giusto che sia, qualsiasi prassi che si vuole verificare oltre il già sperimentato. Troppo facile, troppo comodo concludere se stessi nell’immagine dello specchio che ci rimanda ogni giorno la medesima identica immagine. Ed, infatti, esaurita l’esperienza comunitaria del Vertex (primi anni Novanta...), ognuno è tornato a fare poesia per conto suo. Ma andate a leggere le loro rispettive ultime sezioni, fino qui inedite o parzialmente inedite, contenute nei libri in oggetto e ditemi se solo io vi trovo, vi scorgo, vi avverto i segni certi di una somiglianza in essere, non necessariamente in forma, che non può non aver risentito di una comune origine, di una comune destinazione...
Fatto questo lungo ma doveroso preambolo sulla comune matrice poetica di Giovannini e Pace, corre la necessità di aprire i loro libri... Mi rifiuto, preliminarmente, di considerare la loro poesia come opere di militanza politica. Intendiamoci: chi ha attraversato una certa temperie epocale (anni Settanta e dintorni...) vi troverà molto di che riconoscersi. Tanti e tali sono i riferimenti di un passaggio temporale che, malgrado ogni cosa, appartiene a tutta una generazione schierata dalla parte sbagliata... Ma limitare a questo la poesia che gli autori riescono a far scaturire dalla loro penna e dal loro attraversamento umano - e che, detto per inciso sottolineato e in grassetto, non è nemmeno il loro unico pre-testo argomentativo - sarebbe il peccato più grosso che il lettore potrebbe commettere. Quel loro pre-testo, vale quanto qualsiasi altro pre-testo la poesia abbia messo in opera dalle origini della letteratura ad oggi. E non perderei un minuto del mio tempo se fosse al pre-testo “militante” che appellassi l’unica stima letteraria possibile nei loro confronti. Gli è che, signori, giù il cappello: qui siamo alla presenza di poeti veri, non di omeridi domenicali che, in virtù dei loro intimi o pubblici sfaceli, fanno marchette in versi... Ed è anche inutile leggere le loro poesie se si va in cerca di risposte: la prassi letteraria che “a domanda risponde” è dei verbali da commissariato di polizia, non del testo prodotto in un’officina di parole...
Il problema vero che la poesia s’impone ed impone, infatti, è quello del linguaggio: e il linguaggio è sfinge a se stesso... Ed ancora invano lo si potrà com-prendere (prendere-con-sé...) se si va in cerca di messaggi: la poesia è una comunicazione im-mediata e informa solo di se stessa. Ma meglio di come potrei definire io la distinzione fra messaggio grammaticato e linguaggio poetico, lasciate che mi rifaccia al detto di chi di parole, di poesia e di “io” si intendeva assai più di me: "Il linguaggio appartiene, secondo la sua origine nel tempo, alla forma più rudimentale di psicologia: se prendiamo coscienza dei presupposti fondamentali della metafisica del linguaggio - in parole più chiare, della "ragione" - penetriamo in un rozzo feticismo. Esso vede ovunque autore e atto: crede nella volontà come causa in generale, crede nell'Io, nell'Io come essere, nell'Io come sostanza, e proietta su ogni cosa la fede nell'Io-sostanza - solo così crea il concetto di "cosa" [...] La "ragione" nel linguaggio: oh, vecchia infida baldracca! Temo che non ci libereremo di Dio perché crediamo ancora nella grammatica..." (Friedrich Nietzsche, Crepuscolo degli idoli).
Ecco, in Giovannini e Pace il rifiuto della metafisica di un linguaggio che dà all’io poetante la fede in se stesso, già affermato con l’approccio alla prassi poematico-corale del Vertex, può essere stato, in qualche misura, successivamente tradito - come dicevo sopra - ma NON MAI rinnegato. E chissà che l’a-temporale della loro ricerca non consenta l’espressione di ulteriori coralità... Già il fatto che le loro raccolte si concludano all’unisono (e ognuno all’insaputa della ragione dell’altro, lo giuro...) nello stesso medesimo anno, lascia intuire, al di là delle coincidenze, orizzonti pensabili...
Miro Renzaglia è nato a Roma nel 1957. Ha pubblicato Controversi (E.C.D.P. Milano, 1988), I rossi e i neri (Settimo Sigillo, Roma, 2002). Nel 1990 ha fondato la rivista Kr 991 che ha diretto fino al 1999. Suoi testi poetici sono presenti in antologie, riviste e DVD. In qualità di saggista, critico letterario e di costume, collabora (o ha collaborato) a quotidiani, periodici e siti web, fra cui: Secolo d'Italia, Linea, Rinascita, Letteratura Tradizione, Orion, Occidentale, Noreporter. Ha partecipato a molte iniziative di Casapound. Collabora al Progetto Polaris, per il quale ha partecipato alla realizzazione di due DVD: Metastasi e Capitalismo e Multinazionali (Produzione Trifase, Roma, 2004). È autore e performer del concerto di musica-poesia Radiografia di uno sfacelo (CD registrato in proprio, Roma, 2003), rappresentato in diverse città italiane.
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